La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.
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Tutti i suoi atti sono ammantati di reticenza: “…e non voleva che alcuno sapesse” (Mc 9, 30). Gesù è per tutti, ma non è di tutti. Anche il cristianesimo ha una sua aristocrazia: alcune cose, infatti, Gesù le dice solo ai Dodici. Ma questa è una aristocrazia capovolta.
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Nel 2006, per la collana ‘Filopógon’ diretta da Giancarlo Pontiggia per l’editore Medusa, ho tradotto Il libro della Sapienza. Pur non essendo accolto nella Bibbia ebraica, quello è uno dei libri più alti, letterariamente, del canone. “Trappole al giusto…/ ai nostri atti fa contrasto// Sciacallaggio nei nostri pensieri/ ci fa peso il suo passare// ché altra dagli altri la sua vita/ speciale la sua via”. Il giusto non ha altro sapere che allinearsi, lieto, alla sapienza di Dio. Per questo è odiato dagli uomini: “Proviamolo con infamie e torture/ studiare limite di mitezza/ giudicare carico sostenibile di male”.
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Chi vive in prossimità di Dio è tormentato dagli uomini: lo sa anche Dostoevskij. “Il figlio dell’uomo è preso da mani umane, e lo uccideranno, e ucciso sorgerà dopo tre giorni” (Mc 9, 31). La verità sconvolgente del Vangelo – che corrisponde al sapere della Sapienza – è questa: il giusto sarà ucciso per espiare il male. Il giusto, semmai, sarà ucciso per nulla – sterminio di innocenti a tappezzare la voluttà di Dio.
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Incapaci di pensare alla morte (“non comprendevano… avevano paura di interrogarlo”, Mc 9, 32), i Dodici ragionano sul potere, “avevano discusso sulla via su chi era il maggiore” (Mc 9, 34). La reticenza di Gesù è tale che sono pressoché infime, inutili le fonti sulla sua vita terrena. L’uomo che ha cambiato la storia per la Storia – fatta dai vincitori, i Romani – non esiste. I Dodici sono ancora lì, ancorati alla Storia, quella morgana.
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“Sophia è pura, pacifica, affabile, arresa, pietosa, offre buoni frutti, imparziale, mai ipocrita”: così Giacomo decifra la Sapienza. “Da dove la guerra, da dove la lotta? Dalla passione che scuote le vostre membra. Bramate e non ottenete, uccidete, invidiate, non avete ancora; allora combattimento e ferocia” (Gc 4, 1-2). Le parole di Giacomo sembrano quelle di un maestro buddhista che predica l’estinzione dalle passioni: “Dall’intimità nascono gli affetti e, in conseguenza, nasce il dolore; considerando il pericolo inerente agli affetti vai solitario come un rinoceronte… libero dalle brame dei sensi certamente non entrerà di nuovo nel grembo materno” (Sutta Nipata, traduzione di Vincenzo Talamo). In realtà, la parola usata da Giacomo che traduciamo con ‘passione’ è legata a ‘edonismo’, il culto del piacere. Sapienza significa anelare il bene, non il piacere. Se il buddhismo rincorre l’assenza di passioni, al contrario, il cristianesimo nasce intorno alla passione di Cristo; se il buddhismo giunge alla compassione, il cristianesimo è appassionato a tutte le cose.
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“Se qualcuno vuole essere il primo sarà l’ultimo, servo di tutti” (Mc 9, 35). Il potere come servizio, come servaggio: questa è la sapienza. La primizia del potere è servire gli altri. Chi serve non ha paura di niente, neanche della morte; chi è servito ha bisogno di tutto.
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“Prese un bambino, lo mise nel mezzo, lo abbracciò…” (Mc 9, 36): da dove viene questo bambino? Come avrà reagito di fronte a un estraneo – che forse non è mai stato così familiare – che lo afferra? Il bambino non è simbolo di una generica ingenuità – Sant’Agostino ha scritto pagine felici sulla malizia dei bimbi. Gesù preferisce la reticenza, le città periferiche, i pochi: preferisce la compagnia dei bambini a quella degli adulti che credono se avviene il miracolo. Il bambino è più propenso alla fede e visto che non conosce la morte, non ne ha paura.
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Il bambino non ha paura di morire. Il vero potere è trascendere la morte, sopravvivere alla paura del sopruso. Il giusto è tale perché qualcuno si accanisce con i canini su di lui, senza altro motivo se non il fastidio che provoca il bene. Durante il martirio, sotto il regno di Settimio Severo, nell’arena cartaginese, Perpetua afferra il gladio del romano, troppo debole, per mozzarsi il collo, facilitando l’opera al militare – che gesto di truculenta grazia. L’unica sapienza è saper morire. (d.b.)