02 Marzo 2024

Finalmente Rousseau! Un genio osteggiato e ritrovato

Di tanto in tanto, se si presti un poco di attenzione e anche si abbia un briciolo di fortuna, la piccola editoria non improvvisata riserva piacevoli sorprese.

Le opere in cui Jean-Jacques Rousseau si manifesta maggiormente sono senz’altro quelle autobiografiche (osservazione non scontata), a principiare dalle Confessioni. In tal senso l’altra – purtroppo incompiuta per la morte dell’autore, o forse compiuta proprio perché interrotta – sono le Fantasticherie del passeggiatore solitario (e non Le passeggiate del sognatore solitario, come qualcuno che si crede intelligente fa circolare), una delle opere più dolenti e toccanti della letteratura europea, e che si può dire fondativa, insieme forse alle Confessioni, del Romanticismo francese.

Ce n’è poi una terza che, quasi scommetterei, se non si sia stati particolarmente attenti alla biografia rousseauiana potrebbe essere sfuggita, ed è Rousseau giudice di Jean-Jacques, composta da tre Dialoghi tra i due attori più un «Francese». Possiamo dire che questi Dialoghi – scritti tra il 1772 e il 1776, ma usciti soltanto tra l’80 e l’82, ossia anch’essi postumi – sono un ponte non solo cronologico ma altrettanto psicologico e poetico tra le altre due opere.

Ora, benché il Ginevrino sia uno degli scrittori più celebri al mondo, tanto per la sua eccezionale prosa, quanto per le sue idee che hanno influenzata a vari titolo e grado vasta parte dei nomi più alati della cultura europea a lui coeva e  altrettanto successiva (almeno sino a quando essa non commise suicidio), nonché per una biografia tra le più avvincenti che si possano incontrare, i Dialoghi sono stati trascurati a lungo, e ad esempio in Italia la prima e unica edizione risale al 1972, annessa al poderoso tomo delle Opere pubblicate da Sansoni e oggi introvabile. Un fatto assai grave vista l’eccezionalità del testo.

Pone tuttavia rimedio alla lacuna Marchese Editore, gruppo di giovani e appassionati letterati napoletani, grazie ai quali a breve usciranno le fondamentali quattro lettere a Malesherbes.

Purtroppo i Dialoghi non sono una nuova versione, ed è forse un peccato, ma la ripresa di quella poc’anzi citata, con solo l’aggiunta di un breve scritto a guisa d’introduzione e d’un saggetto, che è il capitolo d’un libro su Rousseau uscito nel 2007 altrove.

Il grande merito va però egualmente riconosciuto e sottolineato: i Dialoghi sono un’opera cruciale per capire non solo Rousseau ma un’intera epoca, in ogni senso decisiva per l’Europa; e identico discorso valga per le quattro epistole, le quali per certi versi sono parte integrante del trittico autobiografico rousseauiano. I Dialoghi però hanno qualcosa di davvero speciale. Essi molto di più delle Confessioni dimostrano la capacità e l’onestà di Rousseau di confrontarsi con sé stesso, di mettersi a nudo contro sé stesso; ma sbaglierebbe chi li ritenesse “solo” un esercizio di introspezione pur sagace e ardito. Qui c’è in gioco anche altro e di fondamentale: l’onore di Rousseau.

Non mi stancherò mai ripeterlo: studiare la biografia di uno scrittore o d’un artista è fondamentale se non si voglia rischiare, come quasi sempre capita, di tirare a indovinare o di lasciar correre il pensiero dietro ipotesi e congetture fondate sul nulla. Rousseau è uno dei più vilipesi e calunniati scrittori della storia, così tanto da apparire ogni suo accenno o lamentela, secondo moltissimi critici, frutto di paranoia. Una paranoia aumentata nei tempi nostri con la parola stupida e insultante, arma di chi è privo di argomenti, di «complottista».

Qui non possiamo riassumere le lunghe e dolenti vicende che hanno segnata gran parte della vita di Rousseau a causa di insospettabili figure, quali ad esempio Voltaire e d’Alembert, il quale ultimo, inoltre, plagiò Rousseau come è espressamente detto nei Dialoghi ed evidentissimo. Non ci fu aspetto della vita di Rousseau lasciato libero dall’assedio di malevolenza: dalla vita privata a quella creativa, e ciò nonostante egli stesso avesse fatto voto, mantenuto, di non celare nulla al pubblico: ad esempio la noiosa vicenda dei figli abbandonati in orfanotrofio, che tuttavia qualcuno sospetta sia o molto ingigantita, o persino inventata. Eppure, alcune delle grandi menti di allora si accanirono contro quest’anima sensibile come, ripeto, raramente è accaduto nella storia, fatti salvi i vari “mostri politici”.

A ciò si aggiunga la contraffazione degli scritti, e non certo a vantaggio dell’autore.

Una triste e complessa vicenda, insegretita o almeno assai annacquata dalla critica, che disonora tutti e a cui i Dialoghi sono la meritata e sincera quanto impotente risposta a contemporanei e posteri, critici storici e lettori che siano; essi davvero lumeggiano un volto oltremodo spiacevole e urticante, e della personale avventura umana rousseauiana, e – per affatto diversi motivi – di alcuni protagonisti di quel così esaltato torno di tempo che fu l’Illuminismo.

Il tentativo di spiegarsi smentire denunciare le scorrettezze e scoperchiare le falsità fu tuttavia inutile. Lo sforzo che si può dire titanico di Rousseau cadde pressoché nel vuoto, come dimostrano le Fantasticherie sin dal loro celebre attacco autobiografico.

Se le Confessioni sconcertano ma entusiasmano pressoché sotto ogni riguardo e le Fantasticherie amareggiano, è difficile descrivere il sentimento che suscitato i Dialoghi, senz’altro screziato e sfaccettato, un misto di rabbia per le verità raccontate, sbigottimento per i guasti occorsi all’autore, ammirazione per il coraggio di chi avrebbe avuto tutti i diritti o di farsi saltare le cervella, oppure di farle saltare ad altri, dovendo tuttavia compiere un’autentica strage.

Il lettore potrà essere anche scocciato dal tono non di rado lamentoso di Rousseau, qui come nelle Fantasticherie, e si può capire. Ma il suggerimento è di superare questo ostacolo, se così poi si può chiamare, e di tentare di immedesimarsi nell’anima che ci sta parlando. Di giudici, in questi Dialoghi, ce ne sono già troppi, così come troppi ce ne sono stati nella vita di Rousseau a che ci si metta anche noi a fargli vibrare davanti al naso il nostro dito ovvero un cappio morale.

Non sarà ozioso ora ricordare, che la parola «autobiografia» fu coniata dai fratelli Schlegel naturalmente nella loro lingua – Selbstbiographie – all’apposito fine di battezzare un nuovo genere letterario inaugurato proprio dalle Confessioni di Rousseau, al quale si deve di fatto la fondazione di questa forma anche attraverso il rigetto dei presunti e illustrissimi esempi precedenti, in ispecie le Confessioni agostiniane, da cui Rousseau con sì provocatoria ma altrettanto autonoma intenzione ripiglia il titolo per marcare appunto la profonda distanza che separa il suo capolavoro dalle sublimi cianfrusaglie dell’Ipponate.

Rousseau era un animo inquieto e franco e si era avveduto quanto la pretesa “autobiografia” del santo fosse solo un coacervo di menzogne più o meno edificanti e di vanterie mal dissimulate, una sorta di romanzo in cui come negli altri analoghi «l’autore cerca ben più di brillare lui stesso anziché di ricercare la verità». Rousseau, infatti, fonda un genere che non serve per l’appunto a far di vetrina per lo scrittore al fine di passare alla storia ed essere innalzato agli altari, ma a immergersi dentro di sé medesimi alla ricerca del proprio intimo, quindi della verità. E possiamo persin dire che Rousseau, credente more suo, non bigotto né cristianissimus – in maniera tale che la «Professione di fede» scoterà le ire inquisizionali d’un Voltaire! – è il primo moderno a mettere in pratica l’antico precetto delfico, ovvero il detto eracliteo, e altrettanto il fondamento morale e ascetico della mistica cristiana, che dai “pagani” anche questo rubò, in più esponendone il resultato in pubblico. E ciò con quella schiettezza ignota all’ambizioso Agostino e senza la sua leziosità.

I Dialoghi sono davvero una delle letture più alate e profonde, dense e sentite che si possan trascegliere da quegli anni e di tutta la letteratura europea. Bravi quindi ai giovani, che hanno dato loro una seconda vita, facendo al contempo vergognare, postoché ne siano ancora capaci, gli impiegati statali d’università, cioè i professori, e in generale gli addetti alla cultura.

A proposito di professori, va però detto che di tanto in tanto qualche eccezione c’è, come dimostra Rousseau, illuminista inquieto di Marco Menin (Carocci Editore), il quale ha il coraggio di denunciare espressamente la rimozione non solo dei Dialoghi ma di tutto il trittico autobiografico di Rousseau:

«Si tratta di una presa di posizione miope e ingiustificata, che perde di vista la natura intrinsecamente filosofica che l’autobiografismo assume nel pensiero del ginevrino».

Sebbene Menin eviti accuratamente di entrare in polemica – e ciò nel rispetto della regola per cui tra accademici (pubblicamente) non ci si tocca –, espone in maniera compiuta in un denso capitolo quella “natura filosofica”; un capitolo armonico per eleganza e acume con tutto il libro, il quale tuttavia segna tre stecche non dappoco.

Anzitutto esso scorre placido come un fiume in pianura, quando invece, visto il soggetto, dovrebbe essere tumultuoso come uno di montagna o come una cascata amazzonica, sì da restituire compiutamente il personaggio e il pensatore.

La seconda è un autentico paradosso, ché mentre Menin, ripeto, giustamente, sottolinea l’importanza dell’autobiografismo rousseauiano, egli si sbarazza proprio della vita di Rousseau in tre paginette. Un contegno bizzarro ma ormai classico nella pubblicistica accademica, e non solo: vita da una parte, opere dall’altra. Alla più parte degli autori è estraneo il concetto di biografismo. I fatti della vita sono quasi orpelli di cui si deve bensì trattare, ma alla veloce, e poi precipitarsi al sacro commento. Lo scrittore, il musicista, il pittore, il filosofo se ne stiano seduti buoni buoni: e che ascoltino il critico!

Terza e ultima, mi pare che Menin sfugga da una presa di posizione circa le persecuzioni subite da Rousseau, e anzi quasi consenta con la diffusa tesi della paranoia. Prudenza di accademico? Chiamiamola così.

Il libro in ogni caso è già meglio di tant’altre ciarle su Rousseau, e Menin si dimostra in generale un critico attento e utile, tantoché in un prossimo articolo tornerò ancora su di lui perché autore d’una notevole monografia su de Sade. Frattanto il lettore si scopra, soprattutto e doverosamente da sé, Jean-Jacques Rousseau attraverso questi Dialoghi, da cui potrà ripartire per una rifusione personale dell’immagine.

Luca Bistolfi

Gruppo MAGOG