Di un poeta, bisogna scovare il punto morto, il bivio, la crisi. Il luogo critico – il roveto ardente, forse –, della mente e del cuore; lo zenit in cui il poeta potrebbe non essere più poeta. Il sepolcro. L’ora-o-mai-più.
Ogni poeta si rivela nel punto in cui potrebbe non essere più poeta. Nel punto in cui fugge la chiamata, come Giona, in cui si bestemmia. Il poeta è nel punto in cui non è più poeta. In cui è tutti e nessuno. Benedetto e maledetto assieme. Ogni poeta ha il suo 1805, l’anno in cui Hölderlin è dichiarato “caduto in una sorta di follia”; ogni poeta ha la sua ‘torre’, il suo Zimmer, il suo Neckar; ha il suo 1810 manzoniano, la sua Chiesa di San Rocco e la sua Villa di Castelpulci, l’ospedale psichiatrico che dal 1918 ospita Dino Campana, perché in questo caso la conversione e la mania, il redento e l’irredentismo spirituale, l’Hôtel-Dieu e la casa dei matti sono la stessa cosa. Ogni poeta – ogni uomo, si auspica – ha il punto che lo annulla, sperimenta l’istante che lo annienta, che lo rende mutilo, balbuziente al vivere; irriconosciuto e irriconoscente, smadonnato, indottrinato di fraintesi. Il poeta si scopre poeta quando nessuno lo crede tale, quando non gli resta che la tara, mentre la stola finisce nel fango.
Ezra Pound ridotto in gabbia, a Coltano; Antonin Artaud a Rodez; Paul Celan sedotto dal tuffo nella Senna; Bruno Schulz con il proiettile che gli ingioiella il cranio, è il 1942, un ufficiale della Gestapo lo ammazza per gioco; Osip Mandel’štam sfinito in un campo di transito, presso Vladivostok: muore dopo aver biascicato Petrarca, consapevole – lo scrive Varlam Šalamov – che “Il meglio è ciò che non viene annotato, che è stato creato e scompare, che si scioglie senza lasciare traccia, è solo il lavoro creativo che il poeta sente, e che non si può confondere con nient’altro”.
Il punto di autodistruzione del poeta.
Ogni poeta ha la sua Aden, la sua Harar, il suo Aphinar. Luoghi e miraggi d’Africa dove la poesia muore per accattonaggio, è quella cosa scalza, la donna ripudiata, la prostituta gravida d’aborti, rifiutata. Memorabile smarrimento, quello di Arthur Rimbaud: perché il poeta ha dismesso il sacerdozio lirico, il veggente si è fatto mendicante, mercante d’armi, avventuriero di riporto?
Aden, Harar… scenografie eccellenti per un romanzo di Joseph Conrad, squallido sobborgo in cui incanutisce il destino di Rimbaud.
Ah, Rimbaud, il poeta in fiamme! “Buttando nel fuoco Une saison en enfer, l’unica tra le sue creazioni alla quale annettesse un po’ d’importanza, Arturo Rimbaud non fece che conformarsi al suo nuovo modo di considerare la vita e la bellezza”, scrive Ardengo Soffici nel 1911, in un saggio esaltato e pionieristico, confermando la formula che il poeta volesse “fare di se stesso… il proprio capolavoro”. È curiosa la sintonia che Soffici dimostra verso Rimbaud, paragonata all’indifferenza con cui tratterà, poco dopo, Dino Campana.
Confermò in vita ciò che aveva scritto su carta, Rimbaud. “Ho tutti i talenti! – Non c’è nessuno qui, e c’è qualcuno: non vorrei sperperare il mio tesoro. – Volete canti negri, danze di uri? Volete che sparisca, che mi tuffi alla ricerca dell’anello? Lo volete? Farò dell’oro, dei medicamenti”, scrive il poeta che fa lo scalpo al fuoco. Tornò in Inghilterra, fu a Stoccarda e a Milano; in Olanda, a Hardewijk, si arruola come soldato presso l’ufficio coloniale; tocca Giacarta, diserta; vuole partire per gli Stati Uniti, opta per Alessandria d’Egitto, approda ad Aden. La mappa dei viaggi di Rimbaud è consustanziale alle sue poesie: ogni paese attraversato dal poeta – Aden, Ankober, Galimaÿ, Scioa… – pare una cifra lirica, un rebus. A Marsiglia, moribondo, gli imposero una conversione.
Della vita africana di Rimbaud sappiamo tutto, giorno per giorno: la setacciamo per rintracciare la nostra defezione alla vita più che il suo tradimento alla poesia. Secondo alcuni, è l’Africa il coronamento della poetica di Rimbaud, la sua superba realizzazione. Eppure, Aden non è un Eden, Harar non è Katmandu, l’Africa rimbaudiana non è l’India di Hermann Hesse né la Tangeri dei beat. L’Africa di Rimbaud non è neanche il cuore di tenebra di Conrad, il senso dell’insensatezza, il magnetico magistero dell’orrore, orrore. Tutto pare poco romanzesco, poco poetico, bensì brutale, come lo è la vita, come chi vuole ferrare i cavalli del fato. Su Rimbaud in Africa (Guida, 1993) ha scritto uno studio minuzioso e straordinario per mole documentaria – sono 910 pagine – lo storico Carlo Zaghi. Tirando le conclusioni, vien fuori una verità “ridotta e modesta”, riassunta così:
“La verità è che in Africa Orientale, al Harar come allo Scioa, Rimbaud è un isolato e, come commerciante e viaggiatore, protagonista di un’avventura senza storia. C’è in lui qualcosa d’inafferrabile che lo distacca e lo distingue da tutti quelli che gli sono accanto”.
Che in questa solitudine, in questo status di avventuriero senza storia, di figura inafferrabile, realizzata in “quel suo eterno riserbo” sia l’autentica poetica di Rimbaud, sarà il lettore a dirlo. Ogni frase, appiccicata ai piedi di Arthur, prende il volo di un romanzo.
Il mito di Rimbaud esplose con l’entità speciale di uno sparo. Il ragazzo ha avuto agiografi, un numero imprecisato di miniatori. In un bel libro di qualche anno fa, Rapsodia selvaggia (Marietti, 2008), Adriano Marchetti ha allineato la vasta schiera di “Interpreti francesi di Rimbaud”. Da Paul Valéry a René Char, da Blanchot a Bataille e Julien Gracq, tutti a svelare – ovvero, a mistificare – il mistero Rimbaud. Il testo più bello, nella pletora dei commenti d’ornamento lirico – cioè: setacciare una metafisica entro una scelta del tutto fisica, terra-terra, di terrea banalità –, s’intitola Il silenzio di Rimbaud (Portatori d’acqua, 2013), lo ha scritto Gabriel Bounoure, studioso che preferì il pudore al clamore, la latitanza tra i lati in ombra del letterario. Bounoure ci fa capire qual è il prato in cui scoscendere per incontrare Rimbaud:
“Un vero poeta e un uomo di lettere, nonostante le apparenze, sono diagonalmente contrapposti, in modo tale che ciascuno dei due contiene, irriducibile e esplosiva, la negazione dell’altro… Rimbaud ha cercato i paesi più aridi per consacrare loro la sua stessa aridità, per diventare una vana fiamma di quel fuoco… Deve ad ogni costo andarsene dalla sua opera verso uno spaesamento assoluto… Il silenzio di Rimbaud è più vivo di tutto quello che ha scritto”.
A differenza degli altri, Pierre Michon sceglie di non scrivere uno studio su Rimbaud. Ne interpreta la vita, la intaglia come se fosse un coltello di legno, la svia, ne estorce la saliva, ne fa una delle sue vies minuscules. Si avvia, in sfida, dentro il verbo incendiato di Rimbaud, di cui restano ceneri e fraintesi, compone una sinfonia biografica, un apocrifo, in fondo, promessa dismessa, patto che contiene il vitello d’oro. Pubblicato in origine nel 1991, da Gallimard, Rimbaud le fils – tradotto con granitica gioia e giusta foia da Leo Ninor per De Piante Editore come Rimbaud, 2023 –è una fibbia orfica, l’obolo di Caronte per affrontare lo spettro del bimbo angelico e maledetto, della madre maldicente e bigotta, dei professori imbolsiti, imbottiture di luce, mattanza. Non puoi avvicinare altrimenti l’enigma Rimbaud se non esautorandolo, sputtanandolo per eccesso d’ampiezza. Oh, ecco, Rimbaud le fils: si tratta di mozzare la lingua a Rimbaud, per riverginare il mito. Eccoci. Che ciascuno, oggi, provi la sua poesia – cioè, la propria vita – al vaglio di Aden.
Come si sa, morì nel 1891, Rimbaud, a Marsiglia, dopo un ritorno penoso dall’Africa, rotto da un tumore maligno, la gamba sfiancata, amputata. Vent’anni prima, nel 1871, si diceva veggente, voyant; si scoprì teppista, voyou; era un uomo convocato all’altrove, a quei bassifondi, al logorio. Aprì, inconsapevole – ben più che Napoleone –, una via africana agli scrittori francesi: da Michel Leiris ad André Gide e Malraux, un po’ tutti, prima o dopo, hanno scritto delle loro imprese in Africa. Hanno scritto, appunto, bene, benissimo, meno bene, da scrittori. Rimbaud, ancora una volta, è altrove, li tiene sotto scatto, sta nell’indimostrabile, nell’indubbio, ha fatto falò di angeli, vangeli, leggende. (d.b.)
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Pierre Michon, Rimbaud
Non si sa precisamente che cosa sia la Saison; è ritenuta solo alta letteratura, poiché quelle due voci, quella del re in adorazione e quella del profeta fuori di sé, rappresentano tutta la letteratura, nella quale si affrontano. È più commentata dei Vangeli; fra il canto celeste e la bestemmia, non ci vediamo chiaro; è una rinuncia che non rinuncia; il sì e il no non vi sono distinti; e chini là sopra, con i nostri zucchetti di seta, distinguiamo incessantemente quel sì da quel no.
Si dice che tutto l’Occidente si sia scontrato con la Saison; che tutte le sue contraddizioni vi girano come in una ruota di mulino, vi si infrangono come l’acqua sulla ruota e ne escono intatte come l’acqua dalla ruota. Come l’acqua nella ruota, si vede bene che essa esulta; non possiamo decidere se ponga fine all’Occidente o se ancora una volta lo rilanci; ma tutti ritengono, a torto o a ragione, che sia stato un miracolo aver scritto a diciannove anni, in un granaio delle Ardenne, quella manciata di fogli ermetici come Giovanni, aspri come Matteo, esotici come Marco, civilizzati come Luca; e, come Paolo di Tarso, aggressivamente moderni, ossia schierati contro il Libro, rivali del Libro.
E naturalmente manca qualcosa: poiché quei foglietti non hanno altro modello evangelico che il “se stesso”, il povero e vuoto se stesso, fosse pure un altro, e non davvero l’altro, il pezzente, il glorioso di Nazareth. La Saison è forse un’anticaglia, rispetto al Vangelo. Poco importa, ora è uno dei nostri Vangeli. Il giovane Geremia ha vinto, è stato più forte della letteratura, pur facendovi ancora parte; ci ha in pugno.
Ha scritto la Saison.
Lo immagino uscire di notte nel cortile di Roche, quando i mietitori dormono. Anche lui ha lavorato bene. È luglio, con le grandi stelle; sotto le stelle ci sono covoni nella notte, come nella storia di Booz. Non vediamo Rimbaud, che pure è là, con i capelli arruffati, gli occhi ben aperti, la vasta mano, tutti i lineamenti riservati, segreti, come desiderati, nella fresca oscurità della notte. È rannicchiato contro quel covone. Sentono le sue parole. Recita frasi scritte durante il giorno, con una commozione così grande da non ammettere paragoni, da quando Dio ha abbandonato il cuore degli uomini. E se nell’aria aleggiano le potenze, se, come afferma il poema di Booz, queste amano scatenarsi soprattutto nelle notti di mietitura, allora riconoscono la grande commozione che un tempo hanno sentito in Giudea, a Roma e a Saint-Cyr, ovunque la lingua sia stata scandita nell’emozione. La conoscono.
Anche noi la conosciamo, sappiamo che esiste; ma non sappiamo davvero che cosa sia. Non sappiamo davvero che cosa palpiti in questo cuore di uomo volitivo o sensibile, all’unisono con le parole che scorrono nella sua bocca.
Le stelle attente, distratte, brillano. La voce nel buio recita la Saison per le stelle. La grande mano si chiude, l’emozione cresce, la voce fa scorrere le lacrime. Sappiamo che tale emozione esiste. Forse è una gioia di dicembre. È forse una potenza? Per trasformarsi ora nel maestro di tutti loro, di Hugo, Baudelaire, Verlaine e del mediocre Banville? È una guerra? L’aver abbattuto lo strumento a dodici piedi che ci teneva in piedi, l’aver disfatto l’antico protocollo e lasciato tutti senza protocollo, inermi e taciturni come covoni nella notte? È forse l’aspra gioia di aver fatto della poesia quella cosa tutta legge, oscura e vana, taciturna, spensierata degli uomini, come un covone nella notte? È la gloria, lontano dai covoni e dagli uomini, per le stelle, come le stelle? È forse giugno? Il sanctus? La dolce gioia di aver trovato la nuova preghiera, il nuovo amore, il nuovo patto? Ma con chi?
Le stelle danzano tra le oscure fronde. La casa è più buia della notte. Ah, forse è averti finalmente raggiunta e tenerti tra le braccia, madre che non mi legge, che dormi a pugno chiuso nel pozzo della tua camera, madre, per la quale creo questo gioco di parole il più vicino possibile al tuo ineffabile lutto, alla tua clausura senza via d’uscita. E alzo il tono della voce per parlarti da molto lontano, padre che mai mi parlerai.
Che cosa rilancia in eterno la letteratura? Cosa induce gli uomini a scrivere? Altri uomini, la loro madre, le stelle o le antiche cose inaudite, Dio, la lingua? I poteri lo sanno. I poteri dell’aria sono quel lieve alito di vento che spira tra le fronde.
La notte si capovolge. Si leva la luna e nessuno è rannicchiato contro il covone. Rimbaud è nel granaio, tra i foglietti sparsi, voltato contro il muro e dorme di un sonno profondo.
Pierre Michon