
Lovecraft, lo scrittore triste e razzista che annienta il pensiero progressista
Letterature
Claudio Chianese
Sognava di essere un corazziere, di emulare le gesta del bisnonno, Jacques Drieu, uscito dalle campagne della Rivoluzione e dell’Impero col grado di tenente e quel soprannome, soprattutto, “La Rochelle”, da affibbiare alla famiglia, per generazioni. Preferì la galanteria, l’intelligenza tetrattica, votata a sondare il buio senza snodarlo, le luci lascive di Parigi, le menzogne, l’impotenza proferita a larghe mani, ridendo, da chi primeggia.
Durante la prima guerra Drieu è mobilitato a Charleroi: ne esce ferito, il 23 agosto del 1914, e all’Hotel Royal di Deauville, in Normandia, si scopre poeta. Nello zaino – o meglio: nel fondo di cassetta – aveva lo “Zarathustra” di Nietzsche; in convalescenza leggerà Rimbaud e Verlaine; le Cinq grandes odes di Claudel gli rivelano la potenza del verso ampio, la putrefazione della vita nel gesto epico, la violenza apodittica dell’assoluto, l’apocalisse del verbo, la scrittura come codice, pietra d’angolo, enigma morale.
“Come soldato ha preso parte con onore ad alcune pagine tra le più sanguinose della guerra, dalle offensive in Champagne alla spedizione nei Dardanelli. Non è un vile, non lo sarà nemmeno vent’anni dopo, quando si ritroverà paralizzato dall’incapacità di agire durante la battaglia di Francia, nel maggio-giugno 1940, prima di imboccare coscientemente la strada senza ritorno della collaborazione… Nelle pause dei combattimenti, aveva posto mano a due raccolte di versi dalle ampie strofe d’impianto classico, dannunziano o claudeliano, ma con un fondo sarcastico già più moderno”.
Maurizio Serra
Non è una novità: la poesia moderna nasce in trincea, tra singulti e sangue, fratricidio e estasi. Noi abbiamo avuto Giuseppe Ungaretti e Clemente Rebora; gli inglesi mitizzano i “War Poets”, Wilfred Owen, Rupert Brooke, Siegfried Sassoon, Isaac Rosenberg, Herbert Read, incapsulati in una lapide memoriale a Westminster; in Francia spiccano Guillaume Apollinaire e Blaise Cendrars.
Drieu si crede poeta, nasce poeta: nel 1917, in agosto, “malgrado l’opposizione della censura e grazie all’appoggio di Marcel Sembat” (Massimo Cescon), pubblica Interrogation; due mesi dopo sposa Colette Jeramec; ha 24 anni, sogna l’Africa, lo spaesamento, la fuga del corpo nell’ambone di avventure fatue, avventate, all’assalto. Nelle fotografie – spesso laccate, affascinanti – Drieu sembra sorgere dalla nebbia, dalle regioni dei morti, con occhi liquidi, troppo grandi, una fronte continentale, l’ubiqua obliquità di chi vuole sfracellarsi. “Non ho mai viaggiato, ma ho sognato tutte le parti del mondo”, scriverà, come sempre mentendo, sul primo numero di “Sur”, la rivista fondata nel 1931 in Argentina da Victoria Ocampo, l’ennesima sedotta, ricca.
Ancora con le edizioni della Nouvelle Revue Française, nel 1920, Drieu pubblica un’altra raccolta di versi, Fond de cantine (le raccolte poetiche di Drieu sono pubblicate per la prima volta in Italia come “O il maschio o la morte” dalle edizioni Magog, nella traduzione di Annalisa Crea). Sono gli anni, folli, del sodalizio con Louis Aragon, delle scarpinate tra surrealisti e Dada, delle amicizie con Aldous Huxley, André Breton, Maurice Martin du Gard, che lo dipinge come “un sonnambulo lucidissimo”. Drieu è allucinato dalla vita, piuttosto, roso – come i deboli, i debilitati da sé – dall’ambizione; si sente inesauribile e la poesia gli pare, probabilmente, esausta, troppo lenta: da allora, si dedicherà al romanzo – L’Homme couvert de femmes esce nel 1925, seguiranno, vertiginosi, Une femme à sa fenêtre, Le Feu follet, Gilles, L’Homme à cheval… – relegando il verso a rari istanti privati. Il resto è la sterminata contraddizione di un uomo solo, che nel 1936 aderisce al Parti populaire français, lo molla due anni dopo, collabora con Vichy, si sente vicino alla Russia stalinista. Dal 1943 comincia a leggere le Upanishad e i testi chiave del Taoismo: si può dire che la sua opera letteraria sia una provocante preparazione alla morte. Interpellato nel 1962, pur tra diverse reticenze, Aragon affermerà che Drieu “in politica era così ambiguo, così inaffidabile”, e che Interrogation, in fondo, è il manifesto ingenuo, generoso, spavaldo, di un uomo che “quando diceva una cosa, ne pensava almeno altre due, tra cui il contrario di ciò che diceva”.
Nel 1944 Drieu è già morto infinite volte, due anni prima si è detto, “spero di trovare una morte conforme al mio sogno di sempre, una morte degna del rivoluzionario e del reazionario che sono”, ma la morte non obbedisce, sorprende. E visto che la morte, a volte, è codarda, o ha la pigrizia feroce della lince, occorre andarla a stanare. Drieu tenta la morte, più volte – salvarlo equivale a offenderlo. Si uccide, infine, il 15 marzo del 1945. In una fotografia, bambino, chioma da Dioniso, si appoggia alla madre, di ineffabile e brutale bellezza. Nel Diario di un delicato, delinea la noia, lo sfinimento, il termine dell’uomo. Di sé dice l’impossibile, il veleno: “il centro della mia vita è la vertigine della solitudine”. Solo quattro anni prima, nelle Note per comprendere il secolo (1941), poteva scrivere, “Io non sono un uomo del passato, ma della vita”. Notoriamente, la distanza tra vita e morte è un fatale fraintendimento.
Uomo dalla morte posticipata – eccellente nel salto in lungo, oltre i regni di Ade – Drieu aveva dettato molto prima di uccidersi le sue volontà. “Naturalmente funerali non religiosi, il minimo indispensabile, ma con dei fiori”. Nella vettura che avrebbe trasportato il cadavere, voleva soltanto donne – “nessun uomo: salvo Malraux e Bernier, se saranno là”. E goderne, dunque, della vita, perfino da morto, da perduto. Uccidersi non basta.