Fin dagli esordi con Fischi di merlo (2011) Matteo Bianchi, giovane poeta ferrarese, porta avanti con rigore la sua forte poetica aderente alle cose, ai legami col mondo, agli affetti più intimi. La sua ultima raccolta, Fortissimo, tra liriche e brevi prose aforistiche, uscita a settembre dello scorso anno per Minerva, ha acceso l’interesse della critica guadagnandosi apprezzamenti quasi unanimi. Ora Bianchi va in libreria con un testo critico dedicato a uno dei suoi numi tutelari, Corrado Govoni, il poeta, anch’egli ferrarese, la cui produzione attraversò come una luce improvvisa il cielo della poesia nella prima metà del secolo scorso illuminandolo di una luce crepuscolare e inaudita.
Un missionario mentre mangia degli erbaggi
viene assalito da una turba di selvaggi
che lo spogliano nudo e gli fan mille oltraggi.
Su e giù per il suo castello diroccato
passeggia con un giustacuore di broccato
un vecchissimo principe diseredato.
Tre ciechi, al sole, contro un muro, in una via,
suonano un’aria della Cavalleria,
nelle attitudini della Malinconia.
Degli amanti si baciano sopra una salma
presso una lampada che sboccia la sua palma
di luce pallida per l’ombra che si calma…
Matteo, a tua cura sono uscite da poco due opere corali molto diverse, quasi agli antipodi; da una parte l’Annuario govoniano di critica e luoghi letterari (La Vita Felice) e dall’altra Dal sottovuoto. Poesie assetate d’aria (Samuele Editore), entrambe con interventi autorevoli. Ce ne parli?
Se ho concepito l’Annuario come conclusione del mio percorso di studi, essendomi specializzato nel 2015 in Filologia sul lascito lirico di Corrado Govoni, l’antologia appena pubblicata risponde piuttosto a un’esigenza di contatto umano attraverso la parola. Il silenzio non mi bastava e proprio grazie alla rete ho scoperto che non bastava più a tanti intorno a me. Dal sottovuoto è una dimostrazione corale di intenti per analizzare la trasformazione interiore che stanno subendo le relazioni interpersonali e le proiezioni di ciascuno allo specchio durante la quarantena. Entrambe, però, sono opere collettive che hanno richiesto l’instaurazione di un dialogo tra gli autori coinvolti, condividendo aspetti concordi e discordi, le conquiste e le disfatte. L’incontro e lo scambio alla pari con l’altro restano per me la base di tutto quello che faccio quotidianamente, dall’attività giornalistica alla promozione di eventi culturali, sino alla vendita tout-court dei titoli in libreria.
Allarghiamo il discorso: che responsabilità ha oggi un poeta, se ne ha?
Era Pasolini a sostenere che quando i politici non riescono più a parlare alle persone, è compito dei poeti. Il poeta deve camminare, come facevano Dante, Leopardi e pure Montale, benché non lo volesse ammettere.
Qual è quindi la funzione artistica e sociale (se c’è) di chi scrive in versi?
Scrivere in versi è un modo per lasciare immagini negli occhi del lettore, similmente alla fotografia. Fissare porzioni di mondo. Per sempre. Trattenere il respiro delle cose.
Si legge meno poesia di una volta? E perché sembra relegata ai margini?
Si legge meno in generale. Per di più la poesia contemporanea non è minimamente sostenuta a livello scolastico. Eppure la poesia è una esperienza indispensabile, a livello spirituale. È una cosa che avverte chiunque. La poesia è dentro di noi. Ci sarà sempre.
L’arte è ancora la via per conseguire l’immortalità o è tutto effimero?
Il narcisismo è diffuso, un’epoca è al tramonto. L’estetica ha cambiato funzione, basti pensare alle teorie di Celant, del quale sentiremo la mancanza, al suo calarsi nella dimensione umana con tutte le sue contraddizioni. Di quale bellezza abbiamo bisogno? Non certo di quella sbandierata dai vari Vittorio Sgarbi. Il canone va rifondato.
Fermiamoci un istante sulla tua ultima raccolta, Fortissimo, edita da Minerva lo scorso anno. La tua identità di uomo sembra trasparire in controluce, in antitesi a un vuoto esistenziale, è così?
Ho intitolato la prima sezione del libro Diario di un amore, non a caso, per fare il verso a Buzzati e alle sue ossessioni amorose, e l’ho concepita a partire da un’assenza. O meglio, dal tentativo reiterato e mai concluso di farmi una ragione dell’assenza di persone amate. Giorno dopo giorno, pesa sempre più la mancanza del loro corpo, della loro gestualità, della loro voce. Dentro una sorta di progressivo abbandono sensoriale accetto che sia il vuoto a smettere di pulsare poco alla volta e non sia io a distogliere lo sguardo.
In qualità di poeta come ti rapporti con il mondo dei social?
La tradizione è tutela delle nostre radici, dimora della nostra identità. I social sono pieni di poeti dilettanti, poeti da strapazzo. Gente che galleggia in superficie, che affoga tra i cliché.
Un artista deve essere in sintonia con la propria epoca o sfasato rispetto a essa?
La poesia non deve dare risposte ai problemi quotidiani delle persone, ovviamente. Un poeta non ha le chiavi del momento, specie in un dramma come quello che stiamo vivendo a causa della pandemia. Però offrire una chiave interpretativa della realtà è anche compito suo. Con i mezzi specifici della poesia.
E allora che interpretazione dài di quanto sta accadendo? Come reagisce l’umanità?
È presto per rendersene conto. Al di là dell’estrema futilità a cui ci ha esposto il rischio della pandemia, il pericolo di morire soli in una stanza di ospedale, doverci privare delle piccole libertà quotidiane ci sta facendo riflettere sulle responsabilità e sui privilegi dell’Occidente rispetto al resto del mondo; specie dei paesi che abbiamo occupato e sfruttato quasi con il sorriso sulle labbra.
In che modo vorresti essere ricordato: abbozza il tuo epitaffio.
Quesito tanto divertente quanto inquietante. Ripenso alla figura ingrigita del poeta di Maupassant, quasi un decoro sbiadito sulla moquette di una Parigi bene verso il tramonto della Belle Époque. E chiudo: “Mai un Bel Ami, ma magari un brav’uomo” o anche “Sperava di farla franca”.
*In copertina: Matteo Bianchi in una fotografia di Daniele Ferroni