Un abisso sembra ergersi fra noi e il mondo, mentre “la vita reca l’obolo della foglia d’ulivo”: leggere Odisseas Elitis significa sperimentare e scandagliare i meandri del vuoto, rimanere altrettanto ancorati alla ricerca del “movimento segreto delle cose”. Per Elitis questo inesauribile cercare, manifestare, comprendere, si definisce in poesia, unico spazio di infinita vitalità e divenire, avamposto indiscusso di luce e di speranza.
Odisseas Elitis pseudonimo di Odisseas Alepudelis, nacque a Iraklion nel 1911 da una famiglia originaria dell’isola di Lesbo. Abbandonati gli studi universitari in giurisprudenza, costruì la propria esistenza come scrittore e poeta divenendo fra le maggiori voci poetiche del secolo scorso: nel 1979 fu insignito, a Stoccolma, del Premio Nobel per la letteratura. Le sue prime poesie furono pubblicate dalla rivista letteraria “Nuove lettere” ma, il vero e proprio esordio nel mondo letterario greco avvenne nel 1939, con l’opera Orientamenti. Il 1939 fu un anno decisivo nella vita di Elitis perché rappresentò un momento storico particolare e drammatico: il poeta ellenico decise di arruolarsi per prendere parte alla campagna d’Albania, conflitto provocato dall’aggressione italiana.
Tornato dal fronte, come tanti “war poets” di quegli anni a testimonianza della tragedia immane dei conflitti, scrisse il famoso Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania. Non furono lunghissimi i suoi soggiorni parigini, dal 1948 al 1952 e, in una successiva fase della sua vita durante il periodo dei colonnelli, dal 1969 al 1971. Rilevanti gli incontri con personaggi della vita intellettuale parigina: André Breton, Paul Eluard, Tristan Tzara, Giuseppe Ungaretti, Henri Matisse, Fernand Lèger, Marc Chagall, Alberto Giacometti e Pablo Picasso, fra i più famosi. Prima di questa esperienza all’estero, tuttavia, Elitis compose fra le raccolte poetiche più importanti della sua intensa attività di scrittore: Sole il primo.
Vari furono i suoi spostamenti in Italia e in altri paesi del mondo fino a quando, per una parentesi brevissima, rientrò in patria per ricoprire l’incarico di presidente dell’Ente radiofonico greco. Ottenne molti riconoscimenti e menzioni per la sua raffinata attività intellettuale, per la perseveranza nel seguire il filo conduttore della divulgazione dei valori della civiltà greca nelle sue attività di ricerca. Di ritorno da Parigi scrisse: Sei e un rimorso per il cielo, a cui seguì Dignum est, testo di successo musicato da Mikis Theodorakis.
Nel 1967 Elitis si ritirò per un periodo dalla scena pubblica, dedicandosi alla pittura e alla stesura di nuove opere: il colpo di stato militare e le derive autoritarie nel suo Paese lo gettarono in uno stato di costernazione. Infatti, nel 1972, si rifiutò di ritirare un importante premio letterario perché istituito dai colonnelli. Oltre a un’intensa attività saggistica e poetica, si dedicò alla traduzione di Arthur Rimbaud, Lautréamont, Paul Éluard, Pierre Jean Jouve, Giuseppe Ungaretti, Garcìa Lorca e Vladimir Majakovskij. Originali le traduzioni dei frammenti di Saffo, con le sue personali “versioni e ricomposizioni”. Sempre in questo solco, nel 1985, si dedicò alla traduzione dell’apocalisse di San Giovanni. Nel 1987, dopo aver scritto una serie considerevole di saggi e interventi critici di letteratura e arte, pubblicò in Italia (in un periodo che parte dal 1982): Tre poemetti con bandiera ombra, Diario di un invisibile aprile, Il piccolo marinaio, La stanza con le icone. Nel 1987 gli venne conferita la laurea ad honorem della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università la Sapienza di Roma. Dal 1995 si produsse in una intensissima scrittura di saggi: Elegie di Oxòpera, In bianco e Il metodo del dunque sul lavoro del poeta. Si spense ad Atene, il 18 marzo del 1996.
La “buona notizia” di Odisseas Elitis riguarda l’idea della poesia come “fonte di innocenza colma di forze rivoluzionarie”. Il tema dell’innocenza, piuttosto ricorrente nella poetica di Elitis, ben si concilia con la potente manifestazione delle istanze rivoluzionarie in senso letterario e, soprattutto, nella capacità di coinvolgere l’umanità intera in un cambiamento irreversibile verso la luce e la ricerca della bellezza. L’amore e il suo eterno dissidio sembrano alla fine riconciliarsi: sono le vere dinamiche all’origine di un’armonia possibile nel mondo. Il breviario poetico di Elitis è praticamente inestinguibile, carne viva, sfavillìo perenne di soluzioni e immagini sorprendenti: che fosse un greco a donare ai posteri questo immenso e invincibile castello costruito su fonti di parole, non è un caso né un’eccezione.
Quando egli tenne il discorso in occasione del premio Nobel, chiosò:
“Permettetemi di chiedervi di parlare nel nome della luminosità e della trasparenza. Lo spazio in cui ho vissuto e dove sono stato capace di riempire me stesso è definito da queste due frasi. (…) Non sto parlando della comune e naturale capacità di percepire gli oggetti nei loro dettagli, ma della forza della metafora di trattenere la loro essenza, e di portare loro a uno stato di purezza che il loro significato metafisico appare come una rivelazione”.
Elitis ci parla in nome di una luminosità in tempi bui, in luoghi del dissidio ancora molteplici e perduranti di forze maligne, guerre ed epidemie, in contrapposizione alla solarità e alla trasparenza in un riverbero di speranza e buon auspicio. Pochi ci raccontano di questo neoplatonismo intriso di glosse di autentica tradizione lirica ellenica. Proprio nella natura, sconvolgente e miracolosa, Elitis ritrova se stesso e la cognizione delle cose inspiegabili, immense e profonde, talvolta avvolte nell’imbuto di un nulla senza riferimenti.
Egli dunque corre in soccorso alle nostre infelicità, nel tentativo di conciliare la storia degli uomini fatta di episodi raccapriccianti, insondabili nella loro essenza perché autodistruttivi. Pertanto, il poeta trova la forza umanissima di dirci a piena voce:
”Ho vissuto il nome amato
all’ombra del vecchio ulivo
nello sciabordio del mare eterno.
Quelli che mi lapidarono non vivono più
ho costruito una fonte con le loro pietre”.
Non a caso, qualche critico attento alla fantasmagorica e onirica narrazione di Elitis, ha definito come sinestetiche le sue poesie, laddove senso-associazione-contaminazione-visione-percezione-esperienza divengono il corollario per eccellenza del canto, sia in senso metaforico (“la prua delle sue spume”; ”i gabbiani dei suoi sogni”), che in una apparente opposizione delle semplici parole-attributi (“scalpellata a fatica”; “indifferente bianca”). Il paesaggio mediterraneo non è semplicemente orizzonte poetico e visione reale di un abisso senza eguali. Nella sua prima opera, Sole il primo, la felicità ha il colore della luce, la salsedine è polvere sulla pelle dei giorni e delle notti, la vegetazione ben si staglia in un calore che appare inviso alla vita:
“Ne è passato di tempo da quando si udì l’ultima pioggia
sulle formiche e sulle lucertole
ora il cielo brucia senza fine
i frutti si tingono la bocca
si aprono piano piano i pori della terra
e accanto all’acqua che goccia sillabando
un’enorme pianta fissa negli occhi il sole!”
Il glottocentrismo di Elitis è una ulteriore buona novella. Mai in disarmo, la parola sublima, purifica, vivifica, infine illumina. Le ombre si allungano quando non scompaiono, la lingua è pietra invincibile, si alimenta dei bagliori delle albe che si stagliano sui mari delle civiltà antiche, si colorano nei tramonti mai serrati all’infelice deriva vivificata solo dall’uomo. Il giardino incantato è sempreverde, fra mura bianchissime, visione radiosa della civiltà, i colori si alternano a ridosso dei costoni su cui si alternano colonnati e statue rivolte verso il mare. Nessun sipario che si chiude sulla magnificenza della natura, che sia il mito o un dio sconosciuto ad averla creata poco importa.
Inoltre, come in Giorgos Seferis, la lingua greca rappresenta per Elitis il carattere distintivo non di un ridotto cosmo di parlanti in qualche milione di persone, ma una radice invincibile che si ramifica ancor oggi nella osmosi delle parole in molti idiomi e discipline. Sempre durante il ritiro del premio Nobel, egli disse:
“Mi è stato concesso, cari amici, di scrivere in una lingua parlata solo da qualche milione di persone. E purtuttavia una lingua parlata da duemilacinquecento anni senza interruzione e con differenze minime. Questo scarto spazio-temporale, in apparenza sorprendente, trova il suo corrispettivo nelle dimensioni culturali del mio paese. Che è ridotto nella sua area spaziale, ma infinito per estensione temporale”.
Il cuore di Elitis batte per l’enigma dell’amore, innocente, presto smarrito fra rivoli di sentimenti e visioni, confessioni, tradimenti. Ma subito il senso di un destino comune, salvifico, a scandire il tempo con l’eros delle labbra fiammeggianti alla stregua dei ciliegi, viene sublimato in una metafora unica:
“Ancora una volta tra i ciliegi le tue labbra introvabili. Ancora una volta tra le amache vegetali i tuoi antichi sogni. Un’altra volta nei tuoi antichi sogni le canzoni che si accendono e svaniscono. dentro quelle che si accendono e svaniscono i caldi segreti dell’universo. I segreti dell’universo”.
Così, dagli antichi sogni si vivificano le canzoni che, nel loro accendersi e spegnersi, hanno cittadinanza e diaspora negli insondabili segreti del nostro universo. Il procedere di Elitis ci affascina, ci avvolge, per analogia o metafora si inerpica su sentieri a pochi accessibili: la poesia non è altro che la genesi del mito, è storia dell’uomo, è memoria e mai rimpianto, è luce.
E chissà che dopo aver assistito alle derive di questo nostro Mediterraneo cosparso di morti e Paesi che calpestano e umiliano i diritti e l’umanità dei propri popoli, la Grecia non sia davvero lo spazio d’incanto e di suprema salvezza, il cono di luce che cerchiamo affannosamente, il sogno che abita ogni nostra notte buia come, forse, affermava Odisseas Elitis:
“Gli europei e gli occidentali trovano sempre il mistero nell’oscurità, nella notte, mentre i greci lo trovano nella luce, che per noi è un assoluto”.