Quando mi è arrivato il libro, non richiesto, “A Davide da un lettore di Pangea, Lorenzo Jovanotti”, sono stato tentato di restituirlo a Feltrinelli, con dida epigrafica: Si gradiscono vergini, privi di dedica, qui, i libri. Vertigine narcisista.
Premessa. Sì, sono un narcisista, un cultore del pozzo dell’ego, un idiota, presuntuoso. Tra i titani egotisti, per altro, va ascritto Lev Tolstoj soprattutto quando si vestiva da contadino, camminava per i campi a piedi nudi, proclamava la povertà come via, la vita evangelica, scabra, cruda, felicemente atroce. Non credo nel diaframma della fama, nell’idolatria del numero, nell’ideologia dei primi della classe e dei primi in classifica. Preferisco il mondo a contrario, l’ultimo, il dilaniato, lo sputato, il martire; mi fa sbocciare rose negli occhi il privilegio della povertà – di cui mi profumo come tutti i privilegiati –, amo la latitanza, l’anonimato, con la protervia tipica di chi, in fondo, ha casa stabile e una breve porcilaia di notorietà. Tracanno la mia contraddizione con spirito sprezzante; in fondo, sono un vile. Per questo, credo nella poesia come qualcosa di nascosto, di remoto, di irrimediabile e dunque irrivelabile; credo che bisogna ascendere alla poesia per tuffarsi a capofitto nel fango umano; disprezzo i poeti piazzisti, sono convinto che la poesia vada scovata scavando, in disciplina, inginocchiati, senza inginocchiatoio. Credo che il poeta, se vuole restare uno scandalo, segno di contrasto e di scontro, debba lasciarsi avvincere dal deserto e da ogni miraggio, più che raspare la porta del re, nutrito dalla ciotola di corte.
Attimo
Una sigaretta accesa.
Una ragazza sulla spiaggia.
Una pietra caduta in mare.
Ha fatto appena in tempo a dire: vita.Ghiannis Ritsos (trad. it. di Nicola Crocetti)
Parole, parole. Probabilmente, non credo nella poesia – chi scrive crea con la violenza di distruggere tutto il resto, non è custode di mummie, ‘uomo di relazioni’. La poesia, poi, ammaestra al crudele, all’inaccettabile, alle piccole sovversioni, all’attenzione miracolosa. Che cretino. Credo nella poesia come elezione con il principio non detto che tra gli eletti sia io a spiccare; penso alla setta dei poeti estinti cioè inestinguibili, in una comunità di anime affini, sopraffine. Come tutti, ho paura, difendo il piccolo recinto in cui mi sento a casa, che cupa verità. La poesia, invece, è spoglia, indifesa, indifendibile; la poesia non è neppure quella che – per istinto, o meglio, per istantanea delazione del verbo – chiamiamo poesia. La poesia sta nella torre d’avorio e nella merda, in libreria e nel sottotetto, è inscritta sui muri, sulla pelle, sulla soglia delle basiliche e degli ospizi. La poesia è puttana e sputtanata, è putrida e preziosa, sprecata, spregiudicata, dissipata, discinta, pudica fino allo spudorato, invisibile e vipera, assoluzione e veleno; tutto – nulla. La poesia è al di là del giudizio, perché è.
Da sempre, Nicola Crocetti lavora perché la poesia sia per tutti. D’altronde, è un editore, non si è mai sognato – vezzo comune – di scrivere versi. Al contrario, ha tradotto moltissimi versi altrui. Per questo – lui direbbe: “suscitare un putiferio, cogliere tutti di sorpresa, incantare” – ha fondato una rivista di poesia, Poesia, l’ha voluta in edicola, a prezzo popolare, sbattendo il viso del poeta ‘in prima pagina’. Gli aneddoti su come sia riuscito a costruire uno spot televisivo sulle reti Mediaset, negli anni Novanta, per raccontare al mondo Poesia, convincendo i truci (tra i tanti, anche Indro Montanelli) sono memorabili – giuro di non rivelarli, per ora. Chi conosce Crocetti non ritiene un’incongruenza la sua corroborante schifiltosità – non sopporta la falsa poesia, l’incultura, la modestia verbale, la mancanza di disciplina – con la necessità di divulgare la poesia. Ha fede nella poesia a prescindere, è la sua ortodossia; a più di ottant’anni la sua giovinezza è ormai un canone, non ha nulla da perdere, nulla ha, evviva. Putiferio, sorpresa, incanto: parole che indicano una strategia, una poetica; sembra ovvio, a Crocetti, che un grande poeta sia un grande uomo, soltanto i miseri, d’altronde, possono spendere tempo per scrivere brutti versi.
Da un po’ di tempo Crocetti mi parlava del progetto Poesie da spiaggia, costruito con Jovanotti. Ne è entusiasta. Proprio perché è spazio sacro, la poesia può essere dissacrata; d’altronde, i poeti ‘laureati’, quelli che pubblicano nelle collane ornate di specchi, spesso sono la causa della morte della poesia. Nell’intervista doppia che apre il libro, Jovanotti dice che “il vero incontro folgorante fu con i futuristi”: Edoardo Sanguineti – antologizzato a pagina 43 – ne sarebbe felice: la sua antologia – la più divertente e polemica del secolo – Poesia italiana del Novecento (1969) sdogana i Futuristi – Luciano Folgore, Farfa, Soffici, Boccioni & Co. – ed elegge Dino Campana (qui antologizzato a pagina 75) ad autentico, fuori moda, fuori di testa, cardine del canone.
La verità è che Poesie da spiaggia – ma certo: il guadagno in termini di ‘immagine’ di Jovanotti, “bagnino per le anime, naufrago”, in vista del suo Beach Party, è superiore a qualsiasi successo di vendita del libro, beh, bravo lui se la scaltrezza rende famelici del sole – è una bella antologia. Al netto delle rare scelte discutibili – Aldo Nove è meno poeta di Alessandro Ceni, Mariangela Gualtieri non ha la stessa vastità di Riccardo Ielmini, Francesca Serragnoli, Federico Italiano e, appunto, un’antologia non può ridursi a una raccolta di mirabili figurine, dovrebbe accogliere il rischio, fugare l’inganno – l’antologia è speciale, ha istanti di estasi, spesso opta per l’insolito. Così, tra gli antologizzati, spiccano Saint-John Perse e Gerard Manley Hopkins, il Rilke tradotto da Franco Rella, ma pure Vladimir Nabokov nella versione di Massimo Bocchiola, (“ma la poesia che piomba da altezze sconosciute…”: per inciso, le Poesie di VN sono pubblicate dal Saggiatore nel 1962); ci sono Marina Cvetaeva e Osip Mandel’štam, certo, ma ci sono anche i russi che nessuno si fila da anni, Nikolaj S. Gumilëv e Velimir Chlebnikov; sono stipati Ezra Pound e Friedrich Nietzsche, Rimbaud e Robert Frost, William Blake e Jorge Luis Borges, Wallace Stevens e Derek Walcott, ma abbagliano gli autori inconsueti, Pandelìs Buklas, Isaac Rosenberg, Mannick, Malcolm Lowry, ed è bello leggere Bartolo Cattafi e Massimo Ferretti, ci vuole delicatezza, altezza, senso della sprezzatura, la gioia di prendersi in giro per pubblicare le Terzine sulla caducità di Hugo von Hofmannsthal, autentico cardinale della forma.
La poesia, se è tale, ha tale certezza di sé da non farsi dileggiare in merce: vincerà il mercato con un surplus di sogno. Così, soltanto uno sciocco pensa che Poesie da spiaggia sia lettura da ombrellone: la poesia sterza le intenzioni promozionali nell’ambizione dei corsari. La spiaggia, semmai, è quella dell’isola deserta, della morgana meridiana, dell’abbrivio spirituale: quando cominci a leggere “questa luce sovrana sulle rocce…/ non può nulla sulle lacrime” (a voi riconoscere il poeta) non ti importa di nient’altro, tanto meno delle canzoni di Jovanotti, delle voluttà di Crocetti, della misera stalla dove s’accalcano, oggi, i poeti acclamati, bestie da soma; sei nel lucore del canto, ed è bello, e basta.