Benché sia uno schianto l’assenza, non è morto, lui di cui ripeto il nome, aggiorno la memoria, recupero i versi, che senza avere sibilo sibillino mi intimano, comunque, a essere, continuamente, ciò che avrei potuto, il segugio della giovinezza, quello che inghiottiva il sole e simulava l’oscurità per esserti più vicino, Simone. Come i fratelli piccoli – “fratellino”, dicevi – imitavo Simone, per essergli fraterno: abbiamo dissezionato fotogramma per fotogramma “Il cacciatore”, mi sono messo a caccia dei romanzi prediletti – di Saul Bellow preferiva “Il dono di Humboldt”, io, da conradiano specifico (e lui era alieno da quelle inquietudini trascendentali) amavo, va da sé, “Il re della pioggia”. Anelavo i deserti, lui le periferie desertificate dalla disperazione: però era lui a ridere e io a fare il profeta arcigno, era lui a sollevarmi e io a imitare una dissipazione del tutto letteraria. Dieci anni fa… Da come, da allora, tengo in braccio Simone accordo la mia disciplina: lui è sempre lo stesso, alto, forte, bello, io sono sempre più piccolo. I sopravvissuti non hanno gloria ma sprangate di tempo sul naso. Da quando si è trasferito nella mia mente, ogni cosa gli è dedicata, a volte è lui a bloccarmi le dita, a mettere foglie sulle palpebre. Qui, dal tormento delle cose passate, ricalco un mio articolo ritrovato, una lettera, di meravigliata evidenza, di Flavio Santi. (d.b.)
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L’assedio finale
Caro Simone,
ti scrivo questa mail a un anno esatto dal tuo suicidio. Era un sacco di tempo che desideravo farlo. Ho ancora in mente il viso raggiante con cui ti sei presentato l’ultima volta che sei venuto a trovarci. I capelli lunghi, gli zigomi ossuti, una leggera acne mai risolta di chi ha avuto un’adolescenza tempestosa, lo sguardo pieno di ironia. In mano tenevi una bottiglia di buon vino rosso. L’ultima immagine che ho di te.
Non c’è giorno che non ti pensi.
Per me non sei morto, come vedi non ho cancellato il tuo indirizzo mail né ho tolto il tuo numero di cellulare dalla mia rubrica, conosco a memoria il tuo indirizzo di casa, via Tommaseo, Saronno, conservo le tue brevi e nervose lettere, aspetto sempre un tuo squillo, quelle tue telefonate che arrivavano nei momenti più impensabili. Sei sempre nel mio cuore e nella mia testa, con la tua altezza infinita (ma quanto cazzo sei alto?), i tuoi modi da gagsta rap, fiero del tuo essere calabro, ruvido come lo scoglio di Scilla, dolce come il Tartufo di Pizzo. Le tue battute fanno ridere un sacco Giulia e per me sono lame di buonsenso.
Tu sei un poeta. Ma chi lo vuole un poeta? A chi serve un poeta?
Poi morto cosa significa davvero?
Adesso che ci penso secondo me è andata così: ti sei rotto – giustamente – di stare in questo Paese infame, e allora hai deciso di partire. Partire per un lungo viaggio. Hai voluto tagliare i ponti. Forse tornerai fra trenta, quarant’anni, e sul tuo viso non ci sarà nemmeno una ruga, non un solo segno del passare del tempo, e allora potremo morire tutti quanti sereni, finalmente riconciliati.
Cos’altro aggiungere, Simone? Scrivimi – se vuoi, naturalmente – dalla tua isola tropicale in mezzo al cielo dove non si invecchia mai e ci si ama in eterno.
Tuo
Fulvio
Flavio Santi
*da “Aspetta primavera, Lucky”, Socrates, Roma, 2011
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Per essere notati dalla critica bisogna buttarsi dalla finestra
«Ti abbraccio fratellino mio e non illumino il tuo buio. Non ci riesco nemmeno con il mio». Sedici giugno 2008: Simone Cattaneo mi griffa il secondo libro, Made in Italy. A pagina 35, il suo autoritratto. La fototessera: «Troppo bello per essere un pugile,/ troppo brutto per fare il magnaccia». Il mestiere: «senza lavoro e inzuppato di grano». La profezia: la «vecchia strega del quartiere» strologa che Simone morirà «presto a ventisette compiuti». L’ammaliatrice che gioca coi tarocchi ha sbagliato di una manciata di anni, otto per la precisione. A ventisette anni muoiono le rockstar, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Janis Joplin; a trentacinque o giù di lì ci lasciano i poeti, Giacomo Leopardi, Arthur Rimbaud, Aleksandr Puskin. Questo direbbe il mio amico Simone Cattaneo.
Nel 2002 Simone è rovesciato per metà dentro il bagagliaio di un’automobile. Al suo fianco c’è una mora niente male, forse siamo al lago d’Orta. Sorride mentre estrae una pila di libri: il titolo è Nome e soprannome, lui pare Mosè con le tavole, Alì che mostra al mondo la cintura di campione dei pesi massimi. Il primo libro possiede una violenza epigrammatica, radiosa, tra Vangeli gnostici e Fëdor Tjutcev: «E in fondo le parole non hanno peso/ sono solo un compromesso fra pietre e nubi,/ un vapore brillante che ti lega a sé/ come un torrente d’acciaio in fonderia/ che gli occhi non devono vedere/ per non lasciarsi consumare/ dalla rabbia del rame». Cattaneo, nel 1999 è già stato canonizzato da Giuliano Ladolfi nell’antologia epocale «di poeti nati negli anni Settanta» L’opera comune.
Roberto Roversi entra in sintonia con il talento di Simone, corrusco, privo di vezzi lirici, scurrile, scuoiante, «c’è anche qualcosa di infernale… in questi testi, e di terribile», parla di «frasi che ti colpiscono come pugni allo stomaco». Siamo ancora nel 2002, dieci anni dopo, oggi, Simone giace nel cimitero di Saronno. Muore nel 2009, e in una decina d’anni pubblica due libri (entrambi per le Edizioni Atelier) che insieme fanno settanta poesie in tutto. Ne restano altre 33, già allestite da Simone in un volume pronto per essere pubblicato, Peace&Love, e che vede luce solo quest’anno (raccogliendo anche i primi due libri) per Il Ponte del Sale (Rovigo 2012). Un centinaio di poesie: questa è l’eredità, fragile come una foglia, duratura come un’incisione su pietra, di Simone.
Il poeta Simone Cattaneo continua a dare fastidio, anche post mortem. In molti hanno rifiutato di pubblicare versi come questo, «Spompina dietro la stazione Garibaldi per comprarsi Chanel n° 5/ e imitare Marilyn Monroe», e via precipitando nell’osceno che è l’uomo, nel gorgo del perverso. I letterati puri di cuore (e poveri di genio), i critici con la fedina bibliografica trapuntata di diamanti, si sono dimenticati la legge più antica della letteratura: uno scrittore sfonda il male, lo feconda con la sua scrittura, donandoci gli antidoti per vincerlo. Sperimenta tutto per noi, soffre ogni male per esiliarci dalla sofferenza, si sacrifica, si scotenna per la nostra salvezza. Ma a nessuno importa più della letteratura, tanto meno ai letterati, che vogliono il posto fisso nelle antologie scolastiche, il prepensionamento dal genio, il sindacato degli scrittori e uno scranno al Senato.
Volete il risvolto critico, la quarta di copertina? Anch’essa ha una data: 27 febbraio 2006, Teatro Nazionale di Milano, concerto di Lou Reed. «Ti ho regalato un biglietto in prima fila, andiamo a sentire l’odore da malinconico, bastardo ebreo di Lou». Facciamo il compleanno quasi insieme io e Simone, lui il 5 febbraio, io l’8, lui è di cinque anni più grande. Lou Reed, Leonard Cohen, Abel Ferrara, Martin Scorsese: questi sono i riferimenti letterari di Simone. Amava Denis Johnson e Osip Mandel’stam, anteponeva Davide Brullo a Cormac McCarthy, mi ha regalato Donnie Brasco, il suo film preferito era Il cacciatore, riteneva che «il più grande romanzo italiano di tutti i tempi è Il principe di Machiavelli», per il mio matrimonio mi ha ficcato in mano una busta con 500 euro dentro. Uno così, ovviamente, attirava i sospetti degli zombie che tengono in piedi la cristalleria letteraria italica. A tre anni dalla morte si è accorto di lui anche il Corriere della Sera, il trimestrale Atelier, di cui era redattore, lo onora con un numero monografico dove riappaiono le poesie delle origini, già compiute (lo chiedete qui: redazione@atelierpoesia.it), e un immane repertorio critico. E ora, tutto, forse, è più chiaro. Di fronte a Simone impallidiscono le geometrie visionarie di Milo De Angelis, si squagliano i ghirigori nella tenebra di Davide Rondoni, si sbriciolano i monologhi di Roberto Mussapi e i grigiori di Maurizio Cucchi. Siamo di fronte a un radicale denudamento delle menzogne liriche, a un vigoroso azzeramento. Al funerale di Simone eravamo in sei: dov’erano tutti i poeti che si facevano offrire voluminose birre da Cattaneo il selvaggio? Tutti abbiamo voluto essere come Simone, lirici geniali che incendiano l’accademia, uomini al di là di ogni norma, seduttori indiavolati. Il poeta gobbo e sfigato trovava in Simone resurrezione in muscoli, carisma, splendide bestemmie. Ne abbiamo sottovalutato il micidiale dolore. Io di certo.
Nelle prime ore del 10 settembre 2009 vengo trafitto da un sms, «Stasera muoio. Ti ho voluto bene». L’ultima dedica che ho ricevuto da Simone. Dal giorno del funerale, non visito la tomba di Simone. Con Simone, in sei, abbiamo seppellito la fede nella letteratura. Perché la letteratura si accorgesse di un poeta ci è voluto il morto, il volo pindarico dal settimo piano di una palazzina di Saronno. La lirica dominante (quei brandelli di poesia che le grandi major editoriali stampano come morfina) degli ultimi trent’anni è corrotta dal clientelismo, favorita dall’indifferenza pubblica. Ciò non significa che qualcosa d’interessante non sia sbucato: le cattive azioni finiscono per procrearne di buone. Ma io non credo più a ciò che leggo in libreria. Per me la poesia è un tizio che svogliatamente mi offre il suo libro di liriche, fabbricato in casa, con la sapienza che le cose belle vanno custodite nel pudore. Simone mi ha insegnato che l’unico metro estetico ragionevole, in un tempo che non conosce cos’è bene e cosa è male, è il dolore. Quanti morti hai subito? Quanti dolori ti hanno trapanato? Più ne hai più la tua opera sarà autentica. Cari poeti, per scrivere una grande opera fatevi spaccare la faccia.
Davide Brullo
*da “il Giornale”, 29 ottobre 2012