03 Settembre 2024

Tra cataclisma e rivelazione: vita & morte di Mark Rothko

MARK

«I see a red door
And I want it painted black
No colors anymore
I want them to turn black»

(Rolling Stones, Paint it Black)

Alla fine del 1969, pochi mesi prima di porre fine ai suoi giorni, il pittore Mark Rothko riceve una visita dallo scrittore Bernard Malamud nel suo studio, sulla 69esima Strada Est di New York. Rothko tiene un libro di Shakespeare sul comodino e sta ascoltando Mozart, come sempre. I due trascorrono gran parte del pomeriggio a chiacchierare. Il pittore parla allo scrittore della sua depressione, della sua separazione dalla moglie, Mell Beistle, dei suoi crucci. Gli dice anche, però, che nonostante tutto sta attraversando un periodo artisticamente prolifico, anche grazie ai nuovi psicofarmaci che sta assumendo. Da quell’estate ha realizzato centinaia di dipinti, degli acrilici su carta. Malamud gli chiede se può vederli e lui gli risponde che la maggior parte – i migliori – li ha già venduti.

Ne dispone a terra una decina, i rimanenti, dicendogli che può sceglierne tutti, tranne uno: si tratta di un rettangolo nero, di 60 centimetri per 90, dove il nero è interrotto da una sezione frastagliata, di circa dieci centimetri, di un’acquamarina brillante. L’acquamarina appare a Malamud come «una luce che irrompe nella notte». Ma perché l’artista non era disposto a separarsene? «Ho sentito – ha poi scritto Malamud – che quell’immagine conteneva un significato speciale, che ho interpretato come il simbolo della dissoluzione della sua melanconia». Ma era proprio così? O quell’acquamarina abbagliante per Rothko nascondeva qualcos’altro?

Mark Rothko nasce con il nome di Markus Rothkowitz il 25 settembre 1903 a Dvinsk (oggi Daugavpils, Lettonia), nella cosiddetta Zona di Residenza istituita da Caterina II dal 1791, ai confini occidentali dell’impero russo, dove gli ebrei potevano risiedere. Nasce, cioè, in un enorme ghetto giudaico. Quarto figlio di una famiglia ebrea, debole, malaticcio, frequenta la scuola talmudica per bambini e vive a Dvinsk fino ai dieci anni. Il padre farmacista, infatti, per sfuggire alle persecuzioni antisemite che nella Zona si intensificano a partire dal 1905, decide di trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti. Nel 1913, dopo un lungo viaggio in nave e in treno e con una targhetta appesa al collo con su scritto «I do not speak English», Markus approda a Portland, in Oregon: dieci anni dopo frequenta l’Università di Yale e infine si trasferisce a New York per iscriversi, nel 1925, alla New School for Design.

Rothkowitz, dunque, comincia a dipingere piuttosto tardi e nulla di ciò che dipinge sembra rivelare il genio che sarà: sono, i suoi primi dipinti, piuttosto convenzionali. Fino a tutti gli anni Quaranta attraversa varie fasi, subendo diverse influenze (figurativa, surrealista, mitopoietica). Quando Rothkowitz diventò Rothko? Quando, cioè, scoprì il suo linguaggio, un modo nuovo e personale di esprimersi sulla tela? La svolta è databile al 1949, quando inizia a dipingere rettangoli a tinte multiple, stratificate: sono campi larghi di colore di infinite sfumature, ottenute stendendo sulla tela fino a una ventina di strati di vernice sottili e trasparenti. Il colore diviene così qualcosa di concreto, caldo, vivo, qualcosa che respira. Tutto l’opposto dell’astratto («Sono un materialista – dice di sé stesso Rothko – I miei quadri sono fatti di cose»).

Per i successivi venti anni l’artista non farà altro che dipingere, ossessivamente, metodicamente, asceticamente, dei rettangoli colorati dalle grandi misure (circa due metri per uno): parallelepipedi silenziosi, nei quali lo spettatore può quasi perdersi, tale è la sensazione di vastità che danno. I colori variano dal rosso al giallo, al verde, dall’arancio all’ocra, dapprima luminosi, poi via via sempre più cupi, blu, marrone, fino ad arrivare ai grigi e neri degli ultimi anni.

Tutto è cominciato con il rosso brillante, dopo che Rothko ha passato ore e giorni davanti allo Studio Rosso di Matisse esposto al Metropolitan Museum of Art di New York. Quella visione segna per sempre l’arte di Rothko. Ma dal 1957 in poi quel rosso comincia a scurirsi, a diventare un «profondo rosso» («deep red» lo chiama lo stesso Rothko, un impasto di sangue brunito). E poi, via via, i toni si abbassano, i colori si uniformano, si scuriscono, come nelle pitture nere e marroni date alle Tate Gallery di Londra – inizialmente destinate a un lussuoso ristorante di New York, un progetto a cui Rothko lavorò per più di un anno, ma a cui poi rinunciò, rinunciando a una ingente somma di denaro, dopo aver cenato nei locali che avrebbero dovuto ospitare le sue opere, infastidito dall’idea che la sua arte dovesse fare da sfondo a una sala da pranzo per «i bastardi più ricchi di New York» – fino ad arrivare al ciclo dei Black Paintings, realizzati negli ultimi due anni di vita, dove dominano lugubri campi di nero e grigio.

Rudy Burckhardt. Photograph of Mark Rothko. 1960 

Poco prima, a segnare definitivamente la svolta nel «nero», Rothko realizza il suo capolavoro, la «Rothko Chapel», un’opera d’arte totale commissionatagli da una coppia di magnati francesi, John de Menil e Dominique Schlumberger de Menil, mecenati, filantropi, cattolici: una cappella a Houston, Texas, dedicata a tutte le religioni, a pianta ottagonale intersecata a una croce greca, da riempire con i suoi dipinti. Rothko li progetta tra il 1964 e il 1967, ricorrendo a materiali come pigmenti disciolti nella colla di coniglio, uova, olio, resina e trementina. Realizza quattordici enormi pannelli neri, cupi, tetri, orlati di marrone, ma a seconda delle variazioni della luce che filtra dal lucernario del soffitto, e soprattutto a seconda del tempo che il visitatore decide di passare in quello spazio, si possono individuare sfumature porpora, blu, viola, grigio, verde scuro. È come se il tempo e la luce contribuissero a creare l’opera insieme al gesto dell’artista.

Rothko progetta così un’esperienza immersiva, che richiede, da parte dello spettatore, impegno, partecipazione, capacità di mettersi in sintonia con le proprie emozioni e i propri pensieri. Anche se l’artista non arrivò mai a vedere installate queste sue gigantesche tele, la «Rothko Chapel» rappresenta l’apice della sua arte, che qui rivela la sua natura mistica, anche se di una mistica basata su un deus absconditus. Di fronte a questi dipinti lo spettatore può identificarsi infatti con quel personaggio del racconto di Kafka, Davanti alla legge, un uomo di campagna che vuole varcare un portone per conoscere la Legge, ma il guardiano del portone glielo vieta fino alla fine dei suoi giorni, costringendolo a vivere tutta la vita in attesa, nella vana speranza di poter entrare, per scoprire, poco prima di esalare l’ultimo respiro, che quell’ingresso era destinato solo a lui, ma solo per essergli negato. «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te – gli dice il guardiano, vedendolo morire – Ora vado a chiuderlo». Che cosa vuol dire questa frase finale della parabola? Che l’attesa, seppur negativa, seppur senza esito, conduce comunque a una rivelazione finale. È questo quello che Rothko chiedeva ai visitatori della Cappella? È questo che lui stesso incessantemente indagava nei suoi rettangoli?

Del resto, molti critici hanno sottolineato il legame tra l’astrattismo dei dipinti di Rothko e l’iconoclastia ebraica («non ti farai idolo né immagine alcuna» si legge in Esodo 20, 4). Se Dio non può essere rappresentato, non può essere nemmeno conosciuto. Il che non vuol dire, però, che non si debba aspettare l’apertura di una porta. L’attesa paziente, ostinata, il tempo che scolpisce il colore, le variazioni cromatiche, la visione stessa del mondo. Quei parallelepipedi dapprima colorati e poi sempre più bui non sono forse una domanda di conoscenza? Entrare nella Legge non si può, ma si può dedicare la propria vita all’attesa che il portone si apra. Sarebbe per questo riduttivo interpretare il rifiuto del colore, a un certo punto del percorso artistico di Rothko, semplicemente come il correlativo oggettivo della depressione suicida dell’artista, della «cosa nera» che arriva sempre più a dominare, a smangiare i margini, a inghiottire i cromatismi. Non è così. Per Rothko anche il nero è un colore. Si è trattato di esplorare, dunque, un territorio nuovo.

Rothko Chapel, Houston; photo Paul Hester

Più che altro, i Black Paintings, iniziati nel 1969, dopo i pannelli destinati alla Cappella, nella loro desolazione, nella loro radicalità cromatica, realizzati usando spesso l’acrilico, in quella inedita demarcazione netta tra i due campi ora privi di commistione, vanno intesi come un disvelamento, e in questo senso – nel senso, cioè, etimologico – possono essere considerati apocalittici.

«Mi spiace per chi erroneamente parla solo della serenità dei miei lavori, quando una descrizione più accurata parlerebbe di serenità sul punto di esplodere»

aveva detto anni prima Rothko, al tempo dei suoi rettangoli colorati di rosso, arancione e blu.

A questo proposito va menzionato un episodio cruciale dell’infanzia di Rothko, a cui l’artista racconta di aver assistito: la deportazione in un bosco da parte dei cosacchi di un gruppo di ebrei del suo villaggio, costretti a scavarsi la fossa comune prima di essere sterminati con un colpo di pistola alla testa. Era una fossa quadrata, un’immagine che avrebbe perseguitato per sempre l’artista. Nascono dalla memoria di questa fossa comune i campi geometrici di Rothko? Deriva da qui il colore nero che prenderà il posto dei colori brillanti? Che sia vero o no questo ricordo (pare non ci siano stati, all’epoca, pogrom cosacchi a Dvinsk, e le modalità del massacro ricordano piuttosto quelli nazisti, successivi), autentico è il trauma di una memoria, personale e collettiva, ferita dalla Storia. Del resto, non era stato lo stesso Rothko ad aver dichiarato una volta che l’unica cosa seria – l’unica cosa, cioè, di cui l’arte dovrebbe occuparsi – è la morte? Non è un caso, allora, che se tutto è iniziato con il rosso, tutto finisca con il rosso: la mattina del 25 febbraio 1970 l’assistente di Rothko entra nel suo studio e scopre il corpo del maestro disteso sul pavimento, senza pantaloni, in un lago di sangue: si è tagliato le arterie di entrambe le braccia, con due lunghe incisioni sotto le ascelle. Sul cavalletto c’è una tela incompiuta, di piccole dimensioni, di un rosso acceso, che inesorabilmente richiama il colore del sangue in cui il corpo dell’artista è immerso, senza vita.

Impossibile, di fronte a questo ultimo, finale ritorno al rosso, non ripensare a una delle tante dichiarazioni di poetica di Rothko:

«dietro il colore si nasconde il cataclisma».

A quale cataclisma si riferisce? Rothko non era praticante, ma da bambino aveva studiato il Talmud. Come il poeta Paul Celan – anche lui ebreo scampato alla Shoah, anche lui sradicato, anche lui suicida – ne era impregnato. Di cataclisma parla la Cabala ebraica, la shevirà, relativa alla creazione del mondo. Consiste nella rottura, al momento della creazione, dei «vasi» della conoscenza, che vanno in pezzi. I cocci rotti compongono il mondo e lo scopo degli uomini è quello di ricomporre il disegno della creazione (Tiqqun). Che altro può fare, dunque, l’artista, se non votarsi a questa riparazione? Rothko vi si è dedicato per tutta la vita, dipingendo i suoi rettangoli, e forse quella linea di acquamarina brillante dipinta nell’acrilico che l’artista voleva tenere per sé e che era apparsa a Malamud come «una luce che irrompe nella notte», non era che la linea di cui parla la Cabala: il raggio Kav, la sottile estensione della Luce Infinita originale che brilla nel vuoto.

Forse Rothko, nel suo viaggio al termine della notte, alla fine della sua lunga attesa davanti al portone della Legge, ha avuto la sua rivelazione: quella di aver riparato il mondo con la sua arte, ricomponendo il disegno originario della creazione. 

Fabrizio Coscia

*In copertina: Mark Rotchko, Senza titolo, 1956

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