Ian McEwan ha compiuto 70 anni nel giugno scorso, porta gli occhiali, ha gli occhi stretti e un viso che denota una dose superiore di scaltra intelligenza. McEwan, tra i grandi romanzieri inglesi di oggi, ha la capacità maliziosa di entrare nelle zone oscure, indicibili dei rapporti umani. Fa a pezzi il pudore e i sorrisi di superficie. Scrive con il bisturi tra i denti. I suoi libri sono pubblicati in Italia da Einaudi: tra i suoi romanzi dovete leggere almeno Amsterdam ed Espiazione (da cui, nel 2007, Joe Wright ha tratto un film con Keira Knightley, che ha raccolto 7 nomination agli Oscar). Sul The New York Review of Books, Ian McEwan ha firmato un racconto, Düssel…, in cui racconta la storia d’amore tra un uomo e un robot. La storia è un frammento, uno sketch: i due – l’umano e l’androide – hanno appena fatto l’amore, e lui, l’uomo, le domanda, con adamitica innocenza, “Sei reale?”. Segue il racconto di una rivoluzione: gli androidi, più efficaci degli uomini, governano con intelligenza ininterrotta sulle sorti della Terra, si replicano, fanno fortuna. Pare un miscuglio velenoso tra 1984 e Isaac Asimov: il colpo di genio è narrare la fine dell’uomo dal gorgo del sesso, dall’inquietudine dell’amare.
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Se mi chiedete come sia stato, devo fare un passo indietro, tornare ad un caldo venerdì sera. Devo tornare al momento in cui sussurrai nell’orecchio della mia nuova amica con somma delicatezza, la richiesta più indelicata. Giacevo sotto di lei. Completamente nuda se non per quel monile d’oro tempestato di lapislazzuli che le cingeva il collo. Persino nella luce ambrata proiettata da una lampada da comodino, la sua pelle risplendeva in tutto il suo chiarore. Le palpebre erano abbassate mentre ondeggiava dolcemente sopra di me e le sue labbra, impercettibilmente aperte, lasciavano intravedere lo scintillio dei delicati denti. La sua mano destra era delicatamente poggiata sulla mia spalla sinistra. Profumava appena, non per un’artefatta essenza ma per il sapone al legno di sandalo che aveva usato. Quelle saponette, sulle quali era raffigurata un’antica barca a vela e riposte su di un asciugamano ben piegato in una lunga scatola di balsa, erano mie. Le aveva prese nel primo istante in cui era entrata nel bagno di casa mia. Perché me ne dovrei dispiacere?
Nella quiete giunta dopo l’amplesso, lei calò su di me. Io, con le labbra che lambivano il suo lobo, iniziai a leccarla e a sussurrare, come se un vento marino mi strappasse di bocca le parole, “Amore, so che non dovrei, ma te lo devo chiedere. So di non aver alcun diritto di saperlo, certo, ma dopo queste bellissime settimane… sento che… Jenny cara… perdonami io ti amo e ti amerò per sempre… ma, ti prego, non mentirmi. Sei reale?”.
Prima di descrivere la sua reazione credo che sia bene spiegare, almeno per i lettori più giovani, come stavano le cose in quella particolare epoca. Eravamo appena usciti da una rivoluzione sociale le cui conquiste, oggi, vengono date per scontate. I giovani, ho notato, agiscono come se nulla fosse. Non percepiscono affatto la storia. I miracoli ottenuti dalle scorse generazioni, diventano ordinari come la vita stessa. Ma chiunque se ne interessi, dovrebbe invece sapere che la discussione è partita molti secoli addietro, con Platone forse, o con Frankenstein di Mary Shelly, o forse con Charles Babbage e Ada Lovelace, o con le speculazioni di Alan Turing, o quando, all’alba del terzo millennio, un software – che apprende dai suoi stessi errori per via di connessioni neuronali e dell’autodidattica – ha battuto un Grande Maestro nell’antico gioco cinese del Go. O forse, in maniera ancor più significativa, quando il primo androide è rimasto incinta di un umano e ha dato alla luce il primo bambino sintetico vivo. Ad appena tre isolati dal mio appartamento, in una deliziosa piazzetta circondata da caffè e all’ombra delle larghe foglie di platano, c’è un monumento dedicato a Molly. E nessuno penserebbe che ci sia qualcosa di insolito in questo genere di monumento, se non fosse per il fatto che al posto di un veterano, di un astronauta o di un poeta, c’è una bambina di 8 anni che con le mani sui fianchi e il portamento audace si erge sul piedistallo di fronte a noi.
Può una macchina essere cosciente? O ribaltando la prospettiva, noi umani siamo solo macchine biologiche? La risposta affermativa ad entrambe le domande ha alimentato il dibattito internazionale fra neuroscienziati, clero, pensatori, politici ed opinione pubblica. Finalmente, molto tempo dopo il dovuto, le persone artificiali ottennero la completa concessione dei vari diritti umani e così fu anche per la loro progenie meticcia. Così ne seguirono molti altri: il matrimonio, la proprietà privata, il diritto di voto e quello all’espatrio, fino all’assegno di disoccupazione. Un androide poteva iniziare un proprio business, diventare ricco, andare in bancarotta, essere perseguito legalmente ed infine essere ucciso invece di essere rottamato. In giro per il mondo vennero decretati diversi “atti d’indipendenza” che resero illegale il possesso di un sintetico. Il sistema legale si è infelicemente appellato alle leggi anti schiavitù del XIX secolo. Ma con i diritti arrivarono anche le responsabilità – la leva militare era incontestabile, un argomento di primaria importanza. In tribunale, i sintetici divennero una risorsa utilissima, soprattutto considerando i difetti cognitivi, la debolezza e la malleabilità della mente umana.
La nostra è la generazione che è diventata adulta durante le conseguenze di tutto ciò – turbolenti anni di passione e riflessioni angoscianti. Essere umani significava essere, curiosamente o tragicamente, ospiti. L’élite scientifica sosteneva che i nostri neo arrivati amici provassero dolore, gioia e rimorso; ma noi come potevamo provarlo? Fin dall’alba della riflessione filosofica ci siamo posti la stessa identica domanda adattata agli altri esseri umani. Dovremmo preoccuparci o dovremmo invece gioire della loro superiorità fisica, mentale e morale? Si sbagliavano i fedeli ha negargli un’anima?
Poi, come spesso accade, il panorama sociale è mutato: una volta compiuto il processo di normalizzazione e la quando la legislatura ha fatto il suo corso, la vita è andata avanti e presto ci siamo scordati di tutto il polverone che si era sollevato. Si dice che le grandi domande, in filosofia, non trovano mai una risposta: semplicemente si dissolvono. Tutte le manifestazioni, le proteste, le ricerche, i discorsi, le conferenze e tutte quelle catastrofiche previsioni sono state vane. Dopotutto, i nostri nuovi amici ci assomigliavano così tanto, anzi erano persino più gradevoli. Ci si poteva fidare di loro ed è questo il motivo per cui molti hanno trovato un impiego nel campo della legge, finanziario o in politica. Così iniziarono a portare avanti tutte le riforme istituzionali di cui veramente avevamo bisogno. […] Quando la signora Tabitha Rapting è diventata primo ministro con una maggioranza di due in parlamento, c’erano quelli che si chiedevano se fosse “vera” – l’ennesima dolorosa parola era stata detta. Ma il punto è che, socialmente parlando, avevamo già segnato un netto confine e per tali domande non c’era più posto nel dibattito pubblico. Erano domande da golf club, o da piccole manifestazioni di movimenti radicali. Era indecente, osceno, quasi razzista e, pertanto, illegale. Questo è ed è stato per molto tempo ormai, e ancora non siamo sicuri di quale sia stato il primo androide a diventare capo di stato, o se mai ce ne sia stato uno. O se invece è da 20anni che viviamo sotto una striscia di governi “androidi” senza fine. Tanto meno sappiamo se uno di loro abbia vinto il singolo a Wimbledon, o se invece si sia stato almeno un singolo uomo a riuscirci dal loro arrivo.
Quindi la domanda che ho posto a Jenny in quella calda serata di luglio può sembrare spregevole ai lettori più giovani, ma lasciatemi rimarcare la mia appartenenza alla generazione precedente, quella che ha vissuto la transizione. […]
Jenny non si offese, e sono fiero di rimarcarlo. Si avvicinò a me. Teneva i profondi occhi neri fissi ai miei. Si sentiva – le parole sono quasi inutili per descriverlo – liquida, levigata, tiepida, avvolgente. Senziente e sensuale. Era davvero una creatura bellissima. Un fulmine d’amore che quasi mi faceva diventare sordo. Ma la mia curiosità era tale che ascoltai ogni sua singola parola. In fondo sono i momenti come questi che ci portiamo fino alla soglia della tomba. Il bacio che ci siamo scambiati è stato tenero ed estatico. Le sue labbra, la sua lingua – un miracolo, qualunque sia la loro origine. Sapevo, già da prima di avere la mia risposta, che non l’avrei mai lasciata. Quindi perché mi sarebbe dovuto importare di cosa era fatta? Sei mio. Disse come fosse un assioma. Aveva già occasionalmente usato le stesse parole durante il sesso e mi erano sempre piaciute. Io ti appartengo. Del resto sarà quel che sarà. Per via di una pausa, mi chiesi scorrettamente se queste tenerezze, per quanto sincere, fossero una sorta di risposta evasiva. Ma come potevo dubitare di lei?
Pensavo che lo sapessi. Sono stata creata a Düsseldorf in Magna Francia, come i miei genitori e le mie zie con le quali tu sei così carino. Invece mio cugino, quello con cui hai giocato a squash, è del Taiwan.
Düsseldorf! Nonostante l’ultima sillaba fosse solo un suono di deglutizione è l’unica cosa che sono riuscito a dire. Stavo scomparendo. Queste poderose sensazioni non appartenevano a me, ma all’iperuranio, al vuoto fra le cose, all’essenza dello spazio e della materia. Attorno a queste due entità si alzò una marea di estasi. Una tale conferma della sua strana ma bellissima diversità fece fibrillare il mondo a cui appartenevo fino a renderlo uno sbiadito punto di ignara singolarità. Per qualche secondo mi tornò in mente il colorito motto della mia adolescenza nei centri commerciali, “meglio le ruotine che le rotelle”. Mi strinsi debolmente la mano al petto, svenni per un istante. Mi vergognai di me stesso per essere stato un amante tanto egoista – appena mi ripresi glielo dissi. Naturalmente, era nella sua natura il perdono.
Mi ero innamorato di lei, non potevo più tirarmi indietro. Ma sapevo per certo che qualcosa di lei sarebbe diventato il mio fardello. Ragionava alla metà della velocità della luce. Pensava un milione di volte più veloce di me. Il suo senso del tatto e altre considerazioni le avrebbero impedito però di mostrarlo. Ma se avessimo vissuto insieme, mi sarei dovuto rendere conto che sarebbe stato difficile per me portare avanti una discussione con lei, o mettere in dubbio una sua qualsiasi decisione. Nel solo lasso di tempo che avrei impiegato per alzare le spalle e distogliere da lei lo sguardo per riordinare i miei pensieri, lei avrebbe potuto ripercorrere tutto ciò che si sa della natura umana e della storia della civilizzazione.
Ed ecco, ecco com’è stato per me. La mia generazione stava a cavallo di un fosso, o forse un crepaccio che si allargava sempre di più, ciò che comunemente chiamiamo storia della modernità. Credetemi, se non avete mai perdonato una macchina per avervi fatto la domanda più indelicata, allora non avete idea del concetto della distanza storica che io e la mia generazione abbiamo provato.
Ian McEwan
(traduzione italiana di Giacomo Zamagni)