1993, quarantacinquesima Esposizione internazionale d’arte di Venezia. L’edizione è dedicata ai «Punti cardinali dell’arte» e il curatore è Achille Bonito Oliva. Il catalogo presenta uno scritto di Ernst Jünger, Prognosi, appunti per una ricognizione su esistenza e arte nel secolo che finisce. La Tecnica è alle soglie di un nuovo livello di dispiegamento e si annuncia la sua crescita incontrollata. Il mondo si trasforma e le vecchie formule non bastano più: gli Dei arretrano e albeggia il XXI secolo, il tempo dei Titani. Per Jünger in entrambi i casi si tratta di entità metastoriche, assicurate all’eternità dalla loro condizione di noumeno. Stanislaw Jerzy Lec affermava, non senza una certa dose di spirito, che «tutti gli Dei erano immortali», ma ciò non toglie o aggiunge niente al loro esistere come rappresentazioni proprie dell’Uomo. Non sono gli Dei a scomparire, è la nostra capacità di comprensione che viene meno, permettendo ai Titani di riconquistare spazio, uno spazio conteso fin dalla notte dei tempi.
«Cronologicamente, si può presumere che i titani precedessero gli Dei, che amministrassero il Caos […] Il loro sommo movimento fece tremare l’Olimpo, finché furono domati da Giove ed esiliati nel regno dei morti. Tuttavia, essi ritornano, come ad esempio nel Prometeo scatenato che si incarna nella figura del Lavoratore».
La XLV Biennale offriva una panoramica dei «Punti cardinali dell’arte» e Jünger inquadrò la sua riflessione circa la creazione artistica nel contesto di un ancestrale scontro fra Dei e Titani. Nell’era dei Titani l’arte, adepta di Dioniso, arretra davanti alla Tecnica. Ciò non comporta una sparizione dell’arte, ma un suo mutamento di sostanza. Per sostanza non si intende soltanto la materialità dell’opera, destinata come ovvio a radicali metamorfosi ma, in un grado più profondo, l’intenzionalità del prodotto artistico. L’opera d’arte risponde alla morale della Tecnica, asseconda i suoi tropismi, legittima l’immaginario di cui essa abbisogna per svilupparsi. L’opera d’arte diventa un’escrescenza della tecnica e contraddice, più o meno nascostamente, l’essenza del suo stesso essere prodotto artistico.
I Titani «operano ed escogitano nel tempo», dacché il tempo permette lo sviluppo, che è l’unico movimento consentito alla Tecnica (movimento che in nessun modo deve essere confuso con il progresso dell’umanità). Gli Dei, invece, esistono nella metastoria, nell’atemporalità. La Tecnica vive nel tempo, scandito dal ritmo parcellizzato proprio dell’orologio meccanico. L’arte, invece, a esso si oppone, evocando atemporalità infinite. Gli orologi aumentano fino alla diffusione capillare, alla saturazione di ogni spazio. Segue un’evoluzione e la tendenza si inverte: l’orologio digitale, alienato in un altro dispositivo, si nasconde in tasca, si fa più piccolo, diventa secondario. Ma anche l’epifanico tempo imposto dall’orologio digitale come accessorio è figlio della Tecnica: il numero che appare sul display è la ricevuta dell’obolo che ci è stato imposto. In questo mutamento dell’oggetto-orologio intuiamo la stretta della Tecnica, decisa ad avanzare pretese sempre più invasive. Non è più soltanto il tempo a esserci sottratto, perdiamo adesso anche la consapevolezza del suo fluire, perdiamo adesso anche la percezione del suo valore. È per questo che nella nuova era dei Titani, concepita da Jünger come un interim, la dimensione storica si estingue e l’uomo vive alla giornata, «l’interim si appiattisce, è questo un processo a cui si associa la trasformazione degli uomini in fellah, in una esistenza cioè priva di qualsiasi consapevolezza storica […]».
Poi, più in là, c’è la morte; l’incontro a cui nessuno può sottrarsi, l’avventura dove «ognuno si espone in modo assoluto». Anche la morte appartiene al regno degli Dei. Fuggendo il tempo e il predominio tecnico: «La potenza della morte si sottrae al tempo e al numero, diventa immaginaria. […] Il fatto che la sua potenza superi qualsiasi misura e valutazione, include una speranza che oltrepassa quella del Paradiso. […] A questo proposito Heidegger scrive: “La rinuncia non toglie. La rinuncia dona. Dona la forza inesauribile dell’infinito”». (Antonio Soldi)
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Si ripropone di seguito il saggio Prognosi, apparso nel catalogo La Biennale di Venezia. XLV Esposizione Internazionale d’Arte. Punti cardinali dell’arte (Marsilio 1993).
PROGNOSI
Gestaltwandel
Uno che parla, adesso o di nuovo, di Dei è meno sospetto di quanto sarebbe stato nella prima metà del nostro secolo, o tra le élite a partire da Voltaire. In verità, questi duecento anni rappresentano un periodo minimo, forse solo un’interruzione, se si paragonano con il tempo in cui Dei e Demoni furono venerati. Certamente, saranno sempre esistite, anche prima di Luciano, delle menti che si sono beffate degli Dei, o almeno di quelli altrui. Ma essi restavano pur sempre tra di noi. Agostino accettava ancora la loro presenza, anche se attribuiva loro soltanto un carattere demoniaco o titanico. La sua domanda, e cioè se gli Dei fossero o meno in grado di creare e sostenere un regno universale, colpisce al cuore la situazione odierna. La contrapposizione tra Apollo e Dioniso, affermata da Nietzsche, è qualcosa di più del simbolismo mitologico, è sostanza mitica.
«Dio» gode tuttora di un certo rispetto, benché il suo nome non sia più usato e la lingua si contorca, in modo più o meno convincente, attorno a esso. Si percepisce intuitivamente a ogni livello intellettuale, che il conto riguardo al qui e all’ora non torna. È allora che la preghiera si trasforma. L’enunciato di Nietzsche «Dio è morto» significa solo che il grado di conoscenza dell’epoca appare inadeguato. Del resto, l’autore si contraddice con la sua idea di «eterno ritorno»
Il divino vive. Se vengono elencati dei nomi, la maggior parte degli uomini pensa divinità precristiane o a quelle venerate in un luogo determinato, a divinità i cui templi sono andati in rovina e di cui sono stati spesso dimenticati i nomi. Dunque, anche gli Dei sono mortali, ma ciò non ha alcun significato riguardo al loro carattere e alla loro realtà.
Pure gli Dei fanno parte della nostra rappresentazione. Possiamo, per esempio, avvicinarci a loro attraverso un’offerta o con la preghiera, ma non possiamo posare il piede dietro il sipario su cui compaiono. Qui essi restano nella «cosa in sé». Per un simile pensiero (La Religione nei limiti della mera ragione), Kant fu nel suo tempo rimproverato aspramente di essere «un diffamatore del cristianesimo e un pericoloso innovatore della fede» (ordine del governo prussiano del 1794).
I culti si fondano sulla speranza dell’incontro con il divino ed è loro compito trasformare ciò in una certezza. Difatti, un culto si rivela più forte, più è in grado di celebrare questa certezza nelle festività e nelle opere d’arte. In una città che si approssima a quella eterna, l’opera d’arte dovrebbe diventare sacra e il sacro mutarsi in arte. Ciò non è però conseguibile nel tempo; si può giungere solo a una conciliazione, mai a un risultato durante lo scontro delle immagini. Nella città eterna non esistono templi, poiché l’arte è giunta alla bellezza non soggetta al tempo, scopo a cui, peraltro, l’arte mira tanto instancabilmente quanto invano. Dobbiamo appagarci di quello che ci viene offerto, al pari della vecchietta che venera un osso come una reliquia.
Perlomeno l’atemporalità non ci è estranea. Procediamo da essa e verso di essa andiamo. L’atemporalità ci accompagna durante il viaggio come l’unico bagaglio che non può essere smarrito. Essa getta le sue ombre su di noi quando soffriamo e ci dona la vita quando la sua luce ci sfiora.
L’espressione Gestaltwandel la devo a Leopold Ziegler, al quale sono peraltro debitore di un colloquio su L’operaio subito dopo che il libro comparve. Di ciò abbiamo discusso vicino al rifugio sopra la Cappella di Goldbach, un luogo dove passo il mio tempo a buttar giù di questi appunti nei giorni in cui appare una bella vista sul lago. Il mutamento della forma significa alterazione della apparenza tramite cui sono venerati gli Dei. Perciò esistono dei luoghi che sono da sempre considerati sacri, benché la religione sia mutata. È probabile che qui un tempo sia apparso un angelo, che sia accaduto un miracolo. Sui ruderi degli antichi templi sono stati edificati i nuovi, che restano meta di pellegrinaggi, motivi per festività, per offerte e per il raccoglimento. Le preghiere hanno sempre una loro importanza, ma si dice che proprio in questi luoghi esse siano particolarmente esaudite.
La lotta dei Titani e il crepuscolo degli Dei sono metastorici; a partire dalla natura e dal cosmo intervengono nella storia. Cronologicamente, si può presumere che i titani precedessero gli Dei, che amministrassero il Caos. Il mito segue ciò, affermando che i titani concepirono gli Dei e li educarono. Il loro sommovimento fece tremare l’Olimpo, finché furono domati da Giove ed esiliati nel regno dei morti. Tuttavia, essi ritornano, come ad esempio nel Prometeo scatenato che si incarna nella figura del Lavoratore. Gli Dei creano delle atemporalità, i Titani operano ed escogitano nel tempo. Difatti, essi sono più consoni alla tecnica che all’arte. Perciò Hölderlin consiglia al poeta di sognare e di consolarsi presso Dioniso mentre regnano «i ferrigni», anche se sa benissimo che gli Dei torneranno.
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Esposizione
A proposito dell’arte aritmetica.
L’esponente è un numero scritto sopra una cifra base che indica quante volte quest’ultima si moltiplica per sé (si potenzia). Nell’equazione
23 = 8
2 corrisponde al numero base, 3 all’esponente, 8 al risultato. Il numero base è designato anche come «radice», mentre l’esponente come «indicatore». Il segno di uguaglianza rappresenta «il centro» che media, divide e nello stesso tempo unisce.
A proposito della botanica.
Se trasferiamo l’equazione in una immagine, il numero base dovrà essere interpretato come radice, il segno di uguaglianza come tronco e l’esponente come corona di un albero. Il risultato consiste nel frutto che in un primo momento deve essere considerato un mero prodotto, spoglio di qualsiasi valutazione che lo denoti in senso economico, estetico e morale.
A proposito della ortografia.
«Esporre» significa da un lato «allontanare», dall’altro «interpretare» e «spiegare». Sono impegnato in un lavoro, in uno scritto in tutti i suoi dettagli ed esamino la sua disposizione e la spiego. «Esporsi» vuol dire allontanarsi, porsi in una situazione critica, soprattutto soggiacere a un pericolo; detto in maniera neutrale: si tratta di un «mostrarsi». Tale capacità (esponenziale) è in un primo tempo soltanto potenziale, nonostante crei dei fatti (ossia degli accidenti, nel senso di Tommaso d’Aquino). A questi fatti vengono appese come etichette delle qualità come buono e cattivo, bello e brutto che a loro volta mutano secondo i luoghi e le persone. In ogni caso, l’auto-allontanamento ha un suo effetto anche sulla prospettiva e di conseguenza sullo stile: non «sono giustiziato», ma «partecipo alla mia esecuzione». Tutto ciò riguarda già la trascendenza. La parte esponenziale nelle gesta e nelle opere determina il clamore che esse suscitano. Mentre la vita di un’opera poetica o figurativa è fissata invece dal numero base, vale a dire soltanto dal suo carattere.
A proposito della biografia.
Nella vita ognuno si espone in modo diseguale. Uno sfrutta il proprio talento, l’altro lo dissipa, lo spreca o lo nasconde sottoterra; nel centro si colloca il juste milieu, la modesta economia domestica. Il singolo può raddoppiare la sua forza, la può decuplicare, tutto ciò non cambia nulla riguardo al numero base. Napoleone stimava la sua presenza sul campo di battaglia equivalente a centomila uomini. Fallì però per il suo carattere, non per la potenza, e ciò vale in senso eminente pure per Hitler.
A proposito della trascendenza.
Vi sono degli incontri totali che mettono in questione il corpo e la vita; essi inaugurano un vasto campo che si estende tra l’intelligenza politica e la disciplina etica. Nessuno può sottrarsi all’ultimo incontro, quello con la morte. Qui ognuno si espone in modo assoluto. La potenza della morte si sottrae al tempo e al numero, diventa immaginaria. Se inseriamo per il singolo, come per colui che è sconosciuto a sé, il numero base X, egli sarà esposto infinitamente:
X∞
Solo così l’individuo diventa «indivisibile», come esprime il suo nome. Il fatto che la sua potenza superi qualsiasi misura e valutazione, include una speranza che oltrepassa quella del Paradiso. L’arte e i culti circondano e ornano il muro del tempo; ognuno celebra da solo il sacramento della morte. Nella morte di Ivan Ilijc, Tolstoj descrive il passaggio durante il quale l’esistenza non viene tolta, ma l’individuo rinuncia ad essa. A questo proposito Heidegger scrive: «La rinuncia non toglie. La rinuncia dona. Dona la forza inesauribile dell’infinito».
La stessa cosa afferma Schopenhauer nello scritto Sulla dottrina dell’indistruttibilità del nostro vero essere dalla parte della morte: «Per noi la morte è e rimane un qualcosa di negativo – il venir meno della vita; ma essa deve anche avere un lato positivo che però ci rimane celato, perché il nostro intelletto è assolutamente incapace di coglierlo. Perciò noi sappiamo sì quel che con la morte perdiamo, ma non quello che guadagniamo grazie ad essa».
Nessuna strada valica il presentimento. Il grande pensatore si lamenta che la luce si affievolisca proprio quando un nuovo mattino comincia a risplendere: «Se pertanto un filosofo dovesse opinare che troverebbe nella morte una consolazione destinata a lui solo, insomma una diversione, perché si risolverebbe il problema che così spesso lo ha occupato, gli andrebbe probabilmente come colui che proprio quando stava per trovare ciò che cercava, ebbe la lanterna spenta». Qui è possibile esprimere un dubbio. Se una luce forte comincia a illuminare, essa non spegne quella più debole, ma l’accoglie nel suo frangersi. Nietzsche profetizzò un lampo di tempo di una densità che fa trascorrere un millennio non «come un giorno», ma come una frazione di secondo. Così «l’eterno» viene ingoiato dalla atemporalità. Hölderlin raffronta il muro del tempo con la parete della prigione che rovinerà nella «più sacra di tutte le tempeste».
Se un fiore si trova in uno spazio, esso non impallidirà nei flutti della luce, anzi splenderà maggiormente: sarà integrato e liberato, perché lo splendore e la bellezza sono insufficienti. Tale è la ragione per cui il fiore è mortale. La moneta spicciola viene cambiata in oro alla dogana – l’obolo è ciò che permette che la porta si dischiuda.
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La rivoluzione del mondo e della terra
Anche dopo la soglia del secolo, proseguirà l’allontanamento dell’uomo dalla storia. I grandi simboli, «corona e spada», perderanno ulteriore importanza; lo scettro si trasformerà; i confini storici sfumeranno; la guerra sarà bandita e il dispiegamento del potere e la minaccia diventeranno plateali e universali.
Il secolo a venire apparterrà ai Titani, mentre gli Dei perderanno ancora di più il loro prestigio. Siccome però torneranno, come sempre hanno fatto, il XXI secolo sarà, dal punto di vista del culto, un anello intermedio, un interim. «Dieu se retire». Il fatto che l’Islam appaia un’eccezione non deve illuderci: esso non è superiore al tempo, ma, dal punto di vista dei Titani, a esso adeguato.
I Titani compaiono e scompaiono come forze naturali; essi sono rappresentati in figure, anche come animali e uomini. Hölderlin preannuncia il loro arrivo in Pane e vino: ma limita il loro dominio dichiarandolo un interim, mentre pensa che per il poeta sia «meglio dormire» in un periodo «misero», in un’epoca lontana da Dio. Egli non esclude però che nel frattempo potrebbero accadere fatti potenti, benché violenti. Crescono «eroi in culle ferrigne», essi «sembrano» solo divini.
L’ultimo rifugio – il sonno, l’ebbrezza, la dimenticanza – Hölderlin lo trova preso Dioniso. In ciò il poeta concorda con Nietzsche.
Schopenhauer considera il mondo come il campo da gioco della volontà ceca; il mondo è titanico, sottoposto a cambiamenti eterni, ma comunque di natura caduca. «Poiché tutto ciò che nasce, merita di perire». Darwin ha risposto alla domanda del perché nascono delle conformazioni meravigliose, malgrado la cecità della volontà. Gli fu posta poi la domanda seguente: «Dunque anche una Tadsch Mahal nasce da una serie di sassate?». Schopenhauer, che del resto rigettò la teoria di Darwin, cercò il senso vero dell’umanità nella contemplazione, vale a dire nella non azione. La conoscenza non soggetta al tempo genera culti e idee, particolarmente opere d’arte. Schopenhauer pensava che un giorno avrebbe potuto arrivare in Europa un «buddismo purificato». «Deve essere dunque una metafisica popolare, una religione». Ruskin: «Il compito decisivo dell’arte consiste nella rappresentazione dell’agire divino nella natura». Si tratta dunque di approssimazione. Mentre Hölderlin guarda ansiosamente in faccia l’interim, Schopenhauer affronta il titanismo in maniera scettica e pessimista; Nietzsche invece qui si sente a suo agio. Nel fatale anno 1888 riconosce la sua patria spirituale nel XXI secolo. A questa accentuazione crescente della volontà corrisponde lo sviluppo discontinuo dell’energia nel mondo della tecnica.
L’affermazione nietzschiana della volontà si distingue per il suo rapporto con il tempo. Kant comprende il tempo tra le forme intuitive, Nietzsche gli assegna invece una realtà assoluta, posizione questa che trova il suo punto estremo nella dottrina dell’eterno ritorno. Questa, di solito, è stata fraintesa perché non è frutto della conoscenza, ma è una fede.
Oswald Spengler ha sottolineato il valore specifico che l’uomo occidentale attribuisce al tempo. Hanno fatto seguito le forme tipiche per misurarlo. Dal gotico in poi i campanili non hanno avuto solo la croce, ma pure l’orologio, il cui rintocco copre e ombreggia il paese. Questo sviluppo ha avuto inizio intorno all’anno mille con l’invenzione dell’orologio a ruote che sostituì quello elementare. Il nostro secolo si caratterizza tra l’altro come quello degli orologi, dato che la loro precisione e la loro vita si avvicinano alla perfezione. Inoltre, il loro ritmo non solo misura tutto, dall’oggetto più piccolo a quello più grande, dall’atomo all’universo, ma determina anche il movimento quotidiano, per esempio, quello del motore. L’orologio al quarzo significa spiritualmente un ritorno all’orologio elementare. La terra cambia la sua pelle.
Il naufragio del Titanic, il suo fallimento di fronte all’iceberg, rappresenta un segno profetico che di solito si incontra solo nel mito. Da ciò si deduce, tra l’altro, che il progresso non è che un interim, un’apparenza che ha un inizio e una fine. Del resto, sappiamo da sempre che le cime degli alberi non arriveranno mai a toccare il cielo. Adesso si pone la domanda riguardo a quale aspetto prenderà la terra, o «che cosa essa voglia». Sembra che le visioni apocalittiche si ripetano a ogni fine secolo; oggi esse assumono, riflettendo la condizione spirituale del mondo, una natura prevalentemente tecnica.
Contrariamente a ciò, gli astrologi predicono una spiritualizzazione straordinaria. Tale previsione si armonizza con l’attesa cristiana di un secolo dello Spirito Santo, che segue come terzo quelli del Padre e del Figlio, e con un Terzo Testamento la cui stesura spetta ai poeti.
Se si giudica l’interim come un’ascesa non celata, e come tale anche figurata, dei Titani, ad essa deve essere connesso anzitutto un mutamento della terra, peraltro già preannunciato, non in ultimo attraverso delle catastrofi. È probabile allora che in tale condizione siano sopravvalutati il contributo e la colpa degli uomini. Ciò si può dedurre, di contro, dal fato che l’uomo si rivela qui impotente, ammesso che egli non getti pure olio sulle fiamme.
Da due secoli siamo coinvolti in una rivoluzione mondiale, la quale muterà la natura e la società, mentre già gli impulsi tecnici precedono quelli sociali. Dal punto di vista storico, si ripresenta una situazione che si è mostrata già molte volte: le invenzioni di armi e di strumenti hanno provocato guerre e migrazioni; lo sfruttamento forzato del suolo e del bosco ha causato devastazioni di interi paesaggi. Occorre però chiedersi se il punto di vista basta per spiegare tutti questi processi o se ci troviamo già alla fine o perfino al di fuori della storia. Vi sono molti indizi che ci fanno pensare che una rivoluzione della terra comprenda e determini quella del mondo. Tutto questo sarebbe comunque pur sempre una ripetizione, anche se di un ciclo più ampio in cui non si contano tanto le epoche storiche, quanto le ere della terra. Una visione simile si avvicina ad Esiodo per quanto riguarda il mito, e al sistema di Cuvier dal punto di vista scientifico. Questa prospettiva è sempre più accettata, anzi è molto comune. Bisogna capire se valutiamo correttamente i grossi mutamenti, per esempio quelli climatici, atmosferici e demografici. Il rispetto per la statistica e il terrore per le cifre colossali sono cose sconosciute ai Titani. Bisogna attenderci non solo delle perdite, ma pure delle sorprese, come ad esempio scoperte di nuove materie e forze nell’ambito inorganico e di nuove razze di animali nel mondo organico. Il passaggio sulla terra di ciò che non è visibile può compensare la scoperta di continenti. Si tratta di evoluzioni di forze naturali a cui va aggiunto anche l’apporto umano; tutto questo non è possibile confonderlo con dei fenomeni di culto. Essi accompagnano la fine dell’interim.
Pure negli ambiti ove le forze naturali si livellano interviene un ordine gerarchico. Cominciano a delinearsi delle figure diverse: erculee, centauriche e prometeiche; la prima figura che si delinea è quella del lavoratore cui la tecnica fa da divisa. E come lingua universale la tecnica libererà i triari dal duro apprendimento dei numeri e dell’alfabeto, forse, in generale, dall’obbligo di frequentare la scuola. Nel gioco e con lo sguardo si impara, in maniera esistenziale. Non bisogna dimenticare i giganti e le chimere che si manifestano là ove la ricerca, come nell’ambito della tecnica nucleare e genetica, sfiora i suoi limiti o comincia a valicarli.
Benché la spiritualizzazione crescente sia molto pericolosa, essa è però in grado di tener testa alla distruzione, per esempio, alla guerra, riducendola a uno scambio di formule. Lo sconfitto abbandona come in una partita di scacchi, e se rovescia il tavolo da gioco, condivide il destino dei giganti. Neppure lo stato universale abolita mai la violenza, dato che essa fa parte della creazione. La guerra simulerai azioni di polizia più o meno grandi. Siccome però le armi nucleari saranno monopolizzate, e le insurrezioni non avranno più successo, anche se il terrore si accrescerà.
Il progresso della tecnica può sfociare pure in magia. Già in alcuni settori, particolarmente in quello dei traffici, si profila la trasformazione di pensieri in azioni. Una telefonata non è poi così semplice come sembra; vi sono barriere fotoelettriche, trapianti, chimere, apparizioni di morti sullo schermo e così via.
Si moltiplicano i biotipi nei quali bastano pochi gesti per agire. Una situazione simile allontana dalla storia perché piace. Nietzsche la prevedeva nell’Ultimo uomo e Huxley l’ha descritta nei suoi particolari. L’interim si appiattisce, è questo un processo a cui si associa la trasformazione degli uomini in fellah, in una esistenza, cioè, priva di qualsiasi consapevolezza storica: si vive alla giornata. Le élite si restringono e diventano più potenti, poiché pure loro raggiungono il limite ove il pensiero si trasforma. I Titani vivono e agiscono nel tempo e il loro potere si afferma nell’eterno ritorno. Tuttavia, quest’ultimo non significa la fine del tempo e dei tempi, bensì alla loro estensione infinita. È sufficiente un taglio e la fine dei tempi sopraggiunge. I Titani non hanno bisogno delle preghiere, a loro si rende servizio tramite il lavoro. Sono altamente rispettati, nonostante il loro nome si nasconda dietro la loro attività. Così, oggi non si parla più di Urano, ma di urano; neppure Plutone, sebbene potenza terrena, non appartiene più all’Olimpo.
Gli Dei non sono eterni, ma non soggetti al tempo. Perciò le preghiere indirizzate loro non esaudiscono la speranza terrena, ma sono esaudite in un modo che va al di là di qualsiasi speranza. L’arrivo degli Dei si può presagire, ma non si può né calcolare, né predire. Tuttavia, devono comparire, visto che senza gli Dei non esiste una cultura. Prima di cambiamenti grandi, tutte le attese, ingenue o fondate, si concentrano in apparizioni. Una simile apparizione è in grado di riscaldare con il suo riverbero per più di un millennio, benché con il tempo essa si indebolisca e con ciò la teologia perda di forza. Ogni omelia si trasforma in una orazione funebre più o meno riuscita; perciò, il suo effetto è maggiore davanti alla tomba.
Nell’interim gli Dei sono inattuali, perfino nelle opere poetiche. Conviene neutralizzare il loro nome. In modo corrispondente, e per apparire estremamente spiritualizzato, il divino non necessita né di maschere animalesche, né umane. Le mutazioni nuove implicano certamente anche un grado di conoscenza novella. Essa però non mancherà, dato che le forbici tagliano maggiormente proprio nel momento in cui stanno per chiudersi.
Ernst Jünger