16 Novembre 2024

Breve excursus su Mario Guaraldi, l’anti-editore che ora vogliono premiare

Per capire chi è Mario Guaraldi ne dico tre. Questa riguarda Federico Fellini. Nel 1983 Guaraldi organizza la “prima” mondiale di E la nave va… al Grand Hotel di Rimini. Fu un evento epocale: Fellini, volto tra il clown e la Sfinge, tra il tiranno e il fauno, come si sa, malsopportava i riminesi, odiava la Rimini prona al turismo, che visitava, di passaggio, soltanto di notte. Sul grattacielo di Rimini, un chirurgico raggio laser incise la scritta “Grazie Federico!” – tra il regista e la sua città scoccò, ancora una volta, l’amore. Dell’evento, augusteo, resta traccia in alcuni libri “di scena”, da collezione: Fellini della memoria – a cura di Ester de Miro e di Guaraldi, edito da La casa Usher – ricalca il menù di quei giorni (dal 25 settembre al 3 ottobre), con florilegio di interventi, tra cui spicca un testo di Umberto Eco, Theut, Fellini e il Faraone. “Ciascuno leggerà come gli pare”, chiosava l’editore-istrione, maratoneta dell’estro, Guaraldi, conferendo al leggere una leggerezza rischiosa, la spavalderia di chi affronta a pieno petto la morte.

Seguirono tante altre cose “felliniane”, per lo più costruite insieme al semiologo Paolo Fabbri. Il libro miliare resta La mia Rimini, con un endorsement memorabile di Sergio Zavoli; il progetto più folle la traduzione digitale – in più lingue – del fatale Libro dei miei sogni di Fellini.

La seconda riguarda Eugène Ionesco. Nel 1992 Guaraldi porta al “Meeting per l’amicizia fra i popoli” il grande drammaturgo francese, che realizza la sua ultima grande opera, dedicata a Maximilien Kolbe, il santo francescano che ad Auschwitz offre la vita in cambio della salvezza di un detenuto. “Il suo amore andava molto più in là delle torture che lo attendevano o lo separavano dal mondo superiore”, scrive Ionesco. Due anni dopo, Guaraldi pubblica uno dei libri più potenti di Ionesco, L’assurdo e la speranza, il libro di un incessante cercatore:

“Per arrivare a Dio, bisogna dimenticare tutto, dimenticare anche che lo si sta cercando? Non si deve parlare, non si deve parlarne e io non faccio altro che questo. Bisogna parlare di traverso”.

Manca la terza. La terza cosa, per capire Guaraldi, è il sorriso e il frainteso. Il fauno e il prestigiatore. Guaraldi è un uomo buono, sorride sempre; sorride perché sa che nessuno lo capisce perché nessuno capisce i profeti.

Guaraldi ha fondato la prima delle tante case editrici che portano il suo nome nel 1971, aveva trent’anni. In “Bocconi”, dove aveva studiato, stampava una rivista che si chiamava “Savitri”, come la divinità induista, di entità solare. Negli anni, ha pubblicato libri bellissimi di autori importantissimi, chessò, L’impossibile di Georges Bataille, I delfini di Pierre Bourdieu, gli scritti di Richard Wagner e una “indagine” sui “testi delle scuole elementari” di Umberto Eco, s’intitola I pampini bugiardi. Ha pubblicato i libri che ricostruiscono i rapporti tra Pier Vittorio Tondelli e la riviera romagnola.

Tra i libri dell’antica Guaraldi che amo di più ne cito, alla rinfusa, una manciata: Reazionaria, l’“Antologia della cultura di destra in Italia”, uscita nel 1973, ancora oggi – per la mole di documenti raccolti – uno strumento straordinario. A curarla, Piero Meldini, amico di Guaraldi, il più importante scrittore italiano ‘scoperto’ da una casa editrice snobisticamente anti-italica come Adelphi (leggete, almeno, L’avvocata delle vertigini, uscito trent’anni fa). Poi, la raccolta di saggi, pionieristici, Perché Pasolini (era il 1978, appaiono testi, tra gli altri, di Paolo Volponi, Dario Bellezza, Gianni Scalia); e quel libro, onnipossente, dedicato a Kazuo Ohno, Cent’anni di danza (2007): si erano conosciuti nel 1985, a Rimini, “quando androgino e seminudo sventolava un fiore di carta sotto il naso di un crocifisso trecentesco”.

Guaraldi – perenne sorriso, da Golia della gioia, come se quel cranio in furia non avesse fede nel corpo, transitoria macchina d’inganni – sventrò il carcere di San Vittore per scoprirvi Enzo Fontana, anima in pena, talento purissimo. Da quell’uomo – che aveva militato nei Gap orditi da Giangiacomo Feltrinelli e s’era poi dato alla lotta armata, sconfitto, invitto – aveva tratto uno scrittore: pubblicando un libro, Mia linfa mio fuoco (1996), che è poi un inno alla letteratura come libertà, facendogli dirigere la collana dei “Libri cartolina” (o “Post-libri”), ‘consegnandolo’ a Mondadori, con cui Fontana pubblica il romanzo ‘dantesco’ Tra la perduta gente.

Ma qui rischiamo la retorica enciclopedica.

In verità, Guaraldi ha capito, prima di tutti, le aporie, le apostasie, le storture dell’editoria italiana. Ha profetizzato la gogna del sistema distributivo, la creazione dei gruppi monopolistici, la fine della “casa editrice” in virtù dell’“azienda editoriale”. Ha capito, prima di tutti, che le aziende editoriali avrebbero svenduto il proprio tesoro – il “catalogo”, iliadica identità, eroico cuore di una impresa libraria – per mere ragioni di mercato. Si è giocato tutto – in un’era-chimera, in cui Internet era agli albori – sull’editoria digitale, sulla digitalizzazione, sui libri creati ‘su misura’. Ha intuito che le biblioteche devono diventare centri di produzione del sapere e che l’editore deve essere un rabdomante; ha ideato il primo, geniale laboratorio digitale (GuaraldiLab) riscoprendo, nello stesso tempo, il genio della carta, tramite edizioni tipograficamente eccellenti come il facsimile del De Re Militari di Roberto Valturio, capolavoro del XV secolo. Ha pubblicato gli esordienti assoluti e le opere di Filone di Alessandria.

Ha insegnato, cioè, che l’editoria è per ribelli, per famelici di felicità, per candide canaglie.

Cinquant’anni fa, a Rimini, insieme a Marsilio e a Mazzotta, osò sfidare i monopoli del libro (si veda: Per una editoria democratica, Guaraldi, 1974); nel 1997 scrisse “un appello al Ministro della cultura Walter Veltroni” in un libro dal titolo Dire Scrivere Pubblicare Leggere Valutare, in cui stigmatizzava la “crisi da bulimia consumistica” e l’“anoressia culturale che investe l’intero Paese”, afflitto da libri “quasi sempre di infima valenza culturale”; nel 2011 si rivolse all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per contrastare “l’instaurarsi di un vero oligopolio, sia a livello di gruppi editoriali che di catene distributive tradizionali, con prodotti di mass-market quasi sempre di basso profilo culturale, omologati e omologanti”.

Naturalmente, nessuno gli ha dato ascolto. Naturalmente, Guaraldi ha continuato a lavorare – all’epoca, con i narratori del tempo presente (Guido Conti, Roberto Barbolini, Giulio Mozzi, Aurelio Picca etc) e con i Nuovi poeti italiani contemporanei (così l’antologia curata da Roberto Galaverni, 1996).

Guaraldi sa trarre da ciascun autore l’oro, l’alloro dell’entusiasmo. A me, fece credere di essere uno scrittore. Collaborai con Guaraldi dieci anni fa; mi insegnò ogni cosa; mi sbalordiva la sua balordaggine, l’instancabile mente. Pubblicò un romanzo sulla rinuncia di Benedetto XVI, Rinuncio, che finì nel lotto del Campiello. Il libro piacque alla presidente di giuria, Monica Guerritore, che – cosa inaudita per i canoni formali del premio – si mise a leggerne un brano in pubblico, durante la votazione per scegliere la cinquina. L’evento si svolse nell’aula magna dell’Università di Padova; il libro incuriosì Philippe Daverio, che lo votò. Naturalmente, in una cinquina di implacabile modestia, quel libro fu il primo degli esclusi. Rinuncio ebbe poi un – infruttuoso – destino teatrale: in scena, a interpretare un papa maculato dal disastro, un amico di Guaraldi: Paolo Graziosi, attore dal piglio enigmatico, di piena sagacia, come sanno Nanni Moretti e Pupi Avati, Mario Martone e Paolo Sorrentino.

Lo so. Questo articolo sembra un ‘coccodrillo’. Non mi risulta che Mario Guaraldi stampi ancora libri. Fatto è che il Comune di Rimini ha deciso di onorarlo con la massima onorificenza civica, il “Sigismondo d’oro”. Lo hanno conferito, tra i tanti, ad Antonio Paolucci e a Elio Pagliarani, a Carlton Myers, il cestista, e a Igor Protti, il calciatore, a Don Oreste Benzi e alla Comunità di San Patrignano, a Eron. Cosa c’entra Guaraldi? Dicono che Guaraldi sia un “pioniere dell’editoria e intellettuale che ha saputo innovare” – ma un pioniere, un innovatore (un profeta, dico io), non lo devi premiare: basta ascoltarlo. Per questo, questo premio mi pare una campana a morto.

Per come lo conosco – ma io, si sa, sono un figlio irriconoscente, un figlio di – Guaraldi non accetterà il premio. A Rimini lo hanno sempre ignorato, sotto la cappa del matto, dell’esagitato, dell’inconcludente.

A casa sua – dove una volta mi ha presentato Eleonora Abbagnato – una volta Guaraldi ha portato il circo. La sua casa è in collina, in un parnaso di oche, dove la luce ha il coltello tra i denti. Per come lo conosco io, Guaraldi manderà una scimmia a ritirare il premio – o un acrobata, o un mimo.

Pare che la “cerimonia di consegna” sia il 20 dicembre, “nello scenario [osceno, ndr] del Teatro Galli”, con palloso saluto sindacale. Cade di venerdì. Per come lo conosco – ma io, si sa, sono il figlio scemo – Guaraldi si ritirerà in preghiera. Il “Sigismondo d’oro” è l’analogo dell’“Ambrogino d’oro” a Milano; ma vuoi mettere Sigismondo Pandolfo Malatesta rispetto a Sant’Ambrogio? Sigismondo, il maestro della guerra, il principe geniale e sanguinario, papista e anticristo; il principe sconfitto, esterrefatto dalle sue malefatte, amato da Ezra Pound e da Henry de Montherlant. Dovrebbero premiare i folli, i corsari, gli inadempienti alle formule, i fautori del caos.

A Guaraldi dovevano dare le chiavi della città, piuttosto – cinquant’anni fa.

No. Non andrò alla cerimonia di consegna. Voglio troppo bene a Mario. Mario non vive di australi nostalgie, non ha la sua libagione in un ceruleo futuro, non è arso dalla belva del rancore; Mario vive nel Regno, nell’avvento, nel veniente. È un cristiano – per questo fa paura. Lo vedo volteggiare: ammannisce i suoi demoni, li battezza con il bastone.

Gruppo MAGOG