Inoue Yasushi: il romanzo della Cina imperiale
Letterature
Nelle fluorescenti infiorescenze della genealogia egli distilla, in una macabra alchimia del fato, i propri caratteri. Quelli che lo hanno esaltato nella gloria; che lo hanno decapitato. Tutto comincia da un don Giacobbe “nato a Saragozza”, il quale, pur “segretario del re don Alfonso”, nell’“anno 1428 rapisce Anna Palafox, il giorno dopo in cui ella aveva pronunciato i voti”. I due amanti fuggono a Roma, don Giacobbe si fa un anno di carcere, poi “il papa Martino III” (che in realtà è Martino V, cioè papa Ottone Colonna) mette d’accordo i due, scioglie lei dai legacci divini, benedice le nozze. In questa storia c’è già tutto: il flirt con i potenti, la possanza della sensualità, la passione che primeggia su tutto. Don Giacobbe preferisce perdere i privilegi di corte pur di scappare con la propria amata. La quale – è decisivo – è una suora. Il seduttore ha sempre un unico competitore: il Padre eterno.
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Poi, è chiaro, il Dio cannibale si vendica a dovere, “tutti i figli nati da questo matrimonio morirono in tenera età”. Tranne uno. Indovinate come si chiama? Già. Don Giovanni. Che ha un figlio da una madama. Indovinate come si chiama? Marcantonio. Don Giovanni, della stirpe avida di passioni dei Casanova, “uccise un ufficiale del re di Napoli”, ragion per cui scappa a Como. E va ancora più in là. S’imbarca con Cristoforo Colombo. E “morì in viaggio nel 1493”. Il figlio Marcantonio, “apprezzato poeta alla maniera di Marziale”, “segretario del cardinale Pompeo Colonna”, non riesce a tenere la penna a freno: una “satira contro Giulio de’ Medici” (futuro papa Clemente VII) lo precipita in disgrazia. Anche in questo caso, i caratteri del Casanova ci sono tutti: l’amore per le armi e quello per la parola. Entrambi adoperati in modo a dir poco disastroso.
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La “Storia della mia vita” di Giacomo Casanova, il libro più venduto e desiderato dell’Ottocento (morto l’audace autore, nel 1798, proliferarono edizioni in tedesco, in francese, infine in italiano; un monumento editoriale è la traduzione devotissima di Pietro Chiara), attacca con la genealogia, manco il volitivo veneziano fosse il Gesù Cristo dell’edonismo. Immaginate la scena. Casanova, l’uomo che ha divorato la vita e che da essa è stato rigurgitato, il genio che ha fatto l’amore con Madama Fortuna finché non si è accorto che lei ha il ceffo da vampiro, è a Dux, in Boema, come bibliotecario. Dux, l’attuale Duchov, è un elegante paesone (oggi fa meno di 9mila abitanti) nelle interiora della Repubblica Ceca. Casanova muore di noia. “Degna o indegna la mia vita è la mia materia, e la mia materia è la mia vita”, scrive. E scrive le sue memorie, per dieci anni, invecchiando ignobilmente – lui, baciato dalla Fortuna che forse pensava di aver conquistato l’immortalità – scavando nella giungla degli avi, alla ricerca, forse, delle origini della sua disgrazia.
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Casanova, personaggio-icona (al di là del Casanova secondo Fellini, miracoloso e mirabolante, è dalla nascita del cinema, dagli inizi del Novecento, che fanno film su di lui), ipotetico coautore del “Don Giovanni” di Mozart, con l’“Histoire de ma vie” scrive un capolavoro fremente e folgorante, in concomitanza con i grandi classici del genere autobiografico (la “Vita” di Vittorio Alfieri, pubblicata nel 1806; “Le confessioni” di Rousseau sono edite tra il 1782 e il 1789), che è l’humus del ‘sadismo’ (“La filosofia nel boudoir” è pubblica nel 1795), ma in lui la dissipazione non è mai greve (al di là delle indocili idee sull’incesto: “non ho mai potuto comprendere come un padre possa amare teneramente una bella figlia senza aver dormito almeno una volta con lei”), è gioia prodigiosa, piuttosto, la gioia di chi celebra l’amore e smutanda le virtù dei potenti (“Che cosa è l’amore? […] Sì, è una specie di follia, ma sulla quale la filosofia non ha alcun potere; è una malattia cui l’uomo va soggetto in qualsiasi età e che diventa incurabile se colpisce in vecchiaia”).
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Sorta di caleidoscopio dei piaceri, il romanzo di Casanova – probabilmente il più gran ballista della letteratura italiana – ambienta l’avventura sessuale più ardita a Rimini. Siamo nel 1744, Casanova è ad Ancona, dove tra un vezzo e un lazzo chiava con una schiavetta greca, quando gli presentano Bellino, “un castrato” dagli occhi “neri e pieni di fuoco”, di cui il Nostro, immaginando che “fosse una bella giovane travestita” s’innamora “perdutamente”. Affascinato, come sempre, più dalla sfida della seduzione che dalla bellezza del sedotto, Casanova, tra i palpiti, esclama, “Avremmo potuto riposarci a Rimini da buoni amici se tu mi avessi dimostrato un po’ di amicizia; se fossi stato compiacente con me, avresti potuto guarirmi dalla mia passione”. Non che Rimini fosse patria di bordelli e ricovero di amanti in calore: lì Bellino ha un contratto “con il direttore dell’Opera di Rimini” per una serie di puntate teatrali. Casanova, che all’epoca vestiva l’abito da abate, è bloccato a Pesaro: non ha con sé il passaporto e nell’Italia frantumata di allora gli impediscono la gita riminese. Egli tuttavia sfugge alle morse, e con l’aiuto di “un ufficiale degli ussari […] vengo scortato fino a Rimini, dove l’ufficiale di guardia mi accompagna subito dal principe”.
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Il principe Lebkowitz, tuttavia, non sottostà alle moine del seduttore, non lo mette agli arresti – in attesa di chiarificarne l’identità – ma “ordinò di accompagnarmi fuori di porta Cesena”. Casanova, in cenci, fuori dalle mura di Rimini, si traveste, “con i capelli raccolti in una berretta da notte, il cappello calato sugli occhi, il mio bel bastone nascosto”, accalappia un carro di contadini e rientra nella città malatestiana. Si precipita nell’alloggio di Bellino e fa la lieta scoperta: il castrato, in verità, è la splendida Teresa. A quel punto, l’happy end è quello che potete arguire: “malgrado la posizione pericolosa in cui mi trovavo, passai tutta la giornata con la mia amante, e mi sembrava di scoprire in lei sempre nuove doti e in me un amore sempre crescente”.
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Dopo la scorribanda sessuale, Casanova, fiero e soddisfatto, cavalca “un mulo fino a Savignano” e da lì “in vettura da posta” sale a Bologna, con l’intento di attendere la bella Teresa. Tuttavia, l’eccitazione riminese tramonta presto. Casanova smette gli abiti da abate indossando quelli militari, Teresa si sposta con la compagnia teatrale a Napoli, Casanova rientra a Venezia. Galeotto fu il castrato incastrato a Rimini. (d.b.)
*In copertina: Federico Fellini e Donald Sutherland sul set del “Casanova di Federico Fellini”, 1976