07 Ottobre 2022

Annie Ernaux? Vi siete sbagliati, il Nobel lo ha vinto Michel Houellebecq

Il primo, vero vincitore del Nobel per la letteratura 2022 è L’orma editore. Una bella notizia. Fanno libri di alta qualità, con dedizione e sapienza; insistono su autori dimenticati per strada da case editrici imponenti (due esempi: Julien Gracq e Uwe Johnson). Il caso di Annie Ernaux è paradigmatico: pubblicata qua e là da Rizzoli e da Guanda, anche con traduzioni di pregio – firmate, per dire, da Romana Petri e Idolina Landolfi – è stata acquisita da L’orma dal 2014, diventando, di fatto, la “bandiera” della casa editrice, che ha pubblicato pressoché un libro all’anno dell’autrice francese. Otto anni di lavoro. E ora, il Nobel. Bravi.

Il resto, è uno dei Nobel più attesi e ovvi di sempre. Lo sarebbe stato anche se avessero premiato Cormac McCarthy. Annie Ernaux non è Marguerite Yourcenar, è meno potente di Marguerite Duras; già che ci siamo consiglio agli editori nostrani – a L’orma, perché no – di ripigliare Il riposo del guerriero di Christiane Rochefort, stampava Longanesi. Tuttavia, è nota, corretta, di successo; l’ultimo libro – ha un talento poligrafo – è uscito da Gallimard in maggio, s’intitola Le jeune homme, questa la trama: “In poche pagine, in prima persona, Annie Ernaux racconta la relazione vissuta con un uomo di trent’anni più giovane di lei”. Nulla di nuovo sotto le gonne, sarà un bestseller. A me queste passioni calligrafiche, i paragrafi esigui, la scrittura esiziale, confessionale, con il bisturi, il dolore esposto per scopi “sociali”, il libertinaggio come opzione partitica, il corpo esposto come una tesi (e non per il gusto), lo scandalo da bidet, i romanzi non-romanzi (che ormai sono la norma del romanziere normodotato) non piacciono, ma non c’entra. Per me Annie Ernaux, lo ammetto, resta imperdonabile: esattamente dieci anni fa – il 10 settembre del 2012 – ha letteralmente (cioè: letterariamente) disintegrato la carriera di uno scrittore più talentuoso di lei, Richard Millet (leggetevi La confession négative, L’Orient désert, L’enfer du roman, stampa Gallimard). A partire da un articolo pubblicato su “Le Monde”, accusò Millet, all’epoca lettore in Gallimard, di aver scritto un “pamphlet fascista” che “disonora la letteratura”. Si riferiva a Elogio letterario di Anders Breivik (in Italia lo ha stampato, nel 2014, Liberilibri), pubblicato dalle edizioni di Pierre-Guillaume de Roux, in cui Millet, partendo dall’eccidio norvegese, ragiona sulla fine dell’Occidente, con protervia provocatoria tipica della grande letteratura francese (Jouhandeau, Montherlant, Malraux, Drieu La Rochelle…). La Ernaux scatenò le Erinni della gauche, che in coro urlarono all’untore, alla lapidazione pubblica. Da allora Millet, in patria, è una specie di paria, i suoi libri fiammate nel vuoto civico.

Resta allora la sovrumana domanda, che ci si fa ogni anno: a che pro il Nobel per la letteratura? Che senso ha? Probabilmente nessuno, finché premia autori di chiara fama, dal conclamato successo, mero chiasso nella mistica porcilaia della cultura. D’altra parte, gli ingessati svedesi non possono rischiare, quello lo fanno da sempre – e con tanti soldi – le fondazioni americane: per questo, per dire, sono nati il Bollingen o il MacArthur Fellowship (andato, per altro, a Cormac McCarthy, a Derek Walcott e a Iosif Brodskij, nel lontano 1981). Questi premi – o meglio: borse di studio – servono a mettere scrittori, che magari otterranno il Nobel molti anni dopo, nelle condizioni di fare ricerca, di continuare a scrivere come si deve. Il Nobel, invece, è un premio “alla carriera”: che se ne fanno gli artisti dei soldi vinti, si comprano una casa? aprono una fondazione umanitaria?

Il problema sta all’origine. Il signor Nobel, che faceva l’imprenditore, pensò di premiare chi “nel campo letterario, ha prodotto il lavoro più autorevole in una direzione ideale”. Che vuol dire? In letteratura, nulla. Per questo, più che la libertà di giudizio, a Stoccolma ha vinto il crisma geopolitico e un po’ di fancazzismo. Il Nobel per la letteratura esiste, infine, in sé, perché si parli di qualcosa, purché se ne litighi. Nel 1974 capitò un cataclisma perché gli svedesi avevano osato premiare due svedesi, Eyvind Johnson e Harry Martinson. Morirono, entrambi, capitolati sotto uno stuolo di polemiche, dopo pochi anni: Johnson nel ’76; Martinson nel febbraio del ’78, dopo vari ricoveri: in preda a una nevrosi lancinante, si squarciò il petto con un paio di forbici. Era un poeta di valore.

Se il Nobel è ciò che è, puro show, intrattenimento, mercato con lo smoking, gli scrittori fanno bene a guardarlo con sospetto: dal giorno dopo, diventano autori da salotto, da conferenza, da abito di gala. Il sogno di uno scrittore, invece, è avere un successo di pubblico tale da sputare in faccia a tutti, fottendosene di tutto, augurandosi l’aura di un certo, pur viziato, maledettismo. O monaco o bastardo, o santo o puttaniere, lo scrittore. Michel Houellebecq si sfogherà in ghigni. Il Nobel, in fondo, lo ha vinto lui.

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Era già tutto previsto. Almeno dal Leone d’oro di Venezia, andato, lo scorso anno, a “L’Événement”, il film francese di Audrey Diwan tratto dal romanzo di Annie Ernaux, “L’evento”. Di quell’evento – con perspicacia “politica” – aveva scritto Fabrizio Sabbatini su “L’Intellettuale Dissidente”: era il 4 novembre 2021. Ripubblichiamo l’articolo di allora per percepire il paté ideologico che alligna dietro una scelta estetica. L’“ideale” professato da Nobel trova nella Ernaux una degna rappresentanza: la scrittrice francese incarna, in effetti, una specifica idea di mondo.

Il Ddl Zan è morto, il Ddl Eutanasia è in fin di vita e anche il patriziato liberal locale non si sente molto bene.

I progressisti di casa nostra, infatti – che non ne azzeccano una forse dai tempi delle unioni civili, contentino di civilizzazione in salsa italiana – vivono un momento cupo, di depressione, dato dal ritorno delle battaglie ideologiche, intra ed extramoenia parlamentari. Ma anche oltre i confini dello Stivale la situazione non è messa meglio, la culture war è in atto ovunque, arriva fino a latitudini oltreoceaniche.

Non resta quindi che rivangare nel passato, scavare nella fossa, riesumare vecchi bottini di guerra, spolverarli, lucidarli, tirarli a nuovo e propinarli al proprio boario uditorio, rivendendoli come attuali.

Teatrino di questa pantomima, il Festival del Cinema di Venezia – divenuto ormai il Sanremo della settima arte – che ha visto il trionfo, nel 2021, e la relativa assegnazione del famigerato leone aureo al film L’événement, ovvero la pellicola pro-aborto in concorso.

Il film, in Italia, si chiama La scelta di Anne, in ossequio alla tradizione in cui gli italiani sono – e si confermano – veri maestri, ossia quella di generare titoli tristi e banali per soppiantare quelli originali, mentre le tribune giacobine della critica – prive d’ogni senso della realtà – accolgono con plausi e boati l’uscita e la premiazione della pellicola di Audrey Diwan, trasmettendo una sorta di grottesca tenerezza.

Sono trascorsi infatti più di quarant’anni dall’entrata in vigore della Loi Veil in Francia e dalla Legge 194 in Italia – che hanno depenalizzato e disciplinato l’interruzione volontaria di gravidanza – e, con ogni probabilità, non esiste un tema su cui il pensiero attuale sia più appiattito ed uniforme. Presentare un film sull’aborto, oggi, non è certo un’ardimentosa impresa, un’iniziativa eroica, spericolata, si tratta banalmente di un film come un altro – bello o brutto che sia – ma non per questo meritevole di “giusta” premiazione, come sostenuto da alcuni. In tal caso, vi è solo il trionfo della prevedibilità.

Il canone, infatti, è sempre il medesimo – cinema, letteratura, teatro – se l’opera è engagé e politicamente corretta scatta la pubblica lode, se non lo è, che vada pure a farsi benedire.

Ma il progressista medio vive coi paraocchi, senza rendersi conto di una realtà che evolve, muta, si trasforma. Se nei primi anni Sessanta i più giovani vivevano immersi in una dilagante ignoranza – o strafottenza – sessuale e la contraccezione era illegale, l’aborto – comunque la si pensi al riguardo – era certamente un tema da débat public, ma nella postmodernità, in cui tutto è sdoganato – dal sesso virtuale alla cosiddetta pillola dei cinque giorni dopo – davvero si osa ancora ipocritamente definire “coraggioso” un film che tratta una tematica da decenni non più tabù per nessuno?

Ultimamente poi, il bersaglio prediletto dei feticisti del progresso è divenuto il Texas, con il suo recente abortion ban – l’interruzione di gravidanza ritenuta illegale dopo la sesta settimana (la legge è attualmente al vaglio della Corte Suprema) – contro il quale vengono scagliati dardi infuocati, perché la democrazia liberal funziona così, quando manca la maggioranza si urla automaticamente alla dittatura e il potere del popolo non è più degno di garanzie.

Ma rimembrare le antiche battaglie si tramuta solo in un esercizio di memoria, di celeste nostalgia, si finisce per parodiare sé stessi, con quella brama di rivoluzione permanente, divenuta ormai solo pane per denti esaltati, da parte di una schiera di individui che imposta tutto con la ragione per imporre i propri imperativi morali e poi vendersi a una politica fatta di emozioni, di sentimentalismo, alla perenne ricerca di un nemico da osteggiare, di una battaglia da combattere. È la patologia del sessantotto infinito. I progressisti di oggi si rivelano infatti, ancora una volta, i veri conservatori, con la loro smania di congelare gli status quo ante, senza guardare avanti. La nave imbarca acqua, rode lo scafo, ma loro continuano a suonare, in abito da sera, come l’orchestrina del Titanic sul ponte principale, mentre tutto intorno affonda.

Che poi, libertà, coraggio, diritti a profusione, premi e tabù e nemmeno l’onestà intellettuale di chiamare le cose con il proprio nome, conferendogli almeno la dignità del linguaggio. 

Annie Ernaux, con il suo tipico tono pedante, nel libro – ambientato nel 1963, epoca in cui era una giovane ragazza – utilizza espressioni quali “questa realtà dentro la pancia”, “questa cosa qui”, mentre sceglie dolorosamente di farsi strappare clandestinamente il suo bambino dal grembo, di abortire il proprio figlio, rischiando la vita, per sottrarsi a un destino proletario, per proseguire gli studi, perpetuare la propria esistenza da intellettuale. E proprio in quanto trattasi di una scelta sofferta, struggente, l’idea di sventolare il dolore, l’orrore, come una conquista sociale, strumentalizzarlo su un tappeto rosso, festeggiarlo a lustrini e champagne, per godere del marcescente strascico di vecchi fasti progressisti, è qualcosa di aberrante, disgustoso. Non ha certamente nulla in comune con quella “civilizzazione” tanto professata dai sostenitori della causa ma è forse più vicina ad un futuro prossimo governato da quelle possibilità che l’ingegneria sociale potrà concedere all’individuo – uomo o donna che sia – insieme alle peggiori nefandezze. Da quando il nichilismo è divenuto infatti emblema di civiltà?

“Nell’amore e nel piacere non mi sentivo un corpo intrinsecamente diverso da quello degli uomini” scrive l’autrice, ed eccolo lì, il grande errore del femminismo, quello dell’affermazione del proprio successo nel mondo delle donne attraverso l’erosione della sua caratteristica, naturale differenza rispetto a quello maschile – la maternità – tramite il diritto all’aborto.

In maniera molto più brutale ma molto più realista, Carmelo Bene – che soleva autodefinirsi un aborto vivente – diceva:

“Ha ragione Schopenhauer: il sospiro degli innamorati è in realtà la specie che vagisce. Non esiste la copula, è la specie che bussa”.  

Lo scorso settembre, invece, ben poche sale cinematografiche hanno aderito alla programmazione di Unplanned. La storia vera di Abby Johnson, film anch’esso di matrice autobiografica (il libro da cui è tratto – Scartati-La mia vita con l’aborto – in Italia è stato pubblicato da Rubbettino), in cui la direttrice di una clinica abortiva si ritrova per un caso fortuito ad assistere dal monitor ad un’interruzione di gravidanza – con il profilo del bambino che scalcia, cercando di respingere la cannula che lo risucchia – cambiando così per sempre la sua visione dei fatti e diventando un’attivista pro-life. Ovviamente, a parte qualche giornale di ispirazione cattolica, nessuno, nei media conformisti, ne ha fatto menzione.

Ma è qui che il presunto conservatore si mostra più progressista del suo detrattore. Rompere un tabù, non è forse, oggi, mostrare cosa accade a un cuore che smette di battere? 

Fabrizia Sabbatini

Gruppo MAGOG