15 Settembre 2022

“Fecero scempio di cose vere”: le poesie di Egle Marini

Mancavano la strada, una salita, in realtà mancava lo schermo. Lei lo aggiunse non improvvisando ma sedendosi su una delle sedie padronali, assistendo, sorella del tiranno, con l’inquietudine e la mestizia di un precipitoso regno, scavando la fossa più profonda e austera, che serve ad un tiranno. Essere al fianco, essere secondi, i commensali, volenterosi secondi, secondogeniti, o i doppi, come quegli esseri intimi, più svegli del padrone, più lucidi, che ad esser ricondotti non pensano un secondo; si pensa ad essere gemelli, servitori più in alto, senza normalizzarsi, scalando e discendendo per ritrovare il viso, il visame del gemello. Questa pratica è degna di un’aristocrazia labirintica e ristretta, privata, ai confini del familiare, del famelico; un controllo ed una distesa dove nascere e morire all’unisono è un disorientamento lieve della scelta, una congiunzione. Non si pensi però ad una rivincita, non si cerchi il premiato o il perdente tra i due, andando a caccia dell’Abele buono, del Caino buonissimo. Egle la gemella impicciona, Marino il geniale fratello che le lascia guardare la tela. Egle e Marino sono i due frutti e l’albero è giusto, agli altari spettano spolverature d’oro. 

Alla domanda sul perché di questo emblema ossessivo, cavallo e cavaliere, Marino Marini risponde sbuffando: Oh, un vecchio problema! Una cosa di famiglia insomma, siamo cavernicoli noi Marini, passanti medievali, amorfi e cavallereschi nell’armonia di un araldo, ritratti tutti quanti in questo e affondati, se mai affondati, nello stesso.

Vuoi tu prendere questo cavallo e rovinarlo? Vuoi tu prendere questo cavaliere e destreggiarlo? Non sono più manipolabili, non più rintracciati ed Egle sembra esserne felice, sembra averne visioni più celate dei due in viaggio, più in pellegrinaggio lei anziché in viaggio, a spedire altrove i rottami e le derisioni che ricevono, a pronosticare una radice informe, una ghiaia fangosa. Al rintocco non fa seguire lo squillo («ad un chiuso pulsare è il rintocco di uno squallore») ché lo squallore viene prima dello squillo in una fanfara. Delicatissima pare aver perso un mucchio di tempo dietro alle razze pesanti, alla strage dei due, frenati in ginocchio, allungati, a metà delle fatiche. Entrambi assorti, a piedi o con i piedi sollevati; uno tasta la durezza, l’altro la mollezza, entrambi digiunano; e le sole orecchie son rimaste alla vittoria, ha la vittoria bocche di sconfinamento. Anche l’aulico richiamo, l’udito, ora è audio, uno stoico strumento; echi attorno ed una prostrazione illecita tra le file, un disarcionare le discipline, i compiti che modellavano. 

Il cavaliere si esercita, non promette nulla all’addio, neppure alla strada pensosa del ritorno, perché è dell’esercizio lasciar soli i migliori, i precoci, sui gradini o sulle fosse dei risorti. Il cavallo impenna senza fruste, il contorsionismo terribile viene da una mutata uniforme, il corpo ritto e nudo del padrone: materie organiche e scarti lo compongono, è stato strattonato come una statuetta. Il disincanto del fantoccio, la retorica del suo cavallo, la «disperata fierezza». 

Lo spettro della cavalcata diventa rotazione nelle mani, tra le cinghie; il rispetto è ora un’aggraziata tortura ma per nessuno dei due c’è vita, nel fuori campo di un destino tragicomico, ma sopravvivenza. L’istinto di sopravvivenza è più forte perché è oltre la vita, è oltranza; l’istinto di sopravvivenza è più forte e come ogni cosa più temeraria di quelle della terra, non è divino; è roccia, plasticità, è nell’arma e fuori dell’arma, può usare quest’arma e farsi forte scartandola, uccidere e ferire possono compromettervisi anche guarendo, offrendo una cura. Perché sopravvivere a volte è sovrastimare, come oggetto del coraggio; fraintendere ferocemente l’abuso di amore, le circostanze ossequiose della paura.  

L’umiliazione, i soprusi, le vendette di un’intera civiltà nel merito dei due, il loro imbarazzo e convincimento. Si profana così la vita, si alimenta e non è mai mediata, non è questa voce che media, non è commento, suggestione poetica, è la voce che serviva, che accompagnava da molto i ribelli e le armi, una voce di esortazioni, di dubbi, voce anche deludente, fratricida. Non si sa dove andranno i due a deturparsi ma questa voce resta, restano i margini per galoppare e non scegliere mai il piedistallo, la tragedia che tutti sperano di applaudire alla fine dei giochi, delle contese.

Non può terminare così la vita di Egle, non si interrompe con questi due complici, si sistema, con la sua personale premura, torna ai suoi esordi. La vita provinciale, la vita, la sua Pistoia, il fratello-gemello e il gioco sempre domenicale di accompagnarsi a lui quasi fingendo una parentela autodidatta, poi appagandosi enormemente scoprendo, finito lo starnutire e il colorare sui grembiuli, d’averla innata, d’averlo, e tutta questa particolare fusione, e lo sfondo bianco e le tele. La rincorsa lenta e prevedibile verso Firenze, sempre col gemello, nel 1917, per studiare assieme al Regio istituto di Belle Arti; la conoscenza e poi lo sposalizio con Alberto Giuntoli; l’allestimento di uno studio assieme ai due, liberazione e distinzione, in Via degli Artisti; la nascita, in età avanzata, della figlia Donatella, anch’essa artista, ultima a portare la nomea, il portamento dei Marini.

Il tutto vissuto negli agi, nelle fuorvianti cure di certe famiglie borghesi, consapevoli di un umore formale che brilla, che prefigurano sempre il loro carattere collaterale e in questa suggestione si riscaldano, nel marchio o tipo che poi diseredano con tenacia, nel sacrificio dell’estinzione. Restano opere, ritratti, fotografie di uomini e donne negli studi, nel salone, presso un irreale globo balneare dove si mirano bianchi cappelli, veli, e un certo scadere delle ore, certa modernità solo in quei pantaloni, assai alla moda, che si allungano e si accorciano sui ginocchi; o quelle gonne limpide, mai snervanti, gli scialli modesti su una modestia già pressata, le spalle serrate e i gomiti scesi. 

Poi sembra che Egle si sia ritratta in quella sua affabilità con lo strascico, ritirata nell’ombra, senza menzogne; trionfatrice di un’arte sull’altra (difatti fu pittrice prima che poeta), con un’evasione morale che non poteva uscire legittima dal coro, doveva arrovellarsi. C’è un dilettantismo, un nascere inascoltati che sgomina, che sceglie da sé le provvigioni e si regola con giocosità e sdegno, che sostantivizza, disincanta, poi di nuovo teme, si abbaglia; ed un azzardo abitudinario, una smorfia di liberissimo uso sull’abuso, con una fantasia dura a scollarsi dalle grandi imprese linguistiche, anzi diseducativa (avvalendosi di un senso come di esonero, di diversa corrente impraticabile per altri e sconsigliata, scelta quasi assolutamente per fastidio, per intolleranza verso suoni e immagini allettanti, per qualunque duetto) nell’imporre un trattato di parole alle parole. 

Le sue scritture, le prose, l’intero corpo poetico, tra il consunto e il furtivo: la vecchiaia, la fanciullezza che folleggia, le cronache di un giardino e vaste rovine in attesa di uno smantellamento. Nessuno accorre e le cose susseguono a capitolare, a durare nel disprezzo, satiricamente. Questo l’unico cammino ovvio tra il ricordare e il sopportare. In mezzo ci stanno il pomeriggio, il mattino ed una sempre sleale sera, un focolaio, il telaio ardente; queste magioni condivise nell’infanzia e nell’anti-mondo, questa veglia che è solo un particolare-mondo del risveglio.

L’opera è compiuta ma non diventerà un’opera d’arte, se si intendono i lettori, i critici. Rimarrà non letta, non riletta, rimarrà e neppure sapremo, con sgomento, perché fin qui si è parlato di una sconosciuta, di un’ennesima da “ riscoprire ” col cucchiaino, centellinando grazia e bellezza.

Blu Temperini

*

Le poesie qui pubblicate sono tratte dal volume La parola scolpita, Artout Pistoia, 2001, a cura di Maura del Serra.

Miracolo

Era stato un lungo andare ritmando
l’uno l’altro assieme, il passo,
con l’ansima e il silenzio.
L’orrido intorno, sconfinata pista
e il vuoto, e l’epilogo.
Si vide l’animale come un’antenna
in cielo Angelo teso tremare
lungo lo scheletro, scivolarvi l’altro
… e deporsi.
L’urlo della gran bestia, sola,
trascinò il collo ancora,
verso un indizio, ansioso d’altro…
Il sole bruciò la pupilla che lo fissava.

1956

*

Marcia di cavaliere

Il rintocco del passo martella il tempo e il male
calato nei pugni, il crollo e il peso in groppa all’animale:
soccombono assieme.
Giostra e tragedia – l’una intesa per l’altra –
fecero scempio di cose vere senza distruggerne il seme:
rigerminazioni grame adornano la marcia del Cavaliere,
cullano l’inganno in cui non sa se sogna
quando sogna.

1962

*

Forse ricostruzione

Una folgore morse la terra e impallidì sulla strage
nell’attimo in cui le ossa si composero a sarcofago di se stesse
e il deserto si allargò al di là del labbro dei mari,
e gorgogliò l’ultimo sorso in gola ai baratri.
…Ma non è cascato il sole sopra al silenzio
e all’inerzia impegolata nei fanghi,
sulle notti appiattite dalle aurore senza risveglio,
sul bagliore seppellito,
sulla larva risparmiata,
sul seme che mugola dentro al pertugio
l’ultima protesta, o un Annuncio.

1962

*

La Canonica 

Cipressi in processione salmodiano quieti,
incupiscono densi contro la facciata chiara spenta
della casa antica e il suo silenzio.

Ombra e profumi baciano la soglia col sospiro di un tempo,
ma dentro, fra l’età dei muri, stagna il ricordo;
il mazzo di rose vere sembra un prodigio finto
ed inchina il candore al candore stanco delle cose andate:
non cose ormai, ma senso ostinato di cose.

Forse una dama di altro tempo
ogni notte ricompone un colloquio
e spande odore di pagine chiuse.
I cani latrano, guardiani del tempo avvogliati di cose vive

depressi dall’eco di se stessi.
L’aria ha sapore arsiccio.

Egle Marini

Gruppo MAGOG