“Leggere bene, cioè leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro…” Tutti quelli che finiscono in manicomio vanno presi molto sul serio perché, anche nella peggiore delle ipotesi, hanno capito molte più cose di noi cosiddetti normali, ragion per cui ho sempre pensato che queste parole di Nietzsche fossero un ottimo consiglio. Quando però ho avuto tra le mani i libri dello scrittore inglese Edward Morgan Forster (1879-1970) mi sono reso conto che erano molto più di un buon suggerimento. Erano un dogma. Sì, perché romanzi come Camera con vista, Casa Howard, Passaggio in India, Maurice vanno centellinati pagina per pagina, riga per riga, parola per parola, fermandosi ogni tanto a riflettere per qualche istante e magari tornando indietro a rileggere un periodo. Solo in questo modo sarà possibile prima di tutto godere a pieno della qualità sopraffina della scrittura e poi non lasciarsi sfuggire il senso profondo di quanto stiamo leggendo.
Diciamolo subito forte e chiaro. Il fascino di Forster sta tutto nel suo mistero. Più che dire allude tra le righe, più che affermare lascia intuire dietro un aggettivo, più che dimostrare adombra con una interruzione di frase. Il fatto è che siamo di fronte a uno scrittore parente stretto di Henry James e di Virginia Woolf. Quello che li accomuna non è lo stile quanto l’argomento che trattano. Al centro dei loro romanzi non c’è una storia, ma la trama dei pensieri e l’esperienza interiore dei vari personaggi.
A un primo sguardo Forster è la quintessenza del gentleman inglese: buone scuole, buone letture, buone frequentazioni, buoni viaggi e buone maniere. Ma leggendolo si scoprono nuvole inaspettate e squarci di luce improvvisi capaci di mandare in mille pezzi la sua adesione formale alla società e ai valori del suo tempo. Lui che per tutta la vita non ha mosso un dito contro le convenzioni, in realtà detestava le regole che nell’Inghilterra post-vittoriana ostacolavano rapporti autentici tra le persone imponendo agli individui ruoli prefissati, mal sopportava tutto quel mondo fatto di solide carriere nella City, di buoni matrimoni, di falso perbenismo, di rigida divisione tra le classi sociali.
Dentro di sé Forster era un ribelle che metteva in discussione tutta la civiltà in cui è cresciuto e vissuto, ma nei suoi libri non lo dice mai apertamente. Preferisce esprimerlo in cifra, magari camuffato dietro l’inquietudine di un personaggio. Nei suoi romanzi la tragedia è sempre dietro l’angolo, ma non esplode mai. Era uno scrittore che lavorava di fioretto. La sciabola non era fatta per lui.
Chi lo ha conosciuto lo ha descritto come un uomo timido, impacciato, quasi sempre con lo sguardo abbassato. Non è un caso se nel fin troppo noto circolo di Bloomsbury, che Forster ha frequentato, veniva chiamato “la talpa”. Dietro la sua apparente insignificanza c’era un uomo che scavava una vita segreta e sotterranea. Il DNA del suo genio creativo va ricercato in quel misto di ritrosia, reticenza e titubanza.
Al fondo dei libri di Forster non c’è solo la volontà di rappresentare la vita ma anche, e soprattutto, di trovarne il significato. Dietro a quel profondo desiderio di “connessione”, termine forsteriano per eccellenza, tra diverse classi sociali o tra diversi Paesi che troviamo al centro di Casa Howard o di Passaggio in India oltre alla volontà di capire e amare chi è diverso da noi, non è difficile intravedere lo sforzo personale dell’autore di penetrare nel mistero dell’esistenza.
In questo senso credo vada interpretato anche il lunghissimo silenzio di Forster, un tema intorno al quale si continua a dibattere. Forster pubblica il suo ultimo romanzo nel 1924, dopo di che, pur vivendo fino al 1970, si occuperà solo di saggistica letteraria abbandonando la narrativa. Se posso dire la mia, penso fosse convinto che la ricerca esistenziale alla base della sua narrativa fosse destinata a rimanere senza sbocco e dunque non aveva senso ripetersi.
Come ho detto, la chiave di lettura dell’opera di Forster è quella della circospezione, della prudenza, del non detto. Con un’eccezione però: Maurice, il romanzo nel quale di fatto esplicita la sua omosessualità. Ne scrisse una prima versione nel 1914, lo rimaneggiò prima nel 1932 e infine nel 1959. Un libro modernissimo che vede nell’amore l’unica via di redenzione dell’uomo e a dir poco rivoluzionario. Una sfida aperta all’ordine costituito della Gran Bretagna, un Paese nel quale l’omosessualità era ancora un reato penale. Può essere considerato a tutti gli effetti il libro della vita di Forster, che però non volle mai pubblicarlo. Alla sua morte lasciò il manoscritto tra le carte con un appunto che diceva: «Pubblicabile, ma ne vale la pena?» e il romanzo uscì solo nel 1971, un anno dopo la sua scomparsa. Molti lo hanno criticato per questa sua ennesima scelta di prudenza, ma a mio avviso si sbagliano. La pubblicazione postuma oltre a evitargli censure e guai giudiziari ha sottratto Maurice al rischio di essere trasformato in uno scandalo, in una battaglia ideologica, in un manifesto politico, finendo così per mettere in ombra la sua principale qualità, quella di essere un romanzo magnifico.
Di gente che urla, protesta e fa proclami ne abbiamo fin sopra i capelli. Forster non era portato ai gesti eclatanti e coraggiosi, ma aveva il fascino ineguagliabile dell’introverso. Le tante insicurezze e timidezze che maceravano il suo animo hanno finito per affinarne la sensibilità, l’immaginazione, l’ironia e hanno permesso ai suoi occhi di conservare per tutta la vita uno sguardo da bambino. Teniamocelo stretto uno scrittore del genere!