Non credo ai finali alla Casablanca. No, io non credo nelle belle amicizie e non avrei lasciato volare via Ingrid Bergman per una vita passata tra bar e cabaret con Claude Rains, idiota di un Bogart. Per questo, questa intervista non sancisce una bella amicizia, e neanche una tregua. Definisce, però, forse, qualcosa di più, di più profondo. I fatti sono questi. Lo scorso gennaio stronco per Linkiesta un libro di Paolo Di Paolo. Paolo Di Paolo è tra i più riconosciuti romanzieri di oggi: dei suoi libri di maggior successo ricordo Dove eravate tutti, Mandami tanta vita, Raccontami la notte in cui sono nato (in catalogo Feltrinelli). Paolo Di Paolo scrive su la Repubblica, ha elaborato libri-intervista con Dacia Maraini e Raffaele La Capria, ha curato una antologia di scritti di Indro Montanelli e una antologia di racconti di Antonio Debenedetti e di Antonio Tabucchi, di solito, nelle fotografie, sorride. Il cursus honorum è perfetto, infallibile, ma a me quel libro, Vite che sono la tua (Laterza, 2017), che è un libro sui libri che piacciono a Di Paolo, non piace affatto, ammicca, per come lo leggo io, verso una idea consolatoria e didascalica della letteratura, da educande. A differenza di altri autori, che se li stronchi s’insuperbiscono e ricambiano con l’indifferenza, Di Paolo non si smarca dal confronto (per altro, non richiesto). Ci scambiamo qualche mail per provare l’elasticità del fioretto (“non è una strada produttiva”, “hai un tono insopportabile”, “se invece dici che scrivo romanzi di polistirolo senza appunto averlo letto…”). Allora, poiché penso, a prescindere, che gli altri siano più intelligenti di me, ripiglio i romanzi di Di Paolo. Mi fermo a Mandami tanta vita. Continua a non convincermi, ci sono frasi che proprio non mi piacciono (una a caso: “Kant e Hegel tossiscono alle sue spalle come vecchi zii burberi”), indice di un’indole poco concentrata sulla forma narrativa, sulla rotonda asperità della frase. Eppure, capisco una cosa, rileggendo quel libro. Che Di Paolo è uno ostinato, uno che non difende a priori il proprio lavoro ma il suo amore per la letteratura. E questo mi pare buono. E visto che, giornalisticamente preferisco intervistare chi è diverso da me per avere qualcosa da imparare, e visto che odio le moine – cioè: le interviste telecomandate per farsi ricambiare dei favori – propongo a Di Paolo “una lunga, cruenta intervista”. Mi piace l’idea di dialogare da trincee opposte sullo stesso campo di battaglia; mi piace l’idea che si possa dialogare su cose che trascendono le rispettive convinzioni – o contraddizioni – estetiche. Di Paolo non si nasconde, ci sta. Ma non si fida, forse. Quando mi dice, “nel cappello non massacrarmi”, gli dico che non sparo alle spalle – né alle palle – con vigliaccheria, che la generosità è un valore e che la cavalleria è tutto. (d.b.)
Perché scrivi, da dove nasce la scrittura, perché si scrive?
La domanda è eterna e ineludibile. Formulare una risposta risulta spesso goffo e approssimativo. O peggio, retorico. D’istinto direi che scrivo perché è una delle poche cose che mi sembra di saper fare. Ma naturalmente è insufficiente. Ho iniziato a scrivere per capire come funzionava la scrittura altrui: tentavo, imitando ciò che mi aveva entusiasmato, di riprodurre sulla pagina quella trasfusione di vita in una sequenza lessicale, sintattica. Una studentessa mi pare cinese, una volta, domandò a Claudio Magris che cosa si perda scrivendo. Io non lo so, ma so che essenzialmente scrivo per evitare di perdere tutto.
Che rapporto hai con la letteratura? Di devozione, di dedizione, di ribellione? Voglio dire, hai una idea didattica della letteratura, pensi che sia fonte di buon intrattenimento, oppure la letteratura è quella cosa che ti buca gli occhi, che ti costringe a nuove sguardi?
Anche qui, le risposte o definizioni univoche rischiano di risultare stucchevoli. Mi verrebbe da dire, parafrasando una formulazione di Giovanni Raboni, che non credo nella Poesia, ma nelle poesie che mi fanno credere in loro. Dunque, non credo nella letteratura ma nei libri, nelle pagine, che mi fanno credere in loro. Se partissi da una definizione, sarebbe o troppo “a priori” o troppo “a posteriori”, perciò troppo restrittiva o troppo vaga. I libri che mi hanno fatto credere in loro dovrei elencarli uno a uno, più che enunciarne una costante che non c’è. Talvolta anche solo un paio di righe, un’immagine. Di solito hanno agito come rivelazione tutt’altro che rassicurante. In questo senso non mi interessa molto essere intrattenuto (né voglio giudicare chi lo trova invece interessante). Mi interessa essere provocato, spiazzato, avvolto, spesso immalinconito. In assoluto, schiacciato da domande.
Non pensi che lo scrittore, nel tempo omologato, debba compiere scelte di radicale diversità? Non pensi che ci sia una sintonia tra etica ed estetica?
Sì, credo che ci sia. Questo non c’entra con vincoli di natura moralistica. Ma uno scrittore che non abbia, diciamo così, un sentimento etico dello stare al mondo, dell’umano, mi interessa poco. Dico meglio: uno scrittore che non abbia interrogativi etici, non mi interessa, non mi appassiona. Quanto alla radicalità la vedo intanto come difesa della propria voce, e dunque unicità di autore – non nel senso pubblicitario e editoriale che si potrebbe intendere. Faccio un caso italiano: Aldo Busi. Conosciutissimo per via di partecipazioni e provocazioni televisive, resta come scrittore uno dei più isolati e non accetta compromessi. Il suo lavoro è valutato – e compreso – molto meno di quanto merita. Ma la sua provocazione più forte non è il “personaggio”, sono i suoi libri, o meglio ancora: il suo stile.
Letteratura e politica: t’interessa il tema, sei ‘impegnato’, t’importa la lotta di un Saviano contro la ‘barbarie’ di Salvini? Stai da qualche parte, prendi posizione o stai per i fatti tuoi?
Altra questione eternamente dibattuta. La rovescio, o ci provo. Posso trovare poco interessante questo o quell’autore “impegnato”, ma non tollero un autore che si presenti programmaticamente disimpegnato. Forse perché mi pare che da esseri umani, da cittadini, non si possa/non si debba essere programmaticamente disimpegnati. Una frase che mi disturba è “Non mi occupo di politica”. Molto frequente, la si sorprende sulle bocche più diverse. Ma di cos’altro vuoi occuparti, stando al mondo? Il che naturalmente non può esaurirsi con l’eventuale, legittimo e spesso anche opportuno, benché non obbligatorio, intervento sull’attualità. Mi amareggia sempre ogni alzata di spalle, il cosiddetto “impegno” di cittadini e cittadini intellettuali può suonare retorico e peloso, ma farà sempre meno orrore del cinismo o dell’e che sarà mai. Può essere un errore, diceva Camus, lasciarsi affascinare dalla Gorgone politica, ma altro è ignorare i problemi sociali del secolo. “E, del resto, questa fuga sarebbe perfettamente vana: voltate le spalle alla Gorgone, e lei si mette in cammino…”.
Il tuo libro più importante, per te, qual è, perché?
Non lo so. Quello decisivo per me è addirittura un libro per bambini, La mucca volante. Perché è stato il primo che ho immaginato, desiderato scrivere. La prima storia che mi girava in testa da bambino. L’ho scritta a trent’anni e mi è sembrato di aver raggiunto, forse per la prima volta, qualcosa.
Il libro più importante di sempre, per te, perché?
Non so nemmeno questo. Sono troppi i libri “importanti” – su un piano personale e su un piano di storia della letteratura. Posso dire che Flaubert, Proust, Woolf sono stati decisivi per me, per imparare a “sentire” meglio ciò che mi sembrava già di sentire da sempre – un certo modo di percepire la vita, il tempo che ho ritrovato nell’io narrante di Novembre o in Frederic dell’Educazione sentimentale, nel Narratore della Recherche e nelle voci che risuonano nella testa di Mrs Dalloway o della signora Ramsay.
Hai dei maestri o li hai uccisi tutti?
Li ho cercati. È la prima cosa che ho fatto. Andare a parlare con gente che stimavo, che aveva più anni e più porte superate. Ne sono usciti a volte dialoghi scritti, a volte anche autentici legami. Non c’è bisogno di ucciderli: a un certo punto vanno comunque via. E con quella solitudine devi comunque sbrigartela. Vale anche per i padri, no?
A tuo avviso in che stato è il romanzo italiano, oggi? Ci sono grandi autori, quali? Di pessimi, mi pare ce ne siano molti.
Ogni epoca ha la sua valanga di dimenticati. Quando stiamo per farci prendere dal panico, di fronte a ciò che ci disturba, ci irrita, non ci piace, basta pensare al tempo che passa. Alla fine saremo dimenticati tutti. Ma per un po’ qualcuno è trattenuto, e di solito è chi non viene facilmente sostituito. L’autore del momento è appunto spesso l’autore di un momento. Poi viene il prossimo, e così via. Flaubert mica lo sostituisci. Sta lì. Venendo alla narrativa italiana: ne leggo molta, e posso dire che ne leggo molta più di quanta ne leggano in media i miei colleghi. È una delle poche cose che posso dire di me: che leggo gli altri. Li leggo tutti, senza pregiudizi, senza distinzioni. Per curiosità, per capire. Mentre il 90% dei miei colleghi legge pochissimo in lingua italiana (leggono in “traduttese”), per snobismo e per provincialismo anche – due facce della stessa medaglia. E si leggono fra amici: per poi postare su Facebook un fintissimo entusiasmo aspettando di essere ricambiati al loro turno.
Eppure, c’è un problema originario. Pare che in Italia non ci siano scrittori del tipo di un Carrère (che a me non piace), di un Foster Wallace, di un Martin Amis. La causa sta nei lettori (pochi, che leggono pochezze), nella lingua (parlata sotto i campanili da quattro gatti), nell’editoria (ridotta a un supermarket di ovvietà), negli scrittori (incapaci), nella critica letteraria (non pervenuta)? Oppure viviamo nel migliore dei mondi letterari possibili?
Non credo che sia il migliore dei mondi letterari possibili, ma nemmeno il peggiore. I francesi possono vantare bei nomi, ma le classifiche sono fatte come da noi. E va bene così, per il discorso fatto prima. Se trovo un difetto, lo trovo soprattutto nella generazione di mezzo: cinquanta-sessantenni che, partiti bene negli anni ottanta novanta, hanno, come si dice, sbracato, inserito il pilota automatico, fanno i furbi, i simpatici, abbassando l’asticella per loro l’abbassano per tutti. Detta brutalmente: non gliene frega più un cazzo se non di loro stessi, del posizionamento. Ecco, tutto accetto fuorché i padri che “fanno i simpatici”. Ne siamo circondati. Le librerie ne sono piene. Quanto alla critica letteraria, sì, quella è lettera moribonda: o è accademicissima, quindi inerte, o schematica in modi che mi danno crisi di claustrofobia. Priva di curiosità autentica, nella sostanza.
Ma che t’interessa di Montaneli, ma che t’importa di Gobetti? Spiegami.
Mi interessano le vite delle persone, i tormenti che non si vedono. La solitudine. Il misterioso legame tra storia pubblica e storia privata. Quelle esistenze mi hanno affascinato, potevano essere altre, mi sono imbattuto in quelle e ho provato a raccontarle. Gobetti è uno sconosciuto. Montanelli un quasi dimenticato, ridotto spesso a caricatura da chi non sa niente e dice la sua (tipica dinamica del nostro presente, questa sì). Ma il punto non è che “mi piaccia” Montanelli, come pure si suppone; il punto è la vasta stratificata contorta contraddittoria materia di vissuto a cui si può attingere entrando in quella sua storia. Una specie di concentrato del Novecento dentro una singola lunghissima esistenza.
Chi è lo scrittore che fra dieci anni farà il mazzo a tutti? Tu tra dieci anni scriverai ancora? E ora, cosa stai scrivendo?
Non so nemmeno questo, magari ha appena diciott’anni e capirà come si può fare la letteratura nel ventunesimo secolo in un modo a cui non avevamo ancora pensato. Scriverò ancora tra dieci anni? Probabilmente sì, se sarò vivo, anche perché sarà tardi per inventarsi altro. O forse no, forse saremo costretti a inventarci altro. Per ora lavoro a un romanzo per capire una cosa che, a trentacinque anni, non ho ancora capito.