Ho iniziato una corrispondenza email con Julian Zhara nel 2012, pare unʼepoca fa perché i social non avevano ancora invaso militarmente le nostre vite e vi era ancora spazio per non conoscersi e scriversi delle lettere. Il suo era il nome sconosciuto di un ragazzo di ventʼanni nato a Durazzo, in Albania, ma residente in Veneto dalla prima adolescenza, prima a Padova e poi a Venezia, dove lavorava come barista e scriveva le sue prime poesie, in italiano.
Le lessi, in un file word, e le trovai potenti. Commoventi, senza mezzi termini. Talvolta esaltanti. Linfa vitale, materia grezza, nuda realtà da attraversamento ripresa in soggettiva con una videocamera amatoriale in mano, senza fronzoli né pose. Parole tangibili. Utensili, lame. Non volevano insegnare niente, finalmente. Non volevano essere belle né esibire una raffinatissima sensibilità né servire qualche stupida teoria letteraria. Finalmente una scrittura vivente, pensai, in un paesaggio desolato di imitatori di Milo De Angelis e candidati manciuriani dellʼanticanone programmatico.
Eccone una, ad esempio, intitolata A mio padre: “39 anni, abbandoni la città / dove il sole dorme immerso / nelle carezze famigliari e parti / così fiero, alto-borghese, / là si chinano con rispetto antico, / tra bestie nel sud, sei solo l’albanese. / E da uomo diventi braccia, / coltivi speranze a usura, / paghi l’identità rinnovata / con la faccia dimessa, / in attesa / di una riscossa futura”.
Oppure Lʼonto (vale a dire “lʼunto”, in veneto, “lo sporco”): “Al bar, / dove le controfigure fanno di me / una meccanica estensione del capitale, / vedo un giorno un uomo, un altro / espediente di carne per il compimento / di non so quale destino. / Noi schifati nel vederlo, con la paura / che si sarebbe presentato anche l’indomani. / […] / Ma ogni tanto, guardando il mare, / lo penso vicino a sua moglie, / finalmente redento / dal dolore dell’assenza, / almeno tra i morti, / normale.”.
Julian Zhara non ha mai pubblicato questi versi giovanili. Nel frattempo (sono passati sette anni) si è fatto conoscere, o riconoscere (si è imposto, si direbbe nei termini agonistici non estranei alla psicologia dellʼuomo), come uno dei principali esponenti della cosiddetta nuova scena orale veneta, partendo dalla baraonda degli slam poetry e dalla prima lezione di Lello Voce per approdare infine a un format di esibizione più personale, da locale notturno e urbano, uno spokenword (monologo ritmico) su basi elettroniche accompagnato da una mimica facciale e gestuale anchʼessa cadenzata al tempo dellʼesecuzione.
Non amo particolarmente questo periodo “dimostrativo” di Julian, sebbene ne ammiri umanamente la fierezza e la testardaggine. Non lo amo perché, al netto dello studio vigoroso svolto delle varie forme di oralità poetica (dalla prosodia latina e greca, alla ritmologia slava, alle tecniche più facilmente decifrabili del rap) mi pare che i suoi testi abbiano qui perduto (o posto a margine di un più rigido controllo compositivo che non lascia spazio al prodigio dellʼerrore) quel sangue originario alla testa che spillava più liberamente nellʼombra della fanciulletta incoscienza. La sua voce, sotto le luci della ribalta, pare farsi più decente, più interessata a “funzionare”. Ma a che serve, funzionare?
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Apro una parentesi di apparente contraddizione. Proprio nei giorni in cui abbozzo la prima parte di questo pezzo esce su “LʼAvvenire” (24 marzo 2019) un articolo di Giuliano Ladolfi, dal titolo “La triste stagione dellʼarrogante dilettantismo poetico”, contro il fenomeno degli slam poetry. Il brano mi pare sbagliato da tutti i punti di vista, non è a fuoco e mira su un nemico immaginario (lo slammer come dilettante che urla parole a caso, contrapposto al poeta letterato), la pietra cioè lanciata in aria ricade in fronte senza avere sfiorato nulla.
Ho risposto via social sul profilo di Matteo Fantuzzi, che lo rilanciava: “Il dilettantismo poetico non ha area e la sedicente lirica imitativa ne è piena, come specularmente non mancano poeti della scena orale ben più eruditi filosoficamente e formalmente dei frequentatori medi dei Villaggi Poesia. In ogni caso: se le sale degli slam sono piene dove le aule dei reading di poesia convenzionale sono desolati antri abitati da qualche fidanzata imbarazzata o assessore di paese affamato di tartine, qualcosa su cui ragionare mi pare ci sia (sulla morte perlomeno apparente di un linguaggio; e la morte va meditata, se si ama veramente il defunto o a maggior ragione se si voglia tentare una stregoneria, un sortilegio, una reincarnazione). Il fenomeno slam verifica, anche per chi voglia continuare un legittimo percorso di scrittura afona, lo stato espressivo dei linguaggi e in qualsiasi caso è un elemento indubitabile da tenere a mente anche per chi voglia, per motivi più profondamente estetici di una querelle di famiglia, contestarlo”.
Tengo dunque ben a mente questo elemento per chiudere questa sezione del discorso. La performance di Julian Zhara, evidentemente, funziona. Funzionano gli slam e funzionano i concerti di spokenword. Le sale dei locali sono piene, dove i reading di poesia classici sono diventati ormai delle pantomime pietose di fronte al vuoto cosmico dellʼinesistenza. Ma a cosa serve intrattenere un pubblico, questo campione italiano degli anni Duemila, che meriterebbe piuttosto di essere insultato?
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La poesia o odia o ama. Non si intrattiene in futili convenevoli con degli sconosciuti. In entrambi i casi è molesta, o sgradevole, o inopportuna. Anche quando si inginocchia in lacrime sotto i fiotti di luce della discoteca, dove ha visto la Madonna. Un evento estetico non può mai essere congruo. Roberto Roversi (a memoria, da una conversazione privata): “Ho smesso di fare letture in pubblico perché gli applausi mi parevano umilianti”. Chi deporrebbe, infatti, una lettera nel bosco per ricevere del consenso? (Dal punto di vista musicale, inoltre: perché inchiodarsi al ritmo e non danzarci attorno? Tradirlo, disattendere la regola, decelerare in libero stile, come Glenn Gould. Manifestare fonicamente il conflitto tra la carne e il tempo).
Lo scorso anno, dopo anni di palestra live e performance itinerante, Zhara pubblica il suo primo libro di poesia, dal titolo Vera deve morire, per Interlinea edizioni, nella collana Lyra giovani diretta da Franco Buffoni, a cui lo legano, inevitabilmente, gli studi svolti di ritmologia a cui Buffoni ha dedicato non poche energie e pubblicazioni negli anni Novanta e Duemila oltre che una scelta di campo prosodica significativamente conflittuale con la tradizione metrica italiana.
Chi si attendeva una quadratura del cerchio con la raccolta dei monologhi performativi e lʼufficializzazione dello slammer è rimasto deluso. Vera deve morire è infatti un poemetto dʼamore, deve molto formalmente alla prima poesia di Amelia Rosselli e testimonia piuttosto lʼapertura di un nuovo periodo estetico dellʼautore. Sorprende, soprattutto, lʼadesione a un tono minore e intimo, a tratti crepuscolare (lungo la linea Pascoli-Gozzano; fino a Pavese), con cui Zhara affronta il suo battesimo alla carta.
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Si è detto, si è ribadito mi pare senza ragion veduta, che il poemetto canterebbe un discorso amoroso tra le due rive adriatiche, lʼitaliana e lʼalbanese. Non ho riscontrato nel testo alcun indizio che giustifichi tale interpretazione. Lʼamata del libro è una ragazza italiana e la memoria albanese, che emerge in un solo testo, si mostra come una piccola vergogna, un segreto inconfessabile custodito tra le lenzuola del letto. Vera è la sola, infatti, a sapere che il poeta sogna ancora in albanese e la sua presenza è una presenza di conciliazione e di scioglimento di unʼidentità originaria (la “lingua dei tuoi antenati”) in un paesaggio urbano privo di caratteristiche regionali: il Veneto come emblematico non-luogo europeo di scompartimenti treno, bar di periferia e appartamenti in affitto.
La perdita sentimentale (il nome di Vera è un omaggio dichiarato al fantasma onnipresente dellʼomonimo racconto crudele di Villiers de lʼIsle Adam: “Sicché lei se nʼera andata!… Ma dove!… Vivere, ora? Per fare cosa?… Era impossibile, assurdo”) lascia infine la voce poetica nuda nel paesaggio adottivo in cui è stata introdotta. Ma questo momento di perdita è la nascita a vita nuova di Julian Zhara come poeta italiano nato a Durazzo (non era forse lʼidentità rinnovata del padre nei versi giovanili una dichiarazione di intenti?).
Ma è nella forma che si svolge il discorso più intimo del libro. La poesia di Julian Zhara respinge, nella sua erudizione ritmica, ogni elemento della tradizione metrica italiana (settenari, endecasillabi). Dove il contenuto esplicito del testo affronta il tema dellʼidentità come architettura da costruire nel conflitto tra cultura e direzione, origine e volontà, la forma svolge invece un movimento più ambiguo, non speculare ma incongruo.
È nella prosodia slava che Zhara fa tintinnare la lingua italiana e qui si affaccia un discorso cruciale e irrisolto sulla tradizione quale organismo mutante, paesaggio fluviale e metamorfico di reincarnazione, innesti, tradimenti e assolute discontinuità.
Questo è il battesimo di Julian Zhara e da questo nodo tematico e formale ha inizio il suo viaggio. Sarà dallʼesplosione di questo seme, quando la lingua stessa adottiva e adottata si spaccherà sotto la pressione sottocutanea delle interferenze psichiche, quando ramificheranno simultaneamente le dimensioni foniche del sogno e della realtà quotidiana, quando gli errori naive dellʼadolescente emergeranno naturalmente come cole di vernice spray sopra lʼordito erudito della costruzione armonica, che le luci dellʼouverture si spegneranno e nel buio profondo avrà inizio il primo atto.
Davide Nota
*In copertina: Julian Zhara in una fotografia di Serena Campanini