Entrambi erano attratti dall’Armenia, che per entrambi identificava la nascita – non potremmo immaginare figure drammaticamente tanto opposte, agli antipodi. Osip Mandel’štam attraversa l’Armenia nel 1930, sonda gli abissi del linguaggio, sente urlare le pietre, fa di quel luogo la svolta, spazio dove il rito s’incatena all’incanto verbale. I suoi reportage lirici sono pubblicati a singhiozzo, all’editore è impedito di pubblicare Viaggio in Armenia, un libro scavato nel diamante.
Il legame di Marietta Šaginyan con l’Armenia, invece, era viscerale: nata a Mosca da discendenti armeni, il suo Viaggio nell’Armenia sovietica, pubblicato nel 1950, è un reportage alle origini del proprio compito letterario, della propria scelta politica. Il libro, adornato di mappe, dalla scrittura schietta, non priva di violente tenerezze, fu tradotto quattro anni dopo nel mondo anglofono come Journey Through Soviet Armenia; in Francia uscì nel ’55 come A travers l’Arménie soviétique; in Unione Sovietica ottenne l’ambito Premio Stalin. Il rapporto di Marietta Šaginyan con il paese dei suoi avi è testimoniato, nel 1961, da un repertorio di studi sulla “letteratura e l’arte in Armenia”. Il paradosso – non inconsueto – è tutto lì: irriconosciuto nel proprio paese, Mandel’štam muore confinato in prigionia, nel 1938; oggi è considerato tra i massimi poeti del secolo, tradotto a dovere, dicono che lo canonizzeranno in un ‘Meridiano’ Mondadori. Cinquant’anni dopo la morte di Mandel’štam, nel 1988, per festeggiare i 100 anni di Marietta Šaginyan, l’URSS stampa un francobollo commemorativo: la signora, autentica diva della letteratura sovietica, era morta nel marzo del 1982; gli ultimi anni li aveva passati a Koktebel’, in Crimea. Giustificava gli arresti di massa compiuti da Stalin, minimizzando l’orrore, dichiarandoli necessari ai fini del benessere del popolo; nel 1975 l’astronoma Ljudmila Černych le aveva dedicato un asteroide, chiamandolo 2144 Marietta. Oggi, chi la conosce?
Il caso di Marietta Šaginyan è emblematico: talento poligrafo, cominciò come poetessa, nel 1913, con la raccolta Orientalia; era dedicata a Sergej Rachmaninov, con cui condivideva un potente sodalizio intellettuale, sigillato da vaste lettere. Il rapporto s’interruppe nel 1917: Marietta, già amica di Zinaida Gippius, complice dei “Fratelli di Serapione”, la confraternita di cui facevano parte, tra gli altri, Evgenij Zamjatin e Viktor Šklovskij, divenne una paladina della Rivoluzione. Non fu l’unica. Fedele alla linea, idolatrava Stalin – a cui chiese lettere di accompagnamento ai suoi testi: il capo supremo, con severa modestia, rifiutò –, preferì aderire ai dettami del ‘realismo socialista’, eccelleva nella satira e nel romanzo distopico; fu una polemista ferma, sagace, violenta. In un saggio sulla “Libertà creativa e l’arte sovietica” (tradotto con sfarzo nel 1953 da Soviet News, Londra; in calce ne editiamo un ampio stralcio), dimostra come la vera coercizione sia nei paesi occidentali ‘democratici’: “Soltanto attraverso la Rivoluzione, soltanto nelle terre sovietiche, lasciandosi guidare dai sentimenti del popolo, dal nostro legame con il popolo, è possibile una genuina, autentica libertà creativa”. A suo dire, “retta coscienza” e “rispetto del popolo” sono i cardini per una proficua ricerca artistica. Uno dei suoi romanzi più noti narra l’epopea della centrale idroelettrica di Dzoraget, in Armenia; il successo formidabile si deve, tuttavia, a La famiglia Ul’janov, il primo dei romanzi biografici dedicati a Lenin. Pubblicato nel 1938, fu ritirato dal mercato per un ventennio, perché l’autrice aveva osato rivelare le origini calmucche del guru della Rivoluzione: Marietta fu relegata al ruolo di saggista. Non si alterò troppo: dagli anni Cinquanta la sua parabola monta, e proprio per la tetralogia di romanzi sul divo Vladimir otterrà il Premio Lenin. Scrittrice volitiva, tradusse, tra l’altro, La pietra di Luna di Wilkie Collins e l’opera del poeta persiano Nezāmī.
I dissidenti e gli emigrati russi, naturalmente, la odiavano, spargendo aceto sulla sua bibliografia: nei loro regesti Marietta Šaginyan è censita come un’opportunista, una delatrice, degna autrice da propaganda, serva dei vieti afrori del regime comunista. In particolare, è micidiale la critica di Nadežda Mandel’štam: “piccola figura avvizzita, vecchia, insensibile, ci annoiava coi suoi pensieri su Lenin e Goethe, i suoi giochi retorici che mettevano in concordia la lampada del minatore, il genio di Faust, il famoso piano per l’elettrificazione dei paesi sovietici”. Amava Anna Achmatova, “appena la incontrava, s’inchinava per baciarle la mano. Tutto questo, naturalmente, metteva in imbarazzo la Achmatova, che quando vedeva Marietta Šaginyan si gettava nella casa più vicina, chiedendo rifugio”. Quando la Achmatova cadde in disgrazia, Marietta Šaginyan – così dice la Mandel’štam – cominciò a dire che era “decadente e decaduta”. Lo stesso trattamento riservò a Maksim Gor’kij. “Era la figura tipica dei nostri tempi, la quintessenza del delatore, spettegolava di cose su cui tutti ritenevano di dover tacere”. Eppure, secondo le testimonianze di ‘Mur’, il figlio di Marina Cvetaeva, Marietta Šaginyan gli dà ricovero, dopo la morte della madre (così dai diari, l’11 ottobre 1941: “Ieri sono andato dalla Šaginyan. Sua figliaè incinta; sicuramente è sposata. Ho mangiato dei dolci, bevuto del tè”).
Veleni, contorsioni, parole che lapidano e che insanguinano menzogne: è storia nota, di oggi. L’ingegno non è mai ingenuo, non viviamo nella conferma o nel conforto, ma nella contraffazione.
Marietta, plurimedagliata dal governo sovietico, riposa nel cimitero armeno di Mosca.
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La libertà creativa e gli artisti sovietici
Durante una conversazione avvenuta non troppo tempo fa con uno scrittore dall’estero, il discorso è caduto sulla libertà creativa. “Che popolo sfortunato che siete”, ha cominciato lui con un tono a metà tra la sincerità e lo scherzo. “Non potete scrivere ciò che volete. E se per caso agite contro lo Stato, venite gettati pubblicamente sui carboni ardenti. Basti guardare Šostakovič. Non ha dovuto ritrattare dopo tutte quelle critiche? La critica è sempre così pubblica, poi. Puoi negare che nel tuo Paese l’artista non abbia le mani legate?”
Ho risposto con lo stesso tono a metà tra la sincerità e lo scherzo.
“Se tu avessi ragione, ne conseguirebbe che le professioni creative da noi implichino una vita davvero molto dura, più dura di quella di chiunque altro. Ora, riconoscerai che le professioni più ardue sono diffuse di rado e che la gente, in genere, le evita. In questo caso, come spiegheresti il fatto che in tutte le parti del Paese non decine, non centinaia ma migliaia di individui sono impazienti di diventare scrittori, artisti, compositori professionali? Ogni giorno un numero incalcolabile di manoscritti viene inviato agli editori dei nostri giornali, riviste e case editrici. Innumerevoli persone scrivono di infiniti argomenti: tutti vogliono raccontare la loro vita, in versi o in prosa.
Nelle aree più fuori mano, nei villaggi più remoti ci sono compositori, direttori d’orchestra, musicisti che producono attivamente. Piccole città di provincia organizzano mostre annuali dell’operato dei loro artisti e scultori. Circoli letterari, atelier e orchestre si vengono a formare nelle fabbriche e negli stabilimenti. Come potrebbe essere così diffusa l’arte nel nostro Paese se la vita dell’artista fosse così dura e priva di libertà come la immagini tu?
Oltretutto, vedrai che la sete di sforzo creativo va oltre alle arti. Milioni di persone sono impazienti di svolgere mestieri d’inventiva, ognuna di queste nel proprio campo. Cos’è il movimento di pionieri nelle fabbriche e nei cantieri se non un’espressione di questa sete di creatività? Beh, in passato non esisteva nulla del genere. Oppure, prendi i nostri scienziati e scolari. Ai vecchi tempi, un giovane uomo laureato doveva pensare da sé a trovare un lavoro per guadagnare e mantenere la famiglia. Pochissimi rimanevano all’università per fare ricerca. Oggi giorno quasi tutti i giovani, uomini e donne che si diplomano alle superiori pensano allo svolgimento di una professione d’inventiva.
Di recente, ho letto sui giornali di un presidente di una fattoria collettiva che ha presentato una tesi sull’allevamento del bestiame per una laurea in ambito scientifico. Insieme al suo lavoro pratico di gestione della fattoria, ha portato avanti esperimenti, alla base della sua tesi, sull’alimentazione e sull’allevamento di suini. La maggioranza delle persone si sta adoperando per introdurre qualcosa di nuovo nel proprio mestiere, qualcosa di loro, qualcosa di creativo. Potrebbe mai essere possibile se tale processo fosse ostacolato nel Paese, fossimo con le mani legate, arresi a ordini impartiti dall’alto?”.
Il mio amico ha alzato le spalle, come a dire che ciò che avevo detto si poteva applicare ai comuni mortali, ma quello che aveva in mente lui era la natura complessa e delicata dell’artista professionista. Comunque sia, non abbiamo avuto occasione di concludere il discorso.
Quando sono tornata a casa, ho pensato a lungo a quanto poco le persone all’estero sappiano sulla nostra vita e sulla psicologia dell’artista. E ho deciso di scrivere a quell’autore piuttosto sarcastico una risposta che tratti il tema in modo approfondito, la stessa che avrei dato a me stessa.
Prima di tutto: cosa significa “libertà creativa?”
Da nessuna parte al mondo, in nessun sistema sociale, l’artista vuole produrre per sé stesso e solo per sé stesso. Da nessuna parte si chiuderebbe tra le quattro mura della sua stanza senza mostrare a nessuno il suo operato. Da nessuna parte non vorrebbe pubblicare il libro che ha scritto, non esporre le tele che ha dipinto, non consegnare a un’orchestra o a un pianista la musica che ha composto. Chi si comporta così è un eccentrico che gode della sua “libertà” assoluta. Ma tali soggetti nelle torri d’avorio non esistono e, se esistono, sono rare eccezioni che non hanno nulla a che fare con la questione.
E quindi, l’artista in ogni campo e in ogni paese, vuole porgere il suo libro, il suo dipinto, la sua sinfonia a un pubblico. Facendo ciò, egli viene inevitabilmente in contatto con una serie di presupposti che deve prendere in considerazione in un modo o nell’altro. In un qualsiasi sistema sociale specifico, questi hanno un carattere definito che cambia. Quindi, per comprendere la libertà creativa di un artista, si devono prima di tutto capire le condizioni che il sistema sociale produce per lui.
Ho sessantacinque anni, ho vissuto per i primi trenta nella Russia zarista. Ho iniziato a lavorare per i giornali a 15 anni. Per 15 anni, dunque, sono stata una scrittrice dell’Impero. Sotto le condizioni realizzate da quel sistema pubblicai due volumi di versi, due di racconti brevi e diversi volumi di conferenze e critica letteraria e parecchi libri di testo.
Quali erano le circostanze da prendere in considerazione in questi primi anni?
Innanzitutto, la portata e le caratteristiche specifiche dei lettori. Noi scrittori non avevamo di fronte la vasta popolazione della vecchia Russia. La maggioranza delle persone non acquistava libri e nemmeno poteva. Io non andavo a teatro, non potevo, anche solo per il fatto che in un gran numero di città distrettuali, figuriamoci nei villaggi, all’epoca non esisteva un teatro. Non andavo alle gallerie d’arte, perché non c’erano, sia nelle città distrettuali che in molti centri amministrativi regionali. Non ascoltavo concerti, non c’erano concerti da ascoltare.
La massa poteva soddisfare il proprio bisogno di arte con i propri mezzi, quelli popolari: versi orali, favole, canzoni e suonando strumenti folkloristici. L’“arte” che si trovava nei villaggi proveniente dalle città consisteva in stampe economiche e calendari sgargianti. Tra i lavoratori russi vi erano molte persone di intelletto che amavano i libri. Ma la gente viveva in situazioni dure, era povera e non poteva permettersi i libri, leggeva ciò che prendeva in prestito in biblioteca. Le case editrici che pubblicavano libri per il lettore progressista erano molto poche e avevano solo una piccola parte di strutture e mezzi rispetto a quelle a disposizione delle tipografie borghesi. Queste ultime non potevano fare certo affidamento sulla massa, sui milioni ma sul piccolo numero di coloro che erano in grado di acquistare i libri: l’intelligencija urbana, proprietari terrieri benestanti, funzionari dello stato, giovani studenti.
E perciò, i lettori in Russia erano molto pochi, i nostri libri venivano di solito stampati in edizioni che non contavano più di 3000 copie. Gli editori, chiaro, preferivano volumi che potessero vendere bene, in modo da non sostenere alcuna perdita, e seguivano da vicino il gusto del pubblico. I miei primi tentativi uscirono nel decennio d’apertura del secolo. Ciò accadde dopo l’insuccesso della guerra contro il Giappone e la rivoluzione del 1905, quando il governo stava fortemente intensificando la sua politica reazionaria.
Una parte dei lettori voleva fuggire dalla dura realtà e richiedevano una letteratura leggera, frivola e d’evasione. L’altra parte, tuttavia, cercava una letteratura che desse un’analisi accurata della vita. Per libri del primo genere, gli editori pagavano bene; per quelli del secondo, l’Impero perseguitava, arrestava ed esiliava gli scrittori.
Presi coraggio e scelsi la seconda via.
Tutti conoscono la storia di Maksim Gor’kij. Al culmine della fama venne arrestato, imprigionato ed esiliato dalla capitale dal governo zarista. Ciò successe più di una volta.
Ricorderete la vita di Lev Tolstoj. Mentre gli ammiratori del suo genio venivano a visitarlo da ogni parte del globo, mentre i suoi romanzi venivano tradotti in tutte le lingue del mondo, la Chiesa ortodossa Russa lo aveva scomunicato, i preti gli lanciavano anatemi nelle chiese, agli insegnanti a scuola veniva vietato di pronunciare il suo nome e i censori avevano messo al bando romanzi come Resurrezione. Quello era il destino del genio creativo. Va da sé che quando si trattava di professionisti di minor talento le autorità zariste non si comportavano proprio da signori.
Era questa la situazione che l’artista affrontava in Russia prima della Rivoluzione d’Ottobre. Tuttavia, vi è anche un’altra premessa importante: l’opinione pubblica. La letteratura classica russa ha sempre avuto a che fare con problemi sociali: giustizia, diritti umani, difesa degli oppressi. L’intelligencija, cresciuta con i classici, era un giudice severo dei libri e dei loro autori. La sezione progressista della società aveva gusti esigenti, derideva le pubblicazioni frivole, vuote e banali. Derideva e provava pena per gli scrittori di quella “letteratura”, anche se questi libri gli portavano maggiori somme di denaro. Fu in queste condizioni, con una censura ufficiale e un giudice non ufficiale, il pubblico, che iniziai a scrivere. Ero una giornalista marginale che supportava la propria famiglia col lavoro. Dovevo adattarmi alle richieste del giornale che mi dava il pane quotidiano. Ma ero un’idealista. Mi esiliai dalle tradizioni della grande letteratura russa. Non volevo scrivere banalità. Di conseguenza ero sempre oppressa dalla sensazione del compromesso, sempre tentata di intraprendere il percorso tra Scilla, la censura zarista, e Cariddi, la mia etica professionale.
Questo lasciò un segno in maniera inevitabile di eccletticità e dualità su ciò che scrivevo. Nel profondo del cuore ero sempre insoddisfatta di me stessa. Mi sentivo sempre intralciata nella mia scrittura creativa. Pensavo che non stavo dando tutto ciò di cui ero capace. Mi ritenevo una scrittrice libera? Mai. Ma di frequente, molto di frequente, mi sentivo umiliata e sminuita. La Rivoluzione d’Ottobre cambiò il sistema sociale e con esso le condizioni in cui lo scrittore lavorava. Se le persone all’estero vogliono acquisire una giusta comprensione della libertà inventiva dello scrittore sovietico, devono prima avere una chiara immagine delle circostanze in cui egli si ritrovò.
In primo luogo avvenne un netto cambiamento nella composizione e dimensione del pubblico.
Dopo la Rivoluzione acquisimmo milioni di lettori: i numerosissimi che erano assetati di libri ne erano diventati i principali acquirenti. L’esperienza di vita di queste persone era davvero ottima, in molti casi molto più aperta, profonda e ricca di quella degli stessi autori. Per soddisfare il pubblico, i libri dovevano essere scritti in modo semplice, serio e accurato e non dovevano avere a che fare con cose futili ma con quelle importanti, che raccoglievano l’insieme e l’essenza della vita delle masse.
Marietta Šaginyan
*La traduzione italiana è di Sofia Zangheri