16 Giugno 2023

“Permettersi di sognare”. A casa di Mimmo Paladino, Abel Ferrara, Paolo Fresu… Conversazione con Carlos D’Ercole

Questo è un tempo di abitazione. O meglio, di abitazioni. La compromissione dei limiti, il senso nuovo dell’allontanamento e del confinamento, la determinazione in termini sociali di concetti fino a poco tempo fa inimmaginabili come quello, astratto, dello spazio di separazione: tutto questo confluisce nel riscrivere il nostro rapporto agli spazi e ai tempi dell’abitatività. In un’epoca in cui l’interconnessione veicola l’iperesposizione del sé, ogni giorno di più il nostro rapporto con il luogo assume il senso di un’istallazione.

In Casa come me / A House like me, Carlos D’Ercole posiziona la sua ricerca nel frangente di un’urgenza collettiva – l’urgenza, come lui stesso registra, di tracciare un confine di senso tra spazi che si confonderebbero altrimenti. Lo osserva, per esempio, durante la sua visita all’abitazione di Miquel Barceló, in cui le superfici dipinte, murate o libere da vincoli, mescolano atelier e spazio abitato fino all’indistinguibile. Ancora, per esempio, lo osserva nell’appartamento bolognese di Paolo Fresu, dove un ordine sovrano divide in maniera invalicabile i livelli dell’esserci – affettivi, privati, egressivi, di nascondimento, di proiezione di sé, di innamoramento. Un tragitto, quello di D’Ercole, per raccogliere una materia prima esistenziale senza testimoniarla. In altre parole, libero dalla necessità di rispondere a un mandato. Un’operazione perfettamente inutile, di pura osservazione e compresenza, e proprio per questo di grande valore.

Il suo viaggio parte dal presupposto dell’intrusione come unico movimento possibile nell’incontrare il tempo, il corpo, dell’altro. Come scrive Jean-Luc Nancy ne L’intrus, «così come il mio cuore e il mio corpo mi sono venuti da altrove, sono un altrove in me»: alterità come principio di relazione, perché unica forza che agisce a connotarci quando, a volte educatamente e a volte no, varchiamo la soglia dell’altro. È una questione che la cultura contemporanea tematizza non di rado, ultimamente. Deriva forse dall’aver raggiunto il culmine di un processo durato cinquecento anni, che ha determinato l’arte occidentale come sguardo rivolto dalla prospettiva di uno spazio stretto, da una fessura, da una finestra socchiusa. Ma è proprio questo il punto: l’opera di D’Ercole non aspira al superamento della soglia, non mira a porre in questione l’identità o la soggettività degli abitanti, non si addentra nell’interpretazione delle loro ragioni. Al contrario, rende conto di un calpestare la soglia: intromissione deliberata, portata al grado estremo della verbalizzazione di sé, dello scatto fotografico. Come registra Luigi Serafini con una felice definizione, Casa come me è «una versione letteraria di Au rendez-vous des amis di Max Ernst»: una catalogazione programmatica di quello che si offre allo sguardo, all’ascolto, nella visita. Ecco allora l’esaltazione della consapevolezza, dell’ordinamento dello spazio come un qualcosa che ci corrisponde, senza bisogno di validazione. Così, da New York a Cracovia, le abitazioni degli artisti (degli amici) di D’Ercole, appaiono legate da un fil rouge curatoriale – da un’attitudine unica. Partiamo da questo punto, nella nostra conversazione.

La tua scrittura procede per fotogrammi. Nella strutturazione del testo separi l’andamento in stringhe diverse e tendi a una frammentazione controllata. Anche nel riportare l’aneddotica, per esempio, scegli quasi sempre contenuti che afferiscono a un dato figurativo, rappresentabile come tableau spezzati e montati.

I miei libri nascono sempre dall’esigenza di dare al lettore un’emozione visiva. Prima ancora delle parole nella mia testa si affollano immagini: scene di un film, quadri, fotografie, persone. Montarli quasi cinematograficamente è ciò che mi diverte di più. In Casa come me si alternano tre piani: il ritratto/intervista dell’artista prescelto, le fotografie della casa in cui vive, il disegno/schizzo d’artista che conferisce un tocco personale all’incontro. Similmente in Vita Sconnessa di Enzo Cucchi, una controstoria velenosa di cinquant’anni di arte contemporanea, i testi giocano con le fotografie in un ritmo serrato e in Dizionario Gonzo, autoritratto bibliofolle, si inserisce un ulteriore sottotesto per raccontare il feticismo di alcuni libri. In ogni caso Mario Finazzi ha scritto sul «Manifesto» che più che un avvocato bibliomane e collezionista d’arte, sono un «attento e scanzonato ritrattista». Mi ci ritrovo.   

Di questa libertà che ti prendi, però, fornisci le coordinate. Rendi chiaro al lettore il sottoprocesso che unisce i frammenti e gli dai gli strumenti per orientarsi. Escludi, in un certo senso la casualità, anche se quelli di cui parli sono tutti incontri. Se li ripetessi, se raggiungessi di nuovo quelle case, i tuoi dettagli sarebbero diversi.

Sicuramente. A ogni incontro sarei diversamente incuriosito. Oppure alla luce delle cose che mancano al libro, rileggendolo, ne cercherei altre. Pedro Cabrita Reis, presentando il libro al MAXXI, ha detto che Casa come me è un libro dinamico, mai statico, «in continua evoluzione».  Come a dire che non solo l’autore, ma anche il lettore lo assoggetta al continuo cambiamento. Fra cinquant’anni il lettore di Casa come me non sarà lo stesso di oggi.

La casa di Luigi Serafini; ph Simon d’Exéa

C’è quindi un’attitudine tesa al cambiare nel modo in cui osservi questi dettagli. Un’apertura all’essere sempre diversi in sé stessi, pur rimanendo parte di un sistema concluso come quello dell’appartamento. Mi viene in mente che nel tuo approccio ricerchi i punti in cui, di questi dettagli, si rende osservabile la sovrapposizione con la persona che li determina – che poi, è la persona che ti invita a entrare.

 Diversamente da Georges Perec (che amo molto) non c’è in me il gusto esasperato per l’elenco infinito. Mi interessano gli oggetti in rapporto alle ossessioni dell’intervistato. Per Pablo Echaurren l’interesse per le pietre non è solo una nuova passione, ma è anche il simbolo del suo rifiuto verso il mondo o il mercato dell’arte. Lui stesso confessa di non disegnare più da cinque anni.  

Questa traccia, nel libro, orienta anche le fotografie degli spazi. Hai scelto degli scatti non compilativi, ma che aprono delle traiettorie interne. Le vedute nelle case non sono mai panoramiche.

Questo avviene per sfuggire a quella deriva (in cui è molto facile cadere in questo tipo di libri) dell’interior design. A me non interessa il racconto leccato dei mille spazi di una casa, lo lascio alle riviste o ai libri esclusivamente fotografici. In Casa come me, i testi hanno una loro centralità. Le fotografie non devono meramente accompagnarli, tant’è che ho rimosso ogni didascalia.  Devono avere una vita autonoma, interrogare il lettore e magari permettergli di sognare.

C’è qualcosa di paradossale in tutto questo. Hai realizzato un libro di case e di luoghi, ma mi racconti che il punto in realtà non è lo spazio, ma il tempo del tuo incontro con lo spazio. O meglio, anche degli incontri ‘interni’ allo spazio. Per esempio, nella casa di Mimmo Paladino racconti che è possibile vedere il suo “dialogo con il design”, un dialogo tra elementi d’interno.

L’elemento di design (Munari o Sottsass in quel caso) dialoga nello spazio nel senso che lì vive. Non so se ci fosse un intento ulteriore dietro a questa scelta lessicale, anche se poi “dialogo” è una parola che uso spesso in riferimento a Mimmo Paladino che vive circondato da opere di amici artisti, in primis la foto di Borges fatta da Ferdinando Scianna che vedi non appena varchi la soglia di casa sua.  Ricordo che anni fa, mentre lo intervistavo a casa sua per il libro su Enzo Cucchi, a un certo punto mi disse: “quello è un Castellani-scambiato”. Intendeva che si erano dati un’opera a vicenda, una cosa che gli accade spessissimo. Un dialogo, in effetti.

Questo procedere per frammenti di ricordi e di immagini coincide anche con un modo in cui si formalizza il tuo modo di scrivere, la tua prosa.

Sono un grande conversatore e dissipatore di parole nel parlare quotidiano. Nella scrittura invece mi tengo moltissimo, sono essenziale, chirurgico. Questo perché miro a un equilibrio magico fra i vari piani dell’opera: le parole non si sprecano così come le immagini non devono prendere il sopravvento.

La casa di Mimmo Paladino; ph Valentina Sommaruga

Ho notato che non c’è nessun impianto documentaristico nel tuo lavoro. Non sopprimi il tuo tracciato per ottenere un’osservazione neutra. A questo proposito, è più semplice per te relazionarti con l’ordine o con il disordine degli spazi?

È una domanda difficile. Pensiamo ai due antipodi. Da una parte c’è Paolo Fresu, con l’ordine maniacale che regna sovrano nelle sue case di Berchidda, Bologna e Parigi. Da un jazzista ti aspetteresti tutt’altro, Fresu smentisce invece la figura un po’ retorica del musicista vizioso alla Thelonious Monk o Charlie Parker. Dall’altra parte, invece, c’è il caso di Abel Ferrara, dove il disordine mentale è tale che ne è avvolta anche la casa. Ecco, ti potrei rispondere che è molto più facile essere provocati da una casa in disordine (che poi fa molto “artiste maudit”). Per me invece è molto più facile dialogare, paradossalmente, con l’ordine di Paolo Fresu. Tutta una serie di tessere del suo puzzle si fanno raccontare, mentre è difficilissimo interagire con il tipo di disordine alla Ferrara. In una casa in cui, tra l’altro, gli oggetti sono pochi: qualche giocattolo della figlia, qualche dvd, eccetera. Questo, secondo me, ti fa capire anche la dimensione e di capacità di un artista di andare nel futuro. Paolo Fresu ha una enorme consapevolezza del suo lavoro e delle collaborazioni presenti o potenziali. In Ferrara invece noto una eccessiva dispersione del talento, prova ne è gli alti e bassi della sua produzione. Sia detto con ammirazione.

 Credo che in tutto questo l’amicalità giochi un ruolo importante. Proprio perché il tuo è un libro d’artista e non un documentario, la ratio dell’amicalità, della persona, diventa orientativa.

Non mi offenderei se si dicesse che i miei sono spesso libri sugli Amici. La complicità è l’elemento scatenante di ogni mio progetto. Ti confesso che in fase di gestazione di Casa come me rileggevo Breakfast with Lucian, conservazioni intrise di amicizia di Geordie Greig con Lucian Freud.

*L’intervista è a cura di Stefano Bottero; in copertina, la casa di Paolo Fresu, ph Simon d’Exéa

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