“Un cancro sulle mie labbra e nel mio seno”. Amori tra donne. Storia di una contro-Virginia Woolf
Letterature
Fabrizia Sabbatini
Ogni quadro è uno specchio – rappresenta ciò che di noi non vogliamo vedere, quando l’artista è eccelso. Quando un quadro rappresenta lo specchio, di solito siamo al cospetto di una teologia: il trucco di modificare lo spazio, dando fiato all’infinito, attraverso l’azione di due specchi che si guardano senza amore lo conosciamo tutti. Che buffa cosa è l’uomo: gli basta una baruffa di specchi, un gioco, per credersi dio.
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Lo specchio più seducente della storia dell’arte è quello che Cupido sorregge davanti a Venere, nel quadro di Diego Velázquez alla National Gallery. Lei è invidiabile – e invisibile; d’altronde, guardare il volto di un dio (riconoscere una forma in ciò che la elude) porta alla morte per eccesso di luce. La schiena di quella Venere è da capogiro, la carne ha un’innocenza che dona una alberatura nuova alla nostra mascella; chi non vorrebbe essere lì, ora, a districare il nodo dei suoi capelli? Venere ci guarda – lo specchio rimanda un volto in nebbia – con audace severità, dicendoci, so cosa miri, e dove e perché, ma la tua volontà è vento. L’affrettato Cupido ha un viso indulgente, docile; le sue ali – il modo, il tratto, il tono – rendono gli Impressionisti archeologia, Francis Bacon un talento tra selce e macello.
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Se nella “Venere Rokeby” assistiamo all’evidenza del dio – il nostro volumetrico desiderio di immortalità in tende rosse, triclini bianchi, il limite della carne nell’etica del lenzuolo – in Las Meninas c’è la Città del Dio e del tempo, il mondano e l’immondo, l’immacolato e l’immoto. Lo specchio, il centro lontano di un quadro pieno di fuochi, di pietre peculiari (il pittore; l’infanta Margherita che fiammeggia, tanto onesta pare; la damigella che si muove come una marionetta; la fetta di luce dalla porta), ritrae gli invisibili oggetti del ritratto, Filippo IV re di Spagna e la moglie, Maria Anna d’Asburgo. Di fianco a loro, la porta è aperta, un uomo è bloccato, forse vuole fuggire. Quello spiraglio è, in effetti, la via di fuga del quadro, la luce in cui tutto è risucchiato, il punto dell’autodistruzione. Ogni elemento è solido, proprio, esatto; ma può convertirsi, conciliato, al niente. Le cose – la rientranza del muro, ad esempio – hanno una concretezza fisica sonora, solida, allucinante. Eppure, tutto è teatro, finzione, scena, in fondo. Velázquez rispecchia il mondo e lo rovescia: non è più importante, ora, distinguere la verità dalla menzogna, la distanza è in una intenzione, in uno schiocco di ciglia.
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Effettivamente, il pittore che ci fissa con violenta compassione, Velázquez che ritrae Velázquez che snida e giudica Velázquez, pare dirci: sei così stupido da credere in ciò che vedi? Se le mani della piccola al centro, una specie di triangolo luminoso, eminenza del dio, vorticoso aggettivo su cui si edifica Sion, e quelle delle damigelle sono affusolate, in porcellana, guardate la mano del pittore che tiene il pennello. Allargate l’immagine su quel grumo informe. Come se le dita fossero fuse in un unico pezzo di carne, mostruoso. A forza di dipingere, con talento ineguagliato, le dita del pittore si sono incollate: e il pennello è uno stiletto, un coltello chirurgico – che operazione fa, il pittore, se non quella di dividere le anime e moltiplicarle?
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Per una volta, i reali – i realia – possono stare nella prigione dello specchio – cos’altro, in effetti, raduna e ragiona sulla nostra fragile giovinezza? L’immagine su uno specchio è il contrario dell’effigie su una moneta: la seconda è merce di scambio, di contratto, di contrabbando, la prima vive una vita ulteriore, astratta; riflettendo il corpo, lo specchio, sapienza arcana, ci fa scoprire che non c’è altro che quello, che quella superficie – e nient’altro – è l’anima, l’essenza, la qualità delle qualità. Velázquez, dopo tutto, i reali li ha già ritratti, in molteplici fogge, molte volte, Filippo IV e Maria d’Austria, con una semplicità sperimentale che ha sapore d’icona ortodossa; a volte sospesi in quello sfondo muto, istantanee dalle magioni di un sogno, terso come un urlo, come quello che accerchia Pablo de Valladolid.
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Al quadro più noto di Velázquez, cardine di un enigma – un po’ come la Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca, il Ritrovamento del corpo di san Marco di Tintoretto, Tempesta di Giorgione – Vincenzo Gambardella dedica un saggio speciale, Las Meninas allo specchio (Ensemble, 2020), che riprende la tradizione degli scrittori a confronto con i grandi artisti (Giovanni Testori che ‘sfida’ Grünewald, ad esempio, Paolo Volponi che scrive di Masaccio, Mario Luzi che si confronta con Simone Martini, Giuseppe Ungaretti che specula su Vermeer, Guido Piovene su Veronese; in tempi recenti ricordo lo studio di Fabrizio Coscia su Bacon e quello, nuovissimo, di Andrea Caterini su Giorgio Morandi). Come se un’opera scritta trovasse ragione nel suo rispecchiamento in quella figurativa, di un altro, complice impuro. “L’arte di Velázquez prende le mosse da una solida fede nell’esistenza oggettiva delle cose, nella credenza incrollabile nella realtà del mondo che ci circonda… Ma con l’andare del tempo tutte le cose che sono racchiuse nei suoi dipinti assumono un aspetto più malleabile e ambiguo, più aperto ai due grandi universi che all’uomo è dato contemplare: quello del mondo sensibile e quello dell’anima”, scrive Gambardella, che intrattiene un certo rapporto con la terrestre e trasognata letteratura di Spagna (ricordo, nel 2018, le “pièce per il teatro dei burattini o delle marionette” Spicchi di Calderón).
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Gambardella tiene conto di alcune delle moltissime interpretazioni fiorite intorno al quadro – cita, soprattutto, Eugenio Battisti, Michel Foucault, Miguel Angel Asturias – ma il libro, che specula sugli specchi di Borges, sui miraggi – il modo con cui l’orizzonte capovolge la nostra intenzione d’identità – di Cervantes, sulle pulsioni di Pasolini, prosegue per un progetto suo, per una sua poetica. “Lo specchio mostra un riflesso: un re e una regina, l’immagine larvata di qualcosa che finisce e che quindi contiene in sé un principio”. Alcune intuizioni dello scrittore hanno una efficacia pittorica, come quando descrive così lo studio di Bacon sul papa Innocenzo X di Velázquez: “Ci mostra un volto degradato, una larva che sta per sciogliersi simile a una forma di miele esposta all’intensità del calore”.
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Se l’arte è soltanto il riflesso di una forma, che rifletta costantemente l’ansia dello spettatore invisibile: nel quadro di Velázquez siamo allo stesso tempo riassunti e respinti. Chi dipinge, d’altronde, cosa dipinge: la forma maledetta dalla corruzione o quella depurata dal giudizio? Il cane, in basso, non si sveglia, pur stimolato dall’avvenente crudeltà del bambino: sogna di quando fu uomo. (d.b.)