Basta avere un cuore debole affinché anche la gioia si trasformi in mostro. Quest’opera giovanile di Dostoevkij indaga i moti psicologici contrari, ci aspettiamo che al delirio si arrivi passando da un evento tragico, qui il trauma è una felicità ingestibile. Dostoevskij non ci mette molto a svelarci il nodo del problema: “Tu sai da cosa dipende tutto ciò, dal fatto che ho un cuore tenero. Soltanto mi dispiace che non ho potuto dirtelo come avrei voluto, allietarti, farti piacere, farti un bel racconto, aprirmi con te come conveniva”. Vasja ha il cuore tenero, si taglia benissimo, ogni evento affonda in questa tenerezza, ci si affoga dentro. Ma quando arriva una felicità troppo grande cosa succede? Non è perché si tratta di un evento felice che allora la potenza giustifica l’affondo. Chi ha il cuore tenero ha un cuore debole, non resiste all’urto.
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Dostoevskij in Un cuore debole (Passigli; traduzione di Maria Assunta Cantobelli) porta il lettore nell’apparente incoerenza di Vasja: egli si sta per sposare con una fanciulla che ama moltissimo e lo comunica all’amico con cui condivide la stanza dove abita. La gioia è una condizione insolita per Vasja e lo porta alla malinconia e alla pazzia. L’uomo felice dimentica tutti i dolori. Ma l’uomo abituato al dolore, alla privazione e al disamore non passa alla condizione della gioia così facilmente, così impunemente. Abbandonare la condizione di dolore che ha reso Vasja quello che è ora è un trauma. Anche la gioia apre una ferita. Dostoevskij si infila esattamente lì, dove la luce acceca, dove tutto straripa.
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In cardiologia si definisce “cuore debole” un cuore che ha insufficienza cardiaca. Vasja è insufficiente alla gioia. Il suo cuore non è assolutamente in grado di rispondere con la giusta gittata all’evento, non è capace a mantenere il tutto in equilibrio. Vasja inoltre dice che è “sbilenco”, è nato con una malformazione, con un fianco più prominente. In tutto questo la gioia è qualcosa che rompe il delicato equilibrio. Non basta che sia un bene ad arrivare, deve anche avere la giusta misura.
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Tutta quest’opera è un continuo dialogo tra Vasja e Arkadij, il migliore amico del protagonista. Arkadij è un uomo regolare, a differenza di Vasja, dice le cose chiaramente, non trattiene niente per sé, guarda alla felicità di Vasja con un sorriso di condivisione. Il loro rapporto però sfiora il morboso e la cosa strana è come Vasja sia stato incapace di raccontare al migliore amico il percorso che lo ha portato alla conquista di questa gioia. L’incapacità di manifestare quel che si prova, la costrizione, è il primo passo per uscire dall’argine. Se non esce niente da questo cuore, come potrà entrare le gioia? “Ma, se non sono in grado di manifestare tutto quello che provo, è come se… È come se, Arkadij, non fossi capace di esprimere la mia gratitudine, e questo mi atterrisce”. Vasja non è mai stato abituato a doversi svuotare, non pensava di poter essere amato, e senza svuotare il vaso questo non può essere riempito. Ecco che la gioia tracima in pazzia, ecco che l’estremo si svolge in tragedia.
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“Tu sei buono, tanto gentile, ma debole, imperdonabilmente debole” è quello che Arkadij sentenzia, senza tanti fronzoli. E quindi disabituato alla gioia Vasija si lancia nel funerale di se stesso. Celebra passo dopo passo la sua inversione, fino a retrocedere dalla ragione. Commetterà una serie di errori che lo porteranno a distruggersi fisicamente, a perdere il lavoro, l’amata e l’amico. Arkadij capisce cosa gli servirebbe: “Se si ammalasse sarebbe meglio. Con la malattia gli passerebbe questa fissazione e dopo ogni cosa andrebbe al suo posto”. Se la malattia fosse cosa del corpo, uno stravolgimento dell’anatomia, allora la mente potrebbe riposare, dovrebbe calmarsi per lasciare che le energie di un cuore debole vadano alla carne compromessa. Arkadij ottiene quello che sperava per l’amico: Vasja viene ricoverato in ospedale, la follia ha preso tutto però, il cuore anche qui è stato imperdonabilmente debole.