02 Giugno 2022

“Sono un co**ione. Megalomania, narcisismo”. I luoghi di Georges Perec

L’idea, seminale, quasi il Giorno del Giudizio della scrittura, è chiara, nota, porta alone di leggenda. Ne scrive così, Georges Perec, il 7 luglio del 1969 a Maurice Nadeau:

“Ho scelto dodici luoghi, vie, piazze, incroci, a Parigi, legati a eventi o momenti importanti nella mia vita. Ogni mese, descrivo due di questi luoghi; la prima volta, sul posto (in un café, o per strada), descrivendo ‘quello che vedo’, nel modo più neutro possibile, enumerando negozi, qualche dettaglio architettonico, alcuni micro-episodi (il mezzo dei pompieri che passa, una signora che lega il cane prima di entrare in gastronomia, un trasloco, i manifesti, il traffico etc.); la seconda volta, non importa dove (da me, al café, in ufficio) descrivo il luogo come si staglia nella mia memoria, i ricordi legati ad esso, le persone che vi ho incontrato etc. Ogni testo sarà rinchiuso in una busta, sigillata con cera. Dopo un anno, avrò descritto ciascuno di quei luoghi due volte, una volta secondo la mia memoria, l’altra con il metodo della descrizione reale. Andrò avanti così per dodici anni…”.

Cominciato nel gennaio del 1969, il progetto avrebbe dovuto concludersi nel dicembre del 1980, per un totale di 288 buste sigillate, “Non ho idea del risultato finale… il libro non sarà più restituzione di un tempo passato, ma misura del tempo che passa”. Il progetto, Lieux, si interrompe nel settembre del 1975 – il caso, la stanchezza, l’esaurimento del ‘metodo’, in qualche modo, ne autenticano la dignità, non giustificano bensì giustiziano. Lieux, smembrato, rivisto, ricalcato, spacchettato, riutilizzato, ritorna in diversi libri di Perec, tra invenzione e inventario: Tentative de description de quelques lieux parisiens e Tentative d’epuisement d’un lieu parisien, ad esempio, e si rivela, per ombreggiature, in La vita, istruzioni per l’uso.

Lieux, in effetti, è un progetto che porta la letteratura ad estenuarsi, cioè a compiersi: la ripetizione implica una liturgia (fatta di orari, appuntamenti, mappe), il dominio dello spazio (i luoghi di Parigi) e del tempo (quello della presenza più che del presente; quello che s’irradia nei dedali, per sempre ambigui, della memoria) assegnano allo scrittore le facoltà di un alchimista. Il caso, ingrediente prevalente – non so cosa vedrò quel giorno a quell’ora in quel luogo –, è nel giogo del verbo, viene assalito alla gola. La ricorrenza dona al rito qualcosa di algebrico: lappare l’intelletto non è, per forza, evasione dalla vita cruda. Insomma, rasentiamo il sogno mistico della scrittura che aderisce alla morte, adombrandola: Perec, per altro, muore il 3 marzo del 1982; dieci anni prima, nel marzo del ’72, descrive rue de la Gaîté, “per lo più, un luogo di passaggio… di recente, su un treno, ho incontrato una donna… possiede un piccolo negozio di scarpe dall’altra parte della strada”. Pare un’icona, su ceramica, dell’esistere: via di transito, incontro con lo sconosciuto, che può essere tutto e resta nulla, la strada come un fiume infernale.

Dopo tutto, Perec insegna che ogni scrittura va sigillata. Slegata dal patto soltanto dopo anni. Che sapore avrà quella scrittura: irriflessa, naturale, sconveniente?

Bene. A quarant’anni dalla morte di Perec, l’editore Seuil pubblica tutti i materiali di Lieux: 608 pagine di biglietti, mappe, immagini, cataloghi verbali, verbosità di un fatale anti-Proust. La fotografia in copertina è magnifica – Perec fissa qualcosa, serio, ha in mano un quaderno; dal portone, aperto, di fianco a lui, una bambina salta la corda – la specifica, inédit, dà del libro l’idea di un dono.

La ciliegia editoriale, però, è il sito costruito da Seuil, che ha digitalizzato la mole dei taccuini di Perec. Il libro, a questo punto, disposto come un tabellario, si può giocare: possiamo scegliere i luoghi, gli anni, i mesi; i ricordi o le descrizioni. Pare una specie di I Ching urbano, profano, privo di draghi, suddiviso in 138 caselle/lemmi: potremmo abusare di Lieux con formula d’oracolo. Io ho estratto il biglietto dei ricordi di sabato 28 marzo 1970, legato ad avenue Junot (è stato scritto alle cinque e mezza):

“Non voglio lavorare… La mia camera è in un disordine irrimediabile…
Sete di ordine: mettere ordine nella propria vita: piccoli mucchi, piccoli armadi, anni, uno dopo l’altro, ricordi in cumuli: certezza assoluta del passato appena passato; poi, ripassare…
Ancora una volta, fermati, accosta. Scrivi. Dì a te stesso che devi scrivere. Convinciti. Non aspettare.
Ho vissuto questi giorni con una specie di odio verso Roland Barthes. Per lui non esisto.
Sono un pagliaccio.
Non ho il diritto di reclamare un Roussel o un Queneau.
Eccetera. Eccetera.
Non sarò mai Leiris, mai Leiris mi leggerà.
Sono invidioso, sono cattivo; la gloria di Sollers (o di Le Clézio) mi impedisce di dormire.
Sono un coglione. Nessuna modestia; sono stanco.
Megalomania, narcisismo.
Non sopporto di essere guardato dall’alto in basso o ignorato; non sopporto di fallire; stavo meglio prima (prima di Les Choses); almeno ero nella lotta; avevo enorme potenziale; e ora?
Pazienza. Essere paziente”.

Georges Perec

Il libro è legato da un’introduzione di Maurice Olender – il quale, in sostanza, dichiara che siamo tutti sudditi in un regno ideato da Perec: “Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, Georges Perec ha inventato un universo potenziale che è diventato il nostro presente” – e puntellato da diversi studi. Perec –a sua disgrazia – è scrittore che si presta all’esegesi infinita. Tra i documenti più interessanti, spicca il carteggio con Indra Chakravarti, dal dipartimento di statistica della University of North Carolina, a cui Perec si rivolge per costruire un sistema matematico in grado di organizzare il suo lavoro, cartografando il puzzle delle possibilità, specie di Atlantide scritta.

Azzardo e azzeramento sembrano i termini di Lieux, letteratura che scoscende nel fallire. In verità, col fervore di un credo rituale e querulo – beata reminiscenza: Smoke, il film di Wayne Wang e Paul Auster, con Harvey Keitel che ogni giorno fotografa alla stessa ora lo stesso brandello di strada, senza altro intento che bloccare morsi di vita –, si tenta di capire cosa ci stiamo a fare qui, in questo tempo, su questo belato di terra, e che distanza c’è tra ricordo e cronaca, se le sensazioni hanno parchi o strade asfaltate. Un modo, insomma, di mettere una rosa nel bicchiere, al crocevia, sai che appassisce, ma che la sera abbia sentore di marcio ammette una qualche beatitudine.   

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