24 Agosto 2022

“L’amore insensato”. Marguerite Duras su omosessualità, incesto, passioni scandalose

Vivere con un omosessuale è impossibile, atroce.  

È il 2 agosto del 1981 ed è trascorso solo un anno dal coup de foudre con Yann Andréa, quando Marguerite Duras si confessa, per epistolari lamenti, con l’amica e collaboratrice Michelle Porte.

L’ingresso in scena di Yann Lemée – non ancora ribattezzato Andréa –, giovane studente di filosofia a Caen, risale infatti al 30 agosto di un anno prima, sul finire dell’estate, dopo un susseguirsi di giornate tramontate senza amore. Le aveva scritto per cinque anni, senza ottenere risposta. Invitato, infine, a incontrarla a Trouville, resterà al suo fianco per i successivi sedici, fino al 1996, anno della morte di lei, da cui riceverà come lascito il diritto morale delle sue opere, in veste di “esecutore letterario”.

L’estate del 1980 è il crocevia esistenziale e letterario della Duras. L’arrivo di Yann ne inaugura una nuova stagione narrativa. Giovane fauno di osservanza omosessuale, trentasei primavere in meno e bipolarismo congenito, Yann Andréa, con cui instaura una relazione appassionata e conflittuale, diventa per Marguerite l’amante, l’amico, il fratello. Lo plasma, come una creatura, pura argilla fra le mani, fondendolo con le figure che sono emblema della sua immaginazione.

Nelle opere durassiane irrompe quindi il mito della passione tragica. Il desiderio incestuoso tra un fratello e una sorella (Agatha), la passione scandalosa tra una giovane ragazza bianca e un cinese (L’amante), l’amore invivibile tra una donna e un omosessuale (La Maladie de la mort, Occhi blu, capelli neri, Yann Andréa Steiner).

Nei giorni a Trouville divampa l’idillio, durante il ritorno alla realtà parigina, invece, i primi scricchiolii di coppia. Ne scrive, così, Marguerite:

Michèle Porte c/o Marie-Pierre Thiébaut.

Valaurie. Les Bouillons. 84 220 Gordes

Parigi, 2 agosto [19]81

Cara Michelle,

vorrei riprendermi la stanza affittata a Marie-Pierre, mi serve per Yann. Non posso pagargli l’affitto con una caparra che sarebbe comunque molto più alta di quella di Mont-Tonnerre 10. Michelle, non posso fare altrimenti. Tendenzialmente, la cosa dovrebbe durare solo pochi mesi. Dopodiché, ovviamente, restituirò l’uso della stanza a Marie-Pierre. Se non mi separo da Yann finirò per morire molto più velocemente di quanto dovrei, e sarebbe un peccato. Potete lasciare lì tutte le vostre cose – è un uomo molto pulito e discreto, non preoccuparti. Digli solo come procurarsi la chiave. Io parto per New York, vorrei che tutto fosse sistemato prima del mio ritorno. Vi prego entrambe di capirmi: vivere con un omosessuale è impossibile, atroce – e al contempo affascinante – perché l’omosessualità è inconsapevole, è alterità, non conosce lei stessa il senso del termine, e nemmeno la sofferenza.

Non sarei voluta arrivare a tanto, ma ormai è tardi. Ti ringrazio di tutto, non ho altra scelta.

Con affetto,

Marguerite

Yann si trova in via Saint-Benoît 5, potete incontrarvi lì al suo risveglio, vale a dire dopo l’una. Vi supplico di comprendermi.

*

Le lettere inviate a Michelle Porte, dialogo ininterrotto durato trent’anni, dal 1966 al 1996  – pubblicate da Gallimard (2022) nel volume Lettres retrouvées – evocano l’intimità di Marguerite Duras alla maniera di un journal esteso tra i confini di una collaborazione artistica che sconfina in affettuosa complicità, ma sono anche diretta testimonianza del “laboratorio” letterario proprio di una scrittura che offusca i confini fra cinema e letteratura. Michelle dedicherà poi alla sua mentore le produzioni di Les Lieux de Marguerite Duras e Savannah Bay, c’est toi.

Dalla sinuosa corrispondenza fra le due, affiorano la genesi delle opere della Duras e gli instabili equilibri familiari – i rapporti con il figlio Jean “Outa” Mascolo, l’ex marito Dionys e quelli altalenanti con Solange, nuova moglie di lui. Si leva il côté di relazioni della scrittrice, dall’amicizia con Sonia Orwell, ultima moglie di George – a cui dedica Il rapimento di Lol V. Stein –, con Edgar Morin e Luc Moullet, fino alle vacanze sulla costa ligure con Ginetta ed Elio Vittorini – cui è dedicato, invece, il romanzo Les chevaux de Tarquinia. Non mancano l’abisso, con le cure di disintossicazione a Neully Sur-Seine, i numerosi viaggi e i lunghi periodi trascorsi a Trouville, all’Hôtel des Roches Noires, luogo di nodale importanza.

*

Già meta dei soggiorni di Marcel Proust, che vi alloggiò regolarmente negli anni Venti – appartamento 111, primo piano – ed eternato nelle sfumature di Monet, che lo ritrasse nell’estate del 1870, l’Hôtel des Roches Noires – appartamento 107 – è lo spazio in cui emergono, come meduse dai fondali marini della Normandia, le trame di seducente vischiosità delle opere di Marguerite Duras.

Ed è nella sua hall deserta e senza tempo, in un giorno di bruma invernale, che l’autrice ambienta il suggestivo Agatha et les lectures illimitées (1981), storia di incestuosa passione tra un fratello e una sorella, forse emersi da un amore appena consumato sulle gelide rive del mare, o solo sotto forma di arrendevole struggimento.

Nelle sequenze di Agatha – a cui l’INA (Institut national de l’audiovisuel) revocò ogni forma di finanziamento per la scabrosità del tema –, di cui la Duras si fa voce narrante, è rappresentata con spinosa maestria la rarefazione del desiderio, come quanto di più simile alla morte vi sia in vita.

«L’amore insensato che provo per lui rimane per me un insondabile mistero. Non so perché lo amassi al punto di voler morire della sua morte»

scriverà successivamente ne L’amante, rievocando il tema con lo choc provocato dall’improvvisa scomparsa del fratello – nella realtà, Paul Donnadieu, morto a causa di una malattia infettiva nel 1942, a Saigon, durante l’occupazione giapponese.

In Agatha, che è una sorta di epifenomeno dell’estate 1980, costui è interpretato dall’onnipresente Yann Andréa – mentre Bulle Ogier è Agatha, muta incarnazione della stessa Duras. Sul perché avesse scelto Yann per rappresentare il fratello amato da Agatha, Marguerite – in un’intervista riportata ne Le Livre dit. Entretiens de Duras film (Gallimard, “Les Cahiers de la NRF”, 2014) – risponde che senza il suo arrivo l’opera probabilmente non avrebbe mai visto la luce, in nitida coerenza con l’estetica durassiana, sempre sdoppiata nella fusione spazio-tempo e realtà-immaginazione. E nello stesso volume sono riportati i pensieri – sotto forma di interviste rilasciate a Yann o al figlio Outa – attorno ai suoi temi capitali, incesto, omosessualità, desiderio.

Credeva soprattutto nel proibito, Marguerite Duras, e nell’impossibilità di rappresentarlo.

***

M.D. «Il cinema si fa d’inverno. Vale a dire durante l’assenza, l’assenza stessa del soggetto, l’evasione stessa dalle condizioni del soggetto, ovvero dal calore, dalla facilità del vivere, da una specie di vacanza dell’essere umano, dal suo gioco. Solo in inverno si può testimoniare la felicità del vivere. È in inverno – quando è impossibile, quasi impossibile, appunto, accedere a questa facilità –, che la si può testimoniare. […] Agatha non esisteva, la villa di Agatha non esisteva. Ed è ora, in pieno inverno, che la storia di una vacanza estiva tra un fratello e una sorella, che l’incesto – visto che è un film sull’incesto – si è dichiarato tale; solo ora, in pieno inverno, posso darne testimonianza. Si giunge così a una contraddizione essenziale, a un paradosso essenziale del cinema. È attraverso la mancanza che diciamo le cose, la mancanza di vivere, la mancanza di vedere. È per mancanza di luce che evochiamo la luce, per mancanza di vivere che evochiamo la vita, per mancanza di desiderio che evochiamo il desiderio, per mancanza d’amore che evochiamo l’amore; credo sia una regola assoluta».

*

M.D. «Posso dire qualcosa su Agatha. Posso dire di avere avuto un fratello morto durante la guerra per mancanza di cure mediche – aveva ventisette anni, forse ventotto, morì in pochi giorni – e che per me fu talmente straziante che desiderai morire. Volevo uccidermi. Volevo uccidermi perché mio fratello era morto, era sconvolgente. Ci ho pensato per molto tempo e ci penso ancora, e ci ho ripensato, nuovamente, la scorsa estate; e all’improvviso ho capito che questo giovane fratello era stato per me un amore molto… appassionato, immenso. […] Non sapevo che si potesse amare un fratello con passione, eppure è possibile».

*

M.D. [Su Agatha] «L’amore tra un fratello e una sorella, non è rappresentabile. Hanno le sembianze di una coppia normale, di cui si dice: “Guarda, si assomigliano, che strano…”. Si potrebbe pensare che si tratti di una coppia normale, un uomo e una donna, come ce ne sono ovunque, sempre. Ma invece è una coppia incestuosa e nulla può testimoniare l’incesto, tranne… […] Voglio dire, non ci sono prove dell’incesto, della natura dell’incesto, un bel nulla. Quindi non è rappresentabile; non c’era bisogno di rappresentarlo».

Y.A. Non c’è una contraddizione tra il fatto che non sia rappresentabile e il volerlo ridurre in una sequenza di immagini?

M.D. Sì, ma è tale contraddizione ad essere rappresentabile. Ciò che mostro al cinema è proprio questo paradosso – dico sempre paradosso al posto di contraddizione, forse non conosco bene la differenza –, è proprio questa impossibilità quella che porto sullo schermo. È questo che fa il mio cinema; è bizzarro, ma è così. Mostro ciò che non si può mostrare, è questo che mi interessa».

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M.D. «Credo che nell’incesto ci sia tutto il desiderio, l’amore assoluto e che da qui fluisca tutto il resto. Che nella coppia, fra amanti, in quello che chiamano matrimonio – è una parola che io non uso mai –, ci sia forse una specie di tentativo di ritrovarlo. Un legame essenziale e insostituibile, come quello dell’incesto – inalienabile sarebbe il termine giusto – fra esseri dello stesso sangue. Solo fratelli e sorelle, e fratelli e fratelli, e sorelle e sorelle, hanno infatti lo stesso sangue. Non sono il marito e la moglie, non gli amanti, ad avere lo stesso sangue, ma solo i figli.

Y.A. Sì, ma non credi che la figura centrale dell’incesto, che è il proibito, sia proprio l’immagine dell’amore in quanto tale?

M.D. No… Perché oggi tutto tende a vietare il divieto. È un’epoca molto povera. E da quando non c’è più adulterio, non c’è più niente».

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M.D. «Questo genere di povertà, di terribile impoverimento del desiderio, dell’amore, ecc., del sentimento in generale, viene dalla liberalizzazione – così si chiama – dei costumi. Ma come contrastarla? Ormai è stato stabilito, a partire da Marx, che il progresso coincide con questa forma di liberalismo, con questa liberalizzazione. Io provo pietà per tutta questa gioventù che non conosce più la passione, che vive in totale povertà d’amore e desiderio; la compatisco moltissimo. È estremamente ridotta nelle sue forze. Forse è un modo per morire, per avvicinarsi gradualmente alla morte».

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M.D. «La consumazione del desiderio è comunque una questione secondaria. Quella principale, credo, sia il desiderio in quanto tale; il desiderio, anche il desiderio non vissuto. Il compimento del desiderio, in ogni caso, è una sorta di ritardo… sul desiderio stesso».

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Y.A. «Quindi, che cos’è il desiderio? Si trova tra la nascita e la morte? È forse la morte stessa?

M.D. Nessuno sa cosa sia. È un impulso di forza ancestrale di cui non conosciamo la natura. Quando Kierkegaard, in Timore e tremore, parla dell’impulso di Abramo – che sta per uccidere, che riceve da Dio l’ordine di uccidere suo figlio e che, nella più totale cecità, nel buio assoluto, è pronto a farlo, si intravede la causa di questa ingiunzione –, penso sia la cosa più prossima a ciò che chiamiamo desiderio. Ma si tratterebbe, in tal caso, di una nozione che muore con la morte dell’umanità.

Y.A. Sì, ma allo stesso tempo, il desiderio è inevitabilmente colpito dalla mortalità, sei d’accordo?

M.D. No, assolutamente no. Il desiderio non ha natura mortale.

Y.A. Ma neanche natura immortale.

M.D. È di natura immortale, lo è eccome… Quando muore, diviene immortale. O muore in piena immortalità, o non è niente.

Y.A. Muore in piena immortalità?

M.D. In piena immortalità, sì. L’aspetto molto triste dell’omosessualità, ad esempio, è la mancanza di questa possibilità, di morire vivi.

Y.A. Non vedo bene il nesso…

M.D. Sì! Credo – opinione del tutto personale – che il desiderio sia uno scambio impossibile fra sessi diversi; tra sessi inconciliabili, quindi femminili e maschili. Che il desiderio, lo splendore del desiderio, la sua immensità, si manifesti tra sessi di natura diversa; e che la sua morte, la sua immensa limitatezza, dimori nell’omosessualità. […] L’omosessualità non esiste, è un modo per sostituire l’amore».

*

M.D. «Il punto in cui l’immaginazione raggiunge le sue vette, è nella differenza sessuale. È qui che non ci si può incontrare, tra uomo e donna. […] L’omosessualità è una relazione masturbatoria, non è altro che una relazione masturbatoria tra uomini. Mentre nell’eterosessualità si cerca di raggiungere l’impossibile. […] È masturbazione, l’omosessualità. Mentre l’eterosessualità è una specie di tentativo impossibile! È come voler raggiungere la dualità del desiderio. […] L’omosessuale, donna o uomo che sia, inoltre, è una soluzione. Mentre nell’eterosessualità non c’è soluzione. Uomo e donna sono assolutamente inconciliabili e l’impossibilità di questa conciliazione che ne rappresenta la grandezza, lo splendore, l’immensità».

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