08 Agosto 2023

“Mio caro Zadig, sono un cagnolino proprio come te”: la lettera di Marcel Proust a un bassotto

Le lettere di Marcel Proust al compositore Reynaldo Hahn, curate da Philip Kolb per Gallimard nel 1956[1], dischiudono mondi di grande interesse sull’autore della Recherche.

L’epistolario conta centosettantadue lettere che vanno dal 1894 al 1915, con un’interruzione dal 1897 al 1903, anche se la corrispondenza di Proust conferma la continuità dei suoi rapporti con Hahn in questo periodo – successivo alla rottura sentimentale – e fino alla sua morte, nel 1922.

Come piccole istantanee di vita, quelle lettere sono una testimonianza unica sulla compensazione dello spirito tra due artisti di genio, legati dapprima da un grande amore che poi divenne un’originale amicizia amorosa, una fratellanza nutrita da un’intesa umana fuori dal comune. È interessante, ma soprattutto commovente, vedere come Proust si ingegni a “provocare il sorriso” di Reynaldo, un’autentica attitudine esistenziale che sottace un grande senso di responsabilità ed altruismo (di solito, chi si adopera a generare gaudio ed ilarità negli altri è profondamente altruista).

Leggendo le Lettres à Reynaldo Hahn dal 1904 in avanti, si è investiti da una sensazione di completezza e intimità: quella di chi si è “ritrovato” dopo aver rotto e vive nella continuità di una vecchia fiamma, avvolto da uno stato di confidenza, empatia e leggerezza.

Non potendo leggere le risposte di Reynaldo, ci dobbiamo riferire alle sole lettere di Marcel. Emerge un tono burlesco, comico e satirico: un libro per bambini pare in certi punti. Proust disegnava tantissimo per divertire Reynaldo. E il linguaggio è particolarissimo, fatto di abbreviazioni, nomignoli, deformazioni lessicali: il c.d. langsgage, idioma bizzarro che Proust prende ad utilizzare come lessico familiare, intimo ed esclusivo, quasi infantile, tra lui e Reynaldo, non senza raccomandargli di non mostrare ad altri quelle “bininulseries che, ti assicuro, non potrebbero che renderci ridicoli persino verso i più benevolenti”.

Per nostra fortuna, Reynaldo disattese quella raccomandazione, permettendoci di leggere oggi le lettere che Proust gli indirizzò, consapevole del loro eccezionale valore per comprendere la personalità e la vera indole dello scrittore. Quelle lettere ruotano attorno ad un’amicizia e ad una vita che a loro volta ruotano attorno ad un’opera – una cattedrale del tempo – e alle sue misteriose sorgenti creative.

Come è noto, dopo un’estenuante vita mondana, nel luglio del 1910, Proust commissiona il celebre rivestimento di sughero delle pareti della sua stanza da letto al 102 di Boulevard Haussmann dove si reclude in una feroce solitudine. Un anno dopo, alla fine del 1911, indirizza una lettera singolare, commovente e sconvolgente al tempo stesso, in perfetto stile proustiano, al cane di Reynaldo Hahn[2]:

“Mio caro Zadig[3]

Ti voglio tanto bene perché hai molto [beauscoup] dispiacere [chasgrin] e amore per stessa persona che me; e non potevi trovare di meglio nel mondo intero. Ma non sono geloso che lui stia di più con te, perché è giusto e tu sei più infelice e più amorevole. Ecco come lo so, mio gentile cagnolino [genstil chouen]. Quando ero bambino ed ero triste per dover lasciare la Mamma, o per partire in viaggio, o per andare a letto, o per una ragazza che amavo, ero più infelice di oggi, prima di tutto perché come te non ero libero, come lo sono oggi, di distrarmi dal mio dolore e mi chiudevo in esso, ma anche perché ero prigioniero della mia testa dove non vi erano idee, ricordi di lettura, progetti in cui rifugiarmi. E così sei tu, Zadig, tu non hai mai fatto letture e non hai idee. E devi essere molto infelice quando sei triste. Ma sappi questo, mio buon piccolo Zadig, che quella specie di cagnolino [chouen] che io sono proprio come te, può dirti e dirti perché lui è stato uomo e tu no. Questa intelligenza ci serve solo a sostituire quelle impressioni che ci fanno amare e soffrire, con simili impressioni indebolite, che causano meno dolore e meno tenerezza. Nei rari momenti in cui recupero tutta la mia tenerezza, tutta la mia sofferenza, è perché non sento più secondo quelle false idee, ma secondo qualcosa che è simile in te e in me, mio piccolo cagnolino [chouen]. E questo mi sembra talmente superiore a tutto il resto che è solo quando torno ad essere un cane, un povero Zadig come te, che comincio a scrivere, e solo i libri scritti così sono quelli che amo. […] Caro Zadig, siamo entrambi vecchi e malati. Ma vorrei venirti a trovare spesso, affinché tu possa avvicinarmi al tuo padroncino invece di allontanarmene. Ti bacio con tutto il cuore e manderò al tuo amico Reynaldo il tuo piccolo riscatto.

Il tuo amico

BUNCHT”

*

Attraverso Zadig, tra le righe, Proust dice a Reynaldo che, piuttosto che un uomo, vorrebbe essere un cane e, come tale, amarlo senza i limiti degli esseri umani, allenati a sopire il loro più autentico sentire, concentrati sulla sopravvivenza, attenti ad alleviare il proprio dolore…

Chi ha avuto l’opportunità di rischiarare parte della propria esistenza alla luce dell’amore incondizionato di un cane, sa bene intendere questa lettera, che Marcel Proust rivolge a Zadig. Gli altri possono tentare di farsene una rappresentazione; ma forse il modo migliore per approssimarsi ad intendere il significato di quell’amore senza averlo vissuto è quello di osservare un cane alle prese con un padrone che noi stessi abbiamo amato dell’amore più profondo, maturo e intenso di cui siamo capaci, come essere umani: perlomeno, quel precedente (o attuale) sentimento ci disporrà meglio – e in modo disinteressato – ad apprezzare tutto ciò che di amorevole ruota a quella persona. È proprio in questa condizione che si trova Proust quando scrive la lettera a Zadig ed il suo possiamo dunque considerarlo un punto di vista privilegiato.

Reynaldo Hahn (1874-1947) fotografato da Nadar

Proust vede in Zadig la possibilità di seguire l’istinto in modo diretto, affrontando la massima gioia e la massima pena con egual impeto, senza risparmiarsi alcunché. Per differenza, lo scrittore getta un’occhiata opaca sull’uomo, creatura che usa l’intelligenza per lenire i propri dolori ed apprendere le migliori strategie per difendersi dalla crisi perenne in cui la vita lo trattiene. Quella forma di difesa, quel sentire mitigato, gli impediscono di essere attraversato pienamente dalla gioia e dal dolore originario a cui è predisposto.

La conseguenza che Proust imputa alla strategia umana è semplice da intendere: meno sofferenza nei momenti difficili corrisponde a meno gioia nei momenti lieti. Queste emozioni mitigate corrispondono, a loro volta, a minor amore – dato e ricevuto. Ed è lì, dove l’essere umano difetta, dove si ritrova intrappolato nella sua stessa  tattica difensiva, che la potenza del riferimento animale acquisisce la maggior forza: il cane – da sempre per l’uomo – è la rappresentazione vivente di come la virtù di non portar mai rancore e di conservare sempre la miglior disposizione verso l’oggetto del proprio amore conduce all’unico universale (e possibile) equilibrio con le forze violente della natura. L’animale, infatti, nel suo incondizionato atteggiamento, acquisisce uno scopo primario – nell’amore e nella dedizione – che lo protegge dalla fragilità dell’intenzione e dal timore della sofferenza – e della morte. L’uomo, intrappolato nel paradigma volontaristico, detiene una scelta costante che non si dimostra solo inutile, di fronte alle ineludibili leggi della vita, ma lo interroga e lo sottopone di continuo alla tentazione di sviare altrove la sua attenzione.  

Questa libertà – falsa e predicata – finisce per infragilire l’uomo di fronte ad una natura che funziona secondo meccanismi semplici e lo costringe, nel confronto con l’animale, a prendere atto di una qualità suprema che in questo esiste e che non troverà mai né in se stesso, né nei suoi simili.

Tuttavia, in questo quadro, Proust indica forse un’occasione di redenzione. Il padrone di un cane, per il solo fatto di aver trovato quell’esperienza sulla propria strada, va incontro ad un singolare destino, che sta nello sviluppare verso il proprio amico un affetto e una dedizione totali, di cui gli uomini, tra loro, non sono capaci. La non condizionalità dell’animale, che si lascia attraversare sempre e senza limiti da ogni moto dell’animo, finisce per agire sull’uomo, trasformandolo in qualcosa che non sa essere, se non per secondo.

Il cane è il primo ad amare il suo padrone. Questi reagisce con eguale amore, ma come risposta a qualcosa che solo il cane sa inizialmente donare. L’uomo è consapevole di quella priorità e della superiorità affettiva del suo amico, perché ne è irradiato.

In questa lettera, Proust osserva il legame del cane con l’uomo e forse per questo il suo punto di osservazione è ancora più interessante. Il legame di amore incondizionato tra cane e uomo supera le barriere della malizia umana ed è talmente evidente e semplice, nel suo estrinsecarsi, che non può essere ignorato. Probabilmente Proust sarebbe stato geloso di qualunque uomo nella posizione di Zadig, mentre di Zadig non lo è affatto. Questo è un altro aspetto singolare: l’uomo che si confronta con la limpidezza e la spontaneità della natura non riesce a contaminare le sue rappresentazioni con il filtro di osservazione che applica abitualmente alle vicende umane.

La tenerezza con cui lo scrittore guarda alle pene del bassotto all’inizio della lettera sembra in realtà una pura ammissione di inferiorità: tra l’uomo e il cane, la scelta d’amore si risolve nel senso favorevole al secondo “perché è giusto e tu sei più infelice e più amorevole”. L’osservazione della natura qui rappresentata non è priva della (necessaria) amarezza. Il cane, nella pienezza delle sue emozioni, merita ciò che l’uomo non può meritare; l’uomo, dal canto suo, oltre a perdere l’amore e la gioia che un cane può provare e suscitare, riflette questa sua attitudine alla difesa e all’approssimazione anche verso la  sua opera intellettuale. Inteso il punto di osservazione di Marcel Proust, si comprende bene il motivo per cui, quando tutta la tenerezza e la sofferenza, non offuscate da false impressioni, ci attraversano completamente, allora lì, in quel momento, possiamo essere autentici. E scrivere libri autentici, quelli che si spingono verso una dimensione infinitamente più alta, “talmente superiore a tutto il resto”, da innalzare la scrittura all’amore disinteressato e grandioso di un cane.

Ogni senso di superiorità dell’uomo si disfa nella frase: “È solo quando torno ad essere un cane, un povero Zadig come te, che comincio a scrivere, e solo i libri scritti così sono quelli che amo”. La superiorità della natura si eleva qui ad un tale livello da ispirare l’azione umana in direzione contraria a quella che usualmente imbocca. Forse in quel verbo “tornare… ad essere un cane” Proust fa riferimento al tempo dell’infanzia o a quello dell’amore totalizzante per Reynaldo, a quelle condizioni esistenziali che pongono l’uomo in piena sintonia con la sua natura, che fanno cadere le barriere e che gli permettono si essere attraversato dalla piena vita e dalla piena ispirazione: solo così nascono le opere più vere, vette massime ed ineguagliate dello spirito umano.

*

Siamo alla fine del 1911 e il cuore pulsante della lettera a Zadig si intreccia con la precedente lettera a Reynaldo, scritta da Cabourg nell’estate 1911[4]: Sto scrivendo un opuscolo/Per cui Bourget scende/E Boylesves declina [5]. Quell’“opuscolo” – che alla fine consisterà in un’opera monumentale di sette tomi – era il primo volume della Recherche. 

Marilena Garis e Riccardo Peratoner


[1] Marcel Proust, Lettres à Reynaldo Hahn, présentées, datées et annotées par Philip Kolb, préface d’Emmanuel Berl, Gallimard, Paris, 1956.

[2] Ibidem, Lettera CXXXVIII, pp. 215-216. La lettera è attraversata dalle deformazioni lessicali del langsgage, che si riportano nel testo in francese, tra parentesi.

[3] Bassotto a pelo lungo, che doveva essere un regalo di Proust a Reynaldo (alla fine della lettera egli dice infatti che manderà il denaro), Zadig morirà durante la Prima guerra mondiale. Cfr. Marcel Proust, Lettres à Reynaldo Hahn, cit., Lettera CXXXVI, p. 211, nota 2.

[4] Marcel Proust, Lettres à Reynaldo Hahn, cit.,Lettera CXXXVII, p. 214.

[5] Quell’estate, Proust aveva incaricato Miss Hayward, dattilografa al Grand Hotel di Cabourg, di ricopiare il volume Du côté de chez Swann e cominciava a rendersi conto dell’originalità dell’opera che aveva in mente, del tutto diversa dai romanzi tradizionali di un Paul Bourget o di un René Boylesve. Cfr. Ibidem, p. 214 note 3 e 4.

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