19 Maggio 2018

“Vuole diventare un grande scrittore? L’importante è non fare figli”. Insieme a Michael Chabon cerchiamo di risolvere il più atavico dei dilemmi

Prima o poi tutti si fanno la stessa domanda. Scomoda. Perché ho messo al mondo dei figli? Risposta borghese: perché così si fa. Risposta frustrata: è la patente dimostrazione che ce l’ho duro. Risposta regale: per perpetuare la stirpe (ma le stirpi, oggi come oggi, vanno sterminate più che perpetuate in modo petulante). Risposta teologica: perché sono cattolico e Dio ha detto crescete e moltiplicatevi. Risposta pornolatrica: per farmi mia figlia, novello Marchese de Sade. Risposta mistica: per farmi uccidere da loro (i quali, i figli, ci uccidono semplicemente ignorandoci). Io, devo dire, non ho avuto modo di farmi alcuna domanda. Ho reso gravida la madre dei miei figli senza volerlo. Non che non sapessi come si fanno i figli, è chiaro. Il secondo figlio. Idem. Forse al posto dello sperma, penso, è intervenuto lo Spirito santo. Ad ogni modo, affari miei. Il problema dei figli si fa multiplo se sei uno scrittore. La vita di famiglia, infatti, è dura, faticosa, sottrae tempo. E alle leggende virtuose – quella legata a Raymond Carver, che ha scritto racconti, così si narra, perché i figli non gli permettevano dimensioni diverse – chi ci crede. I figli vampirizzano lo scrittore, ne annientano il genio. Si dice. Sul tema ha scritto un pezzo spassoso Michael Chabon, che è uno degli scrittori americani più conosciuti del pianeta, 55 anni in questi giorni (24 maggio), un Premio Pulitzer per il romanzo più noto, Le fantastiche avventure di Kavalier e Klay, due libri tradotti da Rizzoli lo scorso anno (Sognando la luna e Summerland), ha fatto il tifo per Obama, detesta Trump, si è sposato due volte e con la seconda moglie, Ayelet Waldman, scrittrice, ha avuto quattro figli: Sophie, Ezekiel Napoleon, Ida-Rose, Abraham. Su GQ, Chabon va direttamente al sodo scoccando la domanda, Are Kids the Enemy of Writing? In effetti, lo scrittore è creatura autarchica e bastarda, che dà la vita sulla carta perché non vuole avere viventi tra le palle, che scrive con la medesima vitalità con cui si uccide. Chabon racconta un episodio. “Ero da solo, in compagnia di uno scrittore che ammiravo, sulla sporgenza della casa dove ero ospite, lungo il fiume Truckee. La gente andava e veniva con bicchieri di vino messicano e bottiglie di birra. L’uomo mi attirò a sé. ‘Ti do un consiglio’, mi fa, con una voce greve… ‘Non avere figli’, mi disse. ‘Questo è quanto. Non fare figli’. Il sorriso svanì, ne restò il fantasma nei suoi occhi azzurri. ‘Questo è il cuore della legge… Puoi scrivere grandi libri. O avere dei figli. Scegli’”. Pare la visione di un satana. Segue una grottesca gragnola di nomi: Poe non ha avuto figli. Neanche Samuel Beckett. Né Virginia Woolf. Né Anton Cechov. Neppure Flannery O’Connor. Quando Michael Chabon tenta di ribattere. Ma Thomas Mann ne ha avuti sei… il tizio s’esalta, “Thomas Mann! Ma Thomas Mann si chiudeva nella sua stanza. Ogni giorno. Per ore. Ai suoi figli era proibito disturbarlo, pena la morte. I figli erano per lui un disturbo. Quando lavorava, poi, erano una sofferenza. Insomma, la domanda che devi farti è: che tipo di padre vuoi essere?”. Il gioco, in effetti, pare infinito, sfiancante. Lev Tolstoj ha avuto tredici figli, Dostoevskij ne ha avuti quattro, ma Franz Kafka non ne aveva. James Joyce ha avuto due figli, Marcel Proust nessuno; William Faulkner ha avuto una figlia morta dopo pochi mesi e un’altra che è morta nel 2008 mentre Hemingway ha avuto tre figli, uno è ancora vivo, compie 90 anni tra un mese, si chiama Patrick; d’altronde, anche uno scrittore corrosivo come Michel Houellebecq ha figliato, persino Céline ha avuto una figlia, Colette, mentre l’austero Paul Valéry, che pare senza macchia e senza sesso, di figli ne ha avuti tre. Michael Chabon conclude il suo racconto, voluttuosamente tragicomico, con frasi di patetica bellezza – tipicamente ebraica. “Morirò; e il mondo con la sua violenza e serenità continuerà a girare nell’infinita indifferenza dello spazio, e ci vorranno un centinaio di giri intorno al sole per trasformare quei sei che si amano in cenere, e consegnare all’oblio pressoché tutte le migliaia e migliaia di romanzi e di racconti scritti e pubblicati durante la nostra vita. Se nessuno dei miei libri resterà nella luce perché ho concesso ai miei figli di rubarmi il tempo, di restringere il mio spazio, di limitare la mia libertà, sarò felice lo stesso. Una volta scritti i miei libri, a differenza dei miei figli, non mi meravigliano più; nessun mistero resiste in loro. A differenza dei miei figli, i miei libri sono crudelmente spietati con le mie debolezze, i miei fallimenti, i miei difetti. Soprattutto, i miei libri, a differenza dei miei figli, non mi amano. Ad ogni modo, non posso sapere se tra cento anni i miei libri saranno ammuffiti e dimenticati. Questo è il problema se ti giochi tutte le carte sulla posterità: non ti fermi abbastanza a lungo per godere di essa”. E vissero felici e contenti. Il fatto è che il problema è un falso. Gli scrittori scrivono. Ubriachi o salutisti. Con o senza figli. Non c’è la ricetta per il genio: chi è in cerca di ricette non è uno scrittore – è un affarista come tutti. I figli, in fondo, per uno scrittore, sono come foglie, sono come tutto il resto. Materia letteraria. Quando gli dai il bacio della buonanotte sei un bravo papà; quando scrivi sei il solito stronzo per cui tra figli, mosca e piramide di sabbia non c’è differenza. (d.b.)

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