Dentro di noi abita un selvaggio… Sul libro di Marie-Louise von Franz
Stili di vita
Clery Celeste
Discorso sul digiuno e sull’“artista della fame”
L'Editoriale
Probabilmente è lì, nel 1955, che si dirimono le sorti della letteratura recente. A cena. Witold Gombrowicz è in Argentina dal 1939. Ci capita per caso. Poi la Germania azzanna la sua Polonia. E Witold decide di restare lì, all’altro capo del mondo, ipotizzando, da equilibrista, una vita sul filo della povertà. In Argentina, Gombrowicz, che ha da poco pubblicato Ferdydurke, vivrà fino al 1963, scrivendo, tra l’altro, Trans-Atlantico e Pornografia; redige, soprattutto, il suo fantomatico, fantastico “Diario” – in Italia lo stampa Feltrinelli. Nel 1955, appunto, Gombrowicz è invitato a una cena dove conosce l’“Argentina intellettuale, estetizzante, filosofante”: incontra Victoria Ocampo (“un’anziana aristocratica signora piena di milioni, la cui entusiastica ostinazione l’aveva portata a diventare amica di Paul Valéry”), Adolfo Bioy Casares, e Jorge Luis Borges, soprattutto. Capisce, anzi tutto, che quella è letteratura morta, ammorbata dalla ‘cultura’, mortificante, ‘parigina’, spacciata. Proprio lì, nel contrasto tra Gombrowicz – scrittore del disordinato e del grottesco, del deforme e del mostruoso, dell’eccesso e del pensiero – e Borges – lucidità, forma impeccabile, enigma – si snodano due sentieri possibili alla letteratura ‘postmoderna’, post-tutto. Ora. L’anno prossimo saranno i 50 anni dalla morte di Witold Gombrowicz, e a Buenos Aires stanno allestendo “tra il 12 e il 18 agosto 2019 il più grande convegno su Gombrowicz al mondo”. L’evento ha come cuore la Biblioteca Nacional di Buenos Aires, che fu diretta, proprio dal 1955, da Jorge Luis Borges. Gli argentini si sono preparati per tempo: intorno al “Congreso Internacional” è già sorto un sito internet pieno di belle cose e di informazioni. “L’evento, che coincide con i 50 anni dalla morte di Gombrowicz, ospiterà esperti da tutto il mondo a Buenos Aires, protagonisti di incontri gratuiti”. In Italia, l’attenzione editoriale verso Witold Gombrowicz – sempre desta, per fortuna – si è riacutizzata grazie a Il Saggiatore, che sta ristampando i grandi libri del gran polacco. Dopo Cosmo e Kronos, dal 6 dicembre torna in libreria Pornografia con un bel saggio di Francesco M. Cataluccio. Ne pubblichiamo, a mo’ di invito alla lettura, un brandello, in cui si racconta una gita in Chiesa, in piena liturgia.
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Ma ormai era fatta. Ormai si era innescato un processo di messa a nudo della realtà… Per primo scomparve il concetto di redenzione: nulla avrebbe più potuto redimere quei grugni rozzi, fetenti, ormai spogliati di ogni parvenza di santificazione e serviti crudi come scarti di macelleria. Non erano più il «popolo», non erano più i «contadini», non erano più neanche la «gente»: erano quello che erano e niente più… la loro sporcizia non era più benedetta dalla grazia. Ma all’anarchia selvaggia di quella marea di teste fulve corrispondeva la sfrontatezza, non meno arrogante, delle nostre facce, che avevano smesso anche loro d’essere «signorili», «colte» o «distinte» per diventare qualcosa di clamorosamente identificato con se stesso, caricature senza un modello: non caricature di «qualcosa», ma caricature pure e semplici, spoglie come un didietro! E le esplosioni delle due deformità, la signorile e la plebea, si fondevano nel gesto del prete che celebrava… che cosa celebrava? Che cosa? Niente. Ma c’era dell’altro… La chiesa non era più una chiesa. Si era proiettata nello spazio, ma in uno spazio cosmico, nero, e la cosa non avveniva sulla Terra, casomai era la Terra a trasformarsi in un pianeta sospeso nell’universo. Il cosmo diveniva tangibile, ci stavamo dentro: tanto lontani che la luce dei ceri e persino quella del giorno, filtrata dalle vetrate, era diventata nera come la notte. E dunque non stavamo più né in chiesa né in quel villaggio e nemmeno sulla Terra bensì (conformemente alla realtà, sì, conformemente alla verità) sospesi in un punto X del cosmo, con i nostri ceri e le nostre luci; e lì, nell’infinito, mettevamo in scena quelle strane manovre con noi e tra noi, come una scimmia che facesse le boccacce nel vuoto. Era un curioso modo di irritarci, là, nella galassia, una provocazione umana nelle tenebre, un gesticolare strampalato nell’abisso, una serie di smorfie nelle sconfinate distese astrali. E a questo affondare nello spazio corrispondeva un tremendo potenziarsi della concretezza: eravamo sì nel cosmo, ma anche spaventosamente definiti, precisati in ogni minimo particolare. Suonò la campanella dell’elevazione. Federico si inginocchiò di nuovo. Fu la botta definitiva, il colpo di grazia alla bestia sgozzata: la messa proseguì, ma ormai ferita a morte e vaneggiante come un ubriaco. Ite, missa est. O giubilo, gaudio, soddisfazione! Vittoria, vittoria sulla messa! Sentivo quella liquidazione come un traguardo lungamente agognato: eccomi finalmente solo, io solo, senza niente e nessuno oltre a me, io solo nell’oscurità più assoluta… Avevo toccato il mio estremo, avevo raggiunto le tenebre! Amaro limite, amaro gusto del compimento e amara meta! Tutto amaro ma non privo di quel qualcosa di superbo e di vertiginoso che contrassegnava l’inesorabile maturità dello spirito diventato autonomo. Nel contempo provavo anche la sensazione tremenda di non aver sostegni e di trovarmi in preda a me stesso come in mano a un mostro capace di farmi di tutto, di tutto, di tutto! Aridità dell’orgoglio. Gelo della radicalità. Austerità e deserto. E allora? La funzione volgeva al termine, mi guardavo attorno stanco e insonnolito: che noia uscire, tornare fino a Powórna su quella strada sabbiosa… Quand’ecco che lo sguardo… gli occhi… Occhi in tumulto e pesanti. Sì, qualcosa mi attirava l’occhio… gli occhi. Irresistibilmente, seduttivamente… sì. Che cosa? Che cosa li attraeva, che cosa li tentava? Un senso del meraviglioso, come i luoghi velati che in sogno vagheggiamo senza riuscire a scoprirli e intorno ai quali giriamo con un grido che non trova modo di uscire, trafitti da una nostalgia divorante, lancinante, estatica, felice. Così mi ci aggiravo attorno ancora turbato, perplesso… ma già deliziosamente pervaso da una sottile irresistibilità che travolgeva, seduceva, estasiava, incantava, tentava e soggiogava, sprigionava musica; e il contrasto tra il gelo cosmico di quella notte e quella fonte sprizzante voluttà era così incommensurabile da farmi pensare confusamente: Dio e miracolo! Dio e miracolo!
Witold Gombrowicz
*da “Pornografia”, Il Saggiatore 2018, trad. it di Vera Verdiani