Per le risorte edizioni Theoria tornano in scena due romanzi di Franco Cordelli, eminente critico teatrale, storico della letteratura, saggista, soprattutto scrittore. I romanzi sono “Procida” (uscito in origine per Garzanti, nel 1973, poi ‘riscritto’ per l’edizione Rizzoli, 2006) e “Guerre lontane” (in origine: Einaudi, 1990). Per gentile concessione pubblichiamo la postfazione di Andrea Caterini a “Procida”, che s’intitola “Procida, o il progetto di un’opera”.
Procida, il primo romanzo di Franco Cordelli pubblicato da Garzanti nel 1973 (poi ristampato da Rizzoli nel 2006, ed è quest’ultima edizione che qui riproponiamo per le motivazioni date dall’autore in «Ritorno a Procida»), è un luogo comune. Difficile infatti trovare un’isola più letteraria di Procida. Quella di Arturo, naturalmente, che poi significa quella dell’infanzia, della sua esplosione vitale (dico dell’eccitazione, del desiderio) e della sua successiva disarticolazione. Elsa Morante aveva visto lì, in quel luogo magico, non altro che lo spazio di un segreto, di uno scrigno che andava scardinato: l’innocenza e, di conseguenza, con l’apertura del baule, la sua perdita, ovvero una scatola vuota. In questo non lontana dall’idea di isola stevensoniana. Di nuovo la magia, l’infanzia, l’avventura sentimentale, l’eterno scavalcamento di una fase della vita, la dialettica tra sogno e realtà, illusioni e verità raccontate su uno stesso piano narrativo (l’illusione, quindi l’infanzia, che è necessaria per scoprire la verità). Appunto, l’isola come formazione, come romanzo, come letteratura. Ma a Franco Cordelli cosa interessa di tutto questo? Lui, che ha per l’infanzia, sembrerebbe, un rifiuto, un rifiuto riscontrabile in tutta la sua opera, che rifiuta l’infanzia perché non crede nella paternità, e di conseguenza neppure nell’innocenza e nella fecondità; a lui che a ben vedere neanche l’adolescenza interessa, nessun passaggio da stadio larvale a stadio mentale; lui che è tutto preso dall’articolazione – mentale, certo, e quindi sintattica –, cosa ci fa su un’isola se non per spargervi il seme di un’insensatezza, se non per decostruirne la forma, per sventrare, volontaristicamente, un sistema – un sistema di forme (la formazione, il romanzo, la letteratura)? Ma se quell’isola è il luogo comune della letteratura, fosse pure della letteratura tradizionale, di un romanzo che segua ideologicamente, e quindi ciecamente una trama, che ha fede nel destino, se quell’isola è insomma, della letteratura, il luogo simbolico, Cordelli è come avesse cercato una roccaforte, un cavallo di Troia, per fare breccia all’interno di essa. Lui, o il personaggio che si attribuisce, il personaggio che dice «io» – il solo che non sia un fantasma (la moglie, un’amante, Amelia, la «versificatrice», la mediocre poetessa lasciata a Roma, dopo un infecondo rapporto orale, o la figlia che ancora deve raggiungerlo insieme a tre suoi amici – una compagnia teatrale, o la ambigua manifestazione della sessualità), che non sia un’allusione, che non sia appena uno specchio di se stesso – è chiuso in una casa disagevole (un tavolo rotto, le coperte del letto perennemente inumidite, un topo o il sospetto di una tana di topi, una linea di formiche che attraversa il perimetro delle stanze), ed è capace, da quella casa, solo di cogliere i segni che quel simbolo (o quello stato simbolico) possano mettere a repentaglio. Vivendo una casa e non l’isola veramente – una casa che è nell’isola ma dalla quale non esce, o dice, anzi scrive nel suo diario di uscire, ma pare che quell’uscita non arrivi mai a trasformarsi in un’azione effettiva –, è come si fosse posto dentro e allo stesso tempo fuori da quel simbolo (infatti, se il simbolo che si vuole spezzare, la letteratura, il romanzo tradizionale, è, appunto simbolicamente, un padre, il diarista che scrive è egli stesso padre; ma la sua paternità è infeconda – come si opponesse a quel primo simbolo con un altro simile ma non identico). Lui cerca la simmetria di un’insensatezza, il disegno di un vuoto (in qualche modo incarnando egli stesso un nulla devastatore), la traccia del tumore di quella secolare bufala che è la letteratura – quel sospetto di tumore che potrebbe essere pure l’altro segno di cui parla, ovvero un’ernia che è fuoriuscita sull’inguine (e che pure ritroveremo in Una sostanza sottile, l’ultimo romanzo di Cordelli, che con questo sembra chiudere un cerchio, un progetto, composto da otto romanzi, più o meno meditato); un’ernia che la si percepisce solo spostando il cazzo, un segno, quindi, che si pone come materia fisica, che esplode non già da fuori, dal luogo simbolico, ma da dentro (come se quello stato simbolico in qualche modo gli appartenesse, fosse la malattia dalla quale cerca di liberarsi) e che mette in pericolo la propria stessa potenza (il sesso), la propria stessa volontà di distruzione, che testimonia l’impossibilità di una fecondazione: insomma, la paura di un’impotenza, che è poi la paura stessa di vivere.
Eppure, della nascita del suo primo libro, del suo primo romanzo dichiara in un’intervista: «Procida nacque precisamente da questo ragionamento: ma perché mi sono tanto complicato la vita? Per poter tornare a scrivere devo ricominciare da capo. Devo scrivere come fossi un bambino. Come se – una poetica che oggi formulata così mi ripugnerebbe – scrivessi un sillabario. Come i bambini che scrivono il diario. Ecco, sì, scrivo un diario». Dunque l’infanzia non è totalmente esclusa dal suo campo d’indagine. Non si tratta del racconto di un’infanzia, però; nessun mito d’innocenza appunto. L’infanzia è solo quella di chi racconta, di chi scrive e dice «io», di chi prende parola sublimandosi, o tra- scendendosi. Ma è un’infanzia per così dire indotta, non già venerata: è un’infanzia capace di uccidere, o che lotta con se stessa. Ed è pure un’infanzia che in quanto tale è infeconda, che per natura non può fecondare.
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Così come per Gombrowicz (nume tutelare del primo Cordelli, se anche al cane procidano, come ad altri animali nei libri successivi, assegna il nome dello scrittore: Witold; del resto, in uno scritto posto a commento della pubblicazione delle sue quattro opere teatrali, Diderot Dondero, Cordelli scriveva: «In ogni modo, per prudenza, per eleganza, per necessità, cominciava ad agire il modello flaubertiano-avanguardistico che per me, a quel tempo, intorno alla metà degli anni sessanta, s’incarnava in uno scrittore già remoto o leggendario, Witold Gombrowicz»), anche per il Cordelli esordiente la realtà è un fenomeno, un sistema di segni che mentre lo si osserva, o lo si nota, si comprende pure che è già un giudizio, un’interpretazione – la linea della formiche, l’apparizione di un topo, l’ernia, il cazzo, il cadavere di una donna ritrovata riversa sulla spiaggia di cui viene sospettato, infine, lo stesso diarista, e non è neppure detto che non sia davvero lui l’artefice dell’omicidio, visto che, fedele all’insensatezza, capita che spari a vuoto, dal balcone di casa, alcuni colpi di fucile –, se è vero quanto nota Roland Barthes nei Saggi critici, ovvero che «il segno non è soltanto l’oggetto di una conoscenza particolare, ma anche l’oggetto di una visione».
Ma si diceva dell’infanzia. Nell’intervista citata abbiamo letto che aveva sentito la necessità di tornare a scrivere come i bambini un diario, cioè qualcosa che potremmo dire di assolutamente personale e intimo, forse di primitivo. Ma cosa c’è di tanto intimo in Procida? E non è esattamente proprio l’assenza di esperienza, o la sua volontaristica rinuncia alla possibilità di una narrazione della stessa, la cosa che maggiormente impressiona? (O forse, la sola esperienza a cui Cordelli guarda è quella dei fenomeni, cioè di come le interpretazioni siano esse stesse visioni). L’infanzia, o la «giovinezza», per stare al lessico di Gombrowicz, riguarda la forma. E la forma è quella che Cordelli ci suggerisce nell’intervista, appunto il diario. Che poi significa una presa diretta, ovvero trasformare la vita in un immediato racconto, in un commento, in una confessione. Ma cosa confessa l’io narrante se non appunto la sua incapacità di agire, se non l’infanzia che è la sua stessa necessità di analisi (ancora una forma, ancora un termine – una visione – cara a Gombrowicz) –, le sue congetture, il suo mettere insieme e catalogare i fenomeni, la scomposizione dei segni che è poi la frantumazione del tutto si tiene di ogni luogo simbolico. «Ero venuto a Procida per un fine razionale e duro, quasi per conseguire un’ascesi laica, un perfezionamento prima mai tentato sulla strada della distanza, e dell’inappartenenza, voglio dire sulla strada in cui emettere giudizi può risultare superfluo». Ma l’infanzia è, proprio in quanto forma, anche qualcosa che, stilisticamente, è primitivo. Se è a uno stato fuori dalla civiltà ciò a cui Cordelli vuole tornare, la casa precaria nell’isola di Procida, una caverna sembrerebbe, senza più oggetti, cose che possano pure minimamente permettere al pensiero di liberarsi in un racconto, di costruire una cornice, quello stesso racconto di un mondo privo di civiltà costringe la scrittura a scarnificarsi, mostrare gli spigoli. È una narrazione che non ha oggetto, che di fatto non ha nulla da raccontare, o è costretta a raccontare proprio quel nulla. Che poi, a ben vedere, è la scommessa di una verifica quella a cui si sottopone il narratore. Togliere al pittore i suoi strumenti abituali, come dire i pennelli e i colori a olio, lasciargli in mano solo un foglio bianco e una matita senza neppure un ritratto, o autoritratto che sia possibile disegnare (e il narratore dice di scrivere a mano su un quaderno con una penna stilografica con relativa boccetta d’inchiostro, «cui bisogna riconoscere tutta la sua decrepita antichità, tutto il suo significato di regressione e di infanzia, quindi di repressione, immaturità ecc.»). Voglio dire, cosa è possibile raccontare quando più niente al mondo ci dona scappatoie che possano fecondare l’immaginazione? Cordelli traccia linee, disegna angoli, aspettando che il disegno (di fatto un paesaggio, nella misura in cui un paesaggio non è altro che uno stato mentale, una teoria, ovvero una percezione, una interpretazione dello sguardo), come quei giochi per bambini nelle pagine dell’enigmistica, emerga. Ma quel disegno non è il mondo, ma una mente svuotata o, come dice lo stesso narratore, che si sforza di purificarsi. Una mente che costruisce le sue linee attraverso congetture – segni, appunto (del resto il senso, come ci suggeriva Merleau-Ponty in Segni, «non lo si comprende che per l’interazione dei segni, ciascuno dei quali, considerato isolatamente, è equi- voco o banale: solo riuniti hanno senso»). È una mente che è regredita a uno stadio infantile, poiché si limita a essere una scrittura, una mente che coincide con la parola scritta, che senza quella parola parrebbe proprio non esistere. E lo si comprende anche dalla punteggiatura il modo in cui quella mente agisce (o si agita). Le virgole, infatti, indicano un assedio, un singulto della mente, sono il modo stesso del narratore di ragionare e di pensare. A Cordelli non piacciono gli incisi, al più si concede delle parentesi, ma è la virgola a padroneggiare il dettato. Questo perché la sintassi non apre voragini, o non si sposta dall’oggetto per segnalare all’occhio una nuova prospettiva. Cordelli ama le virgole perché per lui il mondo è una sola superficie, che trova la sua profondità su un unico piano. Le virgole sono il suo modo di fare a pezzi la realtà, non frammentandola, ma assediandola con un meccanismo di interrogazione. Pare un paradosso, eppure a me Cordelli pare molto più vicino a Moravia di quanto si possa credere. La loro scrittura – la loro opera – tende all’astratto – infatti Cordelli ha confessato in una qualche occasione che il romanzo che di Moravia ha più amato è La noia, dove guarda caso il protagonista è un pittore astratto –, anche se per vie e in forme diametralmente opposte. Moravia decostruisce la realtà raccontandola al dettaglio, Cordelli moltiplicando gli interrogativi. Ma le sue domande non sono quelle primarie, o primordiali, sulla vita e sulle virtù… sono invece la casualità stessa della vita, lì dove la vita si spezza per cercare la sua necessità – la necessità dell’arte.
Ma l’infanzia, e qui pare quasi una citazione da Pornografia (il romanzo in cui Gombrowicz racconta di come due adulti si eccitino nel farsi sedurre da due ragazzi che esprimono esattamente questa forma di potenza in atto, di sessualità, senza però volerlo; perché la volontà di sedurre non è loro, dei ragazzi, ma al contrario degli adulti, che gli fanno recitare la loro perversa rappresentazione), dicevo l’infanzia si manifesta in Procida anche in un personaggio, cioè in un fantasma, in un emblema, poiché non può proprio sussistere un personaggio, né tantomeno una persona in carne e ossa nel metodo espressivo di Cordelli, o del diarista che per lui prende parola. Quando arriva nella casa sua figlia Emilia e i suoi colleghi di compagnia – una compagnia di teatranti, di sessantottini, di nudisti –, il fidanzato, Giacomo Lattes, Gabriele Visco e la sua giovane compagna, l’adolescente Alberta, ci si accorge che quest’ultima, la piccola del gruppo, «con la sua fede spontanea nella natura, se ne sia fatta [di quella natura] oltre che discepola, addirittura fanatica profetessa, una specie di sibilla», così come lo erano i due giovinetti che recitavano la parte degli amanti davanti agli adulti in Pornografia. E in quella nudità di cui è «discepola» e «sibilla» e «sacerdotessa» il diarista si adagia, poggiando il volto tra le sue gambe mentre questa prende il sole completamente svestita. Ma cosa impedisce, ci si domanda immediatamente, un rapporto sessuale tra il padrone di casa, tra colui che è lì nell’isola per usurparla, per spezzare quello stato simbolico, per frantumare un’idea di romanzo, e l’adolescente, Alberta, che di quel simbolo rappresenta il volto osceno, manifestandone il sesso? Davvero è un impedimento moralistico, uno scarto di coscienza? Cosa impedisce, insomma, l’unico atto che sarebbe stato invece scandaloso, la sola azione che, mettendo in scena un incesto, avrebbe spostato dal piano metaforico, o razionale e idealistico, a quello reale il racconto di nulla (altrove il diarista aveva scritto di «voler vedere se riusciv[a] a scrivere di nulla») – l’incesto che è l’atto, in assoluto, più infecondo? Ma in verità, il diarista ci sorprende qualche pagina dopo, perché un rapporto tra lui e la sacerdotessa bambina c’è stato. Ella si infila nel suo letto mentre egli dorme, si svestono rapidamente, ma basta un contatto, il primo contatto reale tra le loro gambe (viene ancora in mente Gombrowicz, con tutta la sua separazione degli arti e delle parti del corpo umano; del resto anche il narratore di Procida, più avanti, ripensa e confronta tutte le gambe delle sue amanti, gambe che altro non sono che oggetti d’indagine, razionalizzazioni del desiderio) per far eiaculare, fin troppo precocemente, il diarista. Ecco l’incesto, ecco la sua realtà oscena (e «osceno», tecnicamente, è porsi fuori dalla scena – così quell’atto è un passo «fuori dal codice», uso le parole di un saggio di Cordelli contenuto in Partenze eroiche; e di quale codice si tratta se non proprio quello del romanzo?). Quel rapporto c’è stato pur non essendosi di fatto compiuto. C’è stato proprio nella dissipazione del seme, proprio nel suo manifestarsi come atto assolutamente infecondo, nel suo produrre nulla: è un fatto che testimonia l’essere e nello stesso tempo il non essere del narratore.
Quando, compiuta la missione, avendo ormai dato senso alle simmetrie del narratore, la compagnia si congeda dalla casa, abbandonando il luogo simbolico usurpato che è l’isola, Emilia, la figlia (ed è la prima figlia nell’opera di Cordelli; una figlia che ritroveremo in Una sostanza sottile, col nome di Irene, lì assumendo il ruolo di interprete dei ricordi, dei segni della vita di uno scrittore di romanzi – che sono poi gli otto romanzi di Cordelli –; Irene è la mente stessa dell’autore alla quale si confessa o concede – Irene, che è figlia e madre insieme: la donna desiderata ma inviolabile, colei che si può ingannare senza mai poter tradire; Irene è una teoria incarnata, il corpo doloroso del romanzo, è l’opera che testimonia l’esistenza dell’autore, l’anima di colui che l’ha generata), dicevo che Emilia lascia una lettera al padre dopo aver letto, di nascosto, il suo diario. In quella lettera c’è un rimprovero. Ma non è il moralistico rimprovero di una figlia che scopre l’atto osceno compiuto dal padre con Alberta. Emilia lo rimprovera di non aver trovato, in quelle pagine, la vita, una «vita vissuta», non gli perdona l’infecondità, cioè di essere infecondo pur restando padre. È a questo punto che i fili, meglio chiamarle le congetture, i segni, si ricongiungono: «Volevo dirti una parola su come si consumano le cose, con una certa gentilezza, con la discrezione di un padre, che non è più un padre, che in quanto tale era sul punto di scomparire, e questo vuoto, questo ricorrente mutismo, queste formalità da mondo antico, una figura d’altri tempi, un evento della preistoria, esse dicono qualcosa con decoro, ma anche, se vi rifletti, con durezza, non tutto, s’intende, ma perché dire tutto? Lo giudico uno sbaglio, o una specie di ottusità, di sordità, chissacché, penso che trascorrere d’avventura in avventura, e che dire qualcosa, e che un’impresa, questa, e che orientamento, o direzione, o infine senso, tutto ciò comporta entusiasmo, un salto in avanti, altrimenti l’indistinto, il tutto uguale, se non altro, se non peggio, prende piede, a Roma, ma anche a Procida, anche qui, insomma». Quel nulla, quel raccontare niente, quello spezzare lo stato simbolico con un’inerzia, con un vuoto, con un atto di infecondità – qui la vitalità di una contraddizione, di un ossimoro, quasi – non era altro che raccontare, nell’interpretazione dei segni, di una paternità tutta scritta, che la sola paternità possibile, in quel diario, è il risultato di quelle congetture, di quei segni di cui è partecipe, consapevole o meno, anche Emilia, in un «banalità» che «dilaga» (aveva scritto Cordelli nello stesso passo qui citato nella prima edizione del ’73, poi soppresso nella seconda), ovvero qualcosa che si oppone ai significati. O meglio che ai significati, al destino di una vita, di un racconto, al destino che è il tutto si tiene dei romanzi, più che opporsi crea un imprevisto, un deragliamento, un passo fuori dal cerchio.
Dunque, in Procida di un’infanzia si può parlare perché Cordelli è come avesse voluto usare, per disintegrare l’idealistica visione del romanzo tradizionale – L’isola del tesoro / L’isola di Arturo – gli stessi mezzi, ma mostrando, di quegli stessi mezzi – dico ancora l’infanzia; l’infanzia come emblema – la loro oscenità, un vuoto di senso. Quel vuoto di senso che alla fine si manifesta nel ritrovamento dell’antico segno, del topo. Ma essendo la manifestazione di un vuoto di senso, appunto di un nulla, quel corpo di topo non poteva che essere ritrovato privo di vita. Il diarista lo raccoglie; e lo raccoglie, guarda caso, proprio con una pagina del suo quaderno, portandolo fuori in giardino per dargli fuoco. Il corpo del topo è un’offerta di sacrificio all’isola. Un corpo morto adagiato sui fogli del diario, che poi significa il sacrificio – un atto desacralizzante; ancora una contraddizione, un ossimoro – che la scrittura, cioè la mente ha ormai compiuto.
Andrea Caterini