09 Novembre 2022

“Non più malati ma contagiati, un destino venereo…”. L’Europa ospedalizzata. Una lettera

Caro,

Leggo Cioran, leggo i suoi Esercizi di ammirazione. Il primo di questi è dedicato a Joseph de Maistre, grande disequilibratore della Rivoluzione francese, savoiardo che si impuntò, non volle far procedere la storia, o meglio quello stuolo di fannulloni che vogliono agire; si impuntò a “resistere”, per quanto si possa mantenere in bilico un pensiero rinfacciato. E siamo di nuovo catapultati nel qui, noi, senza approssimazioni. Tu conosci certamente, così come Maistre, quel gusto del macabro che è di tutti i progressisti o rivoluzionari, un fiuto irresistibile di cadavere pulsante che attende un derisorio sparo, una fine ironica, desiderosa. Se il sovrano è un sanguinario lo è anche l’utopia, col suo utile e il suo buono. Sanguinaria perché non solo avverte la fine ma biasima chi la scongiura, poi si accanisce sul fantoccio per prima e non uccide mai.

Due partite dunque che non osano: una (quella reazionaria) che si anima di paradosso, di grottesco, l’altra (quella rivoluzionaria) che osa solo nel momento in cui osare non è più compromettersi ma trionfare. Così la politica, la storia: dal discorso al dato, cronologia di senso, gioco che ha trovato alterco, dai mercanti alle risorse, aroma industriale di un tumore, sano languore che avevi nel cuore.

Oggi voglio tornare indietro. Noi c’eravamo e non c’eravamo. Ho assistito e continuerò ad assistere senza nessuna regola. Mi pare che se ne possa cavare qualcosa di improprio, di ripercorribile a caso e senza freni. Forse ti diverto. Non che mi venga in mente di tirarne fuori un funesto predicatore. So che le tue intenzioni ci sono e assai buone. Io ti lascio come sempre la mia disponibilità alla paura dell’umano, al suo impotente sogno d’essere indisturbato, appena la morte volge un solitario ululato.

In ombra al via vai di certezze e studi, tarocchi e abati, tu mi capisci… poi tutto è passato. Ora c’è dell’altro e sempre altro, non il Diverso. Non c’è da appellarsi al Dio che ormai si è defilato, neppure al diritto che inscena il calvario, ma un male impunito doveva essersi svegliato dal letargo di un bene inventato: la peste. Questa parola così desueta, parola d’occasione, mai volta ad altra intenzione, se non: contagio – prossimo – in – azione. La chiamarono epidemia. 

Non più malati ma contagiati, un destino venereo: dare ad ognuno la presenza come di un caso, una disciplina fortuita. Non più cittadini ma esseri nella decisione casuale, piena di gente, che rimette ad ognuno i sintomi della propria paura, della propria indecisione. Decisamente simmetrici però, tutti percentuali di un incontro sbagliato, di una trasmissione.

Quello che mi preme, e mi premeva anzitempo, se dovesse tutto ciò destare aria di testimonianza, è la salute. La salute ignora se stessa, ha abiti scambiati, perché nella molteplice fatalità di una malattia si annida una sola salute, che è un caso dissipato, una lontana curiosità della vita che si approssima; rovista il caos digestivo dell’istituzione come intromettendo nel fallimento l’abbaglio di una chiamata, ma nessuno risponde, di un altro uomo si sono perse le tracce. Medici e infermieri ne ricostruiscono asetticamente il labirinto intubato, ma resta uno spessore, una verità che rigurgita pene. La malattia costipa il corpo e cuce tra i suoi leganti minimi sforzi: tutto diviene interiora fuoriuscita dal tempo, attimo sopraggiunto ad infinito attimo. Ma il tempo della morte? La sacra celebrazione delle inferriate? Come saranno addolciti i violacei nidi di asfissia? La luce rubata all’uscio mortale sempre merita trascrizione e occhi attenti, che abbiano cura di scacciare le ombre. Forse quando il diritto alla morte scompare nel suo predecessore (il diritto alla salute) non v’è giustizia alcuna, solo arretratezza di menti diffuse in fumo. Ma la bestiale necessità di essere fuorviati in pace si consegna al patto. Anche a costo di perdere le vertebre si annuncia la verità del diritto, che si regge da sola. 

Il diritto alla morte è oramai contemplato solo dal concetto di eutanasia: il bene inflitto come auto disciplina, scarica furente sull’animo solo. – Non è una pratica diffusa, un’umanità universale, la scoperta di un principio vitale, la dignità dei pazienti. Forse non lo sai ma è una facoltà, scegli tu. Quindi, per ricapitolare, non si è certo scoperto dove inizia il morire ma dove si prolunga il diritto, oltre la morte, oltre il patimento. –

Ma il cadavere lo si riconosce ancora come aggregato di atomi costretti in una morsa? No, ormai è sola carne scarica di dolori, libera programmazione della cenere. Chi può ancora temerlo e sentire fatalmente elettrizzare il tocco? Forse i preti, ancorati alla loro vacillante fede di estinti? Oppure i medici, acquietati nel solco eroico del proprio mestiere? Altrimenti gli psicologi, inetti e ciechi visitatori dell’umano inerme? Nessuno di questi può, contro i vetri paludosi di un occhio varcato dalla falce.

Un funerale formale, giostrato tra vecchi antiquari e croci infestate di smog non è un degno appiglio per un’anima appena spirata, anzi più che un rito di avvicinamento sembra una notte di distruzione, il netto confine finalmente issato. Dove sono i morti e quali cataclismi si forsennano tra di loro? La quantità di membra sbattute dalla prova è insolente e il soffio richiede un traguardo. Chi potrà restituire alla morte la precisione di una linea, la sua discendenza stimata d’erede dell’intimità? Forse qualcuno si aggira… ma no.

Tutto è ospedalizzato, l’ospedale ha ingurgitato tutto l’urbano, si parla, si dice ospedale, si piange ospedale, si spera ospedale. Tutto l’igienico è egemonico, tutto il soffribile solito. Si distribuiscono noiose sfide, stracci da masticare sotto al dente. Poi ad un tratto il morire recide e si trovano nuove branchie, nuove orecchie per la nuova pressione. Non la Morte ma il rifiuto chiude il discorso, l’ospedalizzazione.

Dobbiamo però assolutamente ricordare colui che puntualmente si presentò, a render tutto questo una farsa: il prenotato, un essere accolto ma pizzicato qua e là da uno scrupolo: esser soddisfatto del turno, del suo orario da cartellino.

La precedenza, la prenotazione, la prevenzione, il premio. Ovunque si può prenotare la propria presenza, essere anticipati dal codice e dal numero. L’imprevisto non può più neppure essere dannato anzi definitivamente censurato. Non si arriva più primi ma prevenuti. Senza sforzo si possono vedere uomini e donne che non hanno ancora scritto, prima di trovarsi dinanzi all’elettronico foglio, il proprio nome, che hanno scordato o non hanno voluto prestarsi alla lista. Sono tutti là nella fila, puniti, rallentati; si guardano intorno e si grattano, hanno prurito. Prima degli anziani, dei fragili, delle donne incinte e dei disabili, c’è lui, il prenotato. Si lancia, si impunta, si sorprende che ci sia tanta gente ancora così lenta, così burocraticamente assente. Non vuole certo che ti avvicini di un passo all’entrata, già il pensare d’essere superato lo irrita, lo indispettisce a tal punto che con fare modesto ti scaglia addosso la sua attesa, ti avverte che non per cattiveria ma per giusta condotta si deve seguire la coda. Ha sempre l’immotivata ansia d’essere in ritardo, di non essere primo, o addirittura di non essersi curato abbastanza d’essere il primo; pensa e ripensa cosa ha specificato allo sportello, chi ha salutato prima di entrare dal cancello, se ha scritto giusto il dato numero otto; se ha davvero l’aria da prenotato, se la dose di gentilezza e gratitudine è trasparita. Insomma non si può sbagliare, questo è un debutto.

Sarà come dicono ma nonostante piagnucolassero qua e là il godimento era e resta molto. Dammi retta, la testa è pesante sopra al coltello, la malattia tutta da scoprire e le cure un palato greve, non lineare. Tornato a complicarsi il dito rotto con la tosse, tornati i gesti civili, le istituzioni, i piccoli strumenti, controllo: mascherine, tamponi, pistole, nucleari, chi se ne importa! L’oggetto e la causa: un chiodo e si può riapparire, una pena e tornare coesi. 

Ecco, mi sono fatta venire in mente dell’altro – ti avevo avvertito d’altro ma non il diverso – tanto per equivocare ancora Maistre, che in questa storia c’entra poco o niente, vedici quello che ci vuoi vedere. Forse per farcelo entrare dovrei allungare ma ne riparleremo. Mi sorge infatti il posticcio delle odierne manifestazioni, col volto combattuto tra il cellulare e il cartello. – Uno schermo senza un altro non è oramai più possibile issarlo. – Manifestazioni videosorvegliate, vigilate, teletrasportate.

Sappiamo che in questa mediateca del consenso, piazza di virtualità, è impossibile tentare un corpo a corpo con il reale. Chi scende per strada lo fa per apparire, per essere conosciuto dalla conoscenza. Lo sforzo non è quello di essere retribuito, farsi udire nel mantra di una o l’altra ripetizione, ma incarnarsi. Il sapore delle nuove sommosse è confessionale, redenzione e rito della massa che cerca un nemico di carne mentre torna carne. Il non poter essere davvero afferrati per la camicia da questo tutto sapere e tutto trasformare, esserne piuttosto soggiogati, rivalutati prima ancora che se ne possa presagire lo scopo. E se noi non ne fossimo lo scopo? Chi parla? C’è qualcuno? Dall’altra parte sembrano rispondere i dipendenti, le controfigure. Piuttosto dove sono i dirigenti, i direttori, i capi? Il complotto è mancanza di un interlocutore, l’aria satura senza statura. E dove la storia attraversabile? Lo stato, il sindacato, il partito, l’Europa?

L’Europa che cercava un paradiso nel decorso della malattia e se ne stava iperattiva tra virus cognitivi; una grande miopia di gesti e conflitti, un tormentare a caso i segni di salute, una smorfia di successo a reperire cause, effetti; la sua riluttanza è diventata di fabbrica, stampata; nessuna traccia del proibito, tutto simulato nello sdoppiamento, puro ordinamento di similitudini rimescolate insieme a farne un affare, una copertina. Ma un semplice antagonismo non è più palese, non fa più da modello la morte. 

Il campanello è suonato dai molti esiliati, scontenti, marginalizzati, nella lotta all’intelligenza, al nuovo sapere. Questi non saranno forse dei reazionari, (mantenendosi almeno in questo fedeli alle categorie sopracitate) sono gli scarti che restano di quella elaborazione, frammenti che si biforcarono e tornano a neutralizzarli. Complotto? Che sia questa la nuova scala di valori, la nuova parabola di onestà o disprezzo? Più in alto si sta e più si è compresi, malcelati, più in basso si resiste e più si è fraintesi. Sono scale di giudizio, rotelle, ritmi e torture da ordinare nel gioco, altrimenti non può esserci salvezza, con tutti i suoi incurabili.

Lo so, qua spetterebbe un posto d’onore alle parole. Lo pretendi da me. Ma non voglio neppure metterci uno spazio, andare a capo, tanto con quelle ci si acquieta, chi ci disturba? Si aggiunge o si castra la coda. Fascismo o Discriminazione? – Discrimine? Niente. – Parole anziane, forse più bambinesche, buone per una filastrocca, da redigere col caffè caldo. Forse redente? Ridicole. La schiena non la possono di certo alzare ma c’è sempre qualcuno che si diverte a farle risalire su e giù per il giornale. Ce ne sono anche di nuove, inglesissime o altrimenti italiane, quelle che si scoprono con la traduzione, alcune non sono male. Molti oggi dicono che le parole fanno male, sono importanti, sono “pietre”, scorgono la vendetta anche su un corpo puro. Nelle caverne butterei l’idioma!

Altro non è se non un grande ospedale che mangia un piccolo ospedale, un intero quartiere. Non è mai la solita storia occidentale ma intanto è qualcosa ed ognuno si rincuora: si può ancora morire in Occidente e pure il male è peggiore, peggiore che altrove.

Ti saluto adesso, anche se dicono di una guerra, di una furia di giornalisti senza diplomazia, giornalisti fuori da stanzone vuote che rimandano ad un giornale e ad una notte d’orrore. È un reportage? 

Ti abbraccio, aspetto tue.

Blu Temperini

Gruppo MAGOG