20 Marzo 2021

Intervista a Luca Crescenzi, traduttore di Thomas Mann alle prese con la traduzione dei diari dello scrittore "nell'incapacità di affrontare il caos della vita e del mondo"

Luca Crescenzi ci sono due modi di presentarlo.

Si può dire senza timore di sbagliare che è il massimo esperto in circolazione su Thomas Mann per traduzioni recenti e curatele, oltre che per progetti di ampio respiro quali la prima edizione italiana dei diari dello scrittore, in corso di allestimento.

Si può dire però, con maggior verità e senza sbottonarsi rivelando i propri gusti letterari, che Luca Crescenzi è anche un uomo lucido e intelligente, sapiente e simpatico, di quelli che non si lasciano distrarre dalle mode psicologiche degli intellettuali.

Era il 2010 quando usciva La montagna magica e la novità stava in quel magica al posto di incantata. In aula a Pisa Luca Crescenzi dava la sensazione di stare dentro la letteratura non come gioco, non come offerta culturale né tantomeno didattica: era un uomo integro che non si perdeva in vaniloqui a giustificare il perché di quel ritocco nel titolo. Per chi arrivava all’università dalla provincia, che per fortuna è sempre uguale da nord a sud, Luca Crescenzi faceva carta straccia di quasi tutti i quotidiani che discutevano perplessi di quella scelta nella traduzione.

La tentazione di ricercarlo dopo nove anni era fortissima; la voce al telefono è la stessa di allora, di quel pomeriggio in aula quando tuonava “Ma che leggete a fare I miserabili, non perdete tempo e incominciate dai tedeschi!”

Professor Crescenzi, fino a quando possiamo misurare con precisione l’influenza (stilistica e contenutistica) di Mann sulla letteratura tedesca? Essa finisce col suo esilio o prende altre forme?

L’influenza di Thomas Mann sulla letteratura e, più in generale, sulla cultura tedesca dura ben oltre l’epoca del suo esilio. Del resto capolavori come la tetralogia del Giuseppe e i suoi fratelli e il Doktor Faustus sono apparsi in tutto o in parte quando Mann era già in esilio, prima in Svizzera e Francia e poi negli Stati Uniti. Il Doktor Faustus anzi, uscito quando Mann era in esilio già da 14 anni, è certamente il romanzo di Mann che ha suscitato più reazioni, in Germania, al momento della sua uscita. Basta pensare che a due anni dalla prima pubblicazione, in Svizzera, erano già apparsi circa 400 articoli che ne parlavano. E poi non bisogna dimenticare che per i tedeschi Mann non fu soltanto un grande narratore, ma pure un grande saggista e una voce ascoltatissima anche in ambito politico.

Se ricordo bene si faceva il suo nome per la presidenza tedesca dopo la disfatta del ’45.

Esatto, fu un’azione promossa da un gruppo di autorevoli intellettuali emigrati durante la guerra, i quali pensarono a lui come futuro presidente della Germania liberata da Hitler. È incredibile che in alcuni ambienti sia potuta sorgere la leggenda del Thomas Mann algido scrittore estraneo alla realtà storica e politica che lo circondava. Diverso è il discorso, invece, se parliamo dell’influsso di Thomas Mann come scrittore, soprattutto sulla letteratura tedesca del dopoguerra. Già dopo il Doktor Faustus Mann cominciò a essere visto come uno scrittore magari grande, grandissimo ma di un’epoca passata. Non è un caso che il suo ultimo romanzo compiuto, L’eletto, pur essendo un capolavoro assoluto e anche uno dei suoi romanzi più godibili sia fra le sue opere meno studiate e conosciute. Dopo la sua morte, poi, vi fu un vero e proprio moto di reazione da parte degli scrittori tedeschi che culminò, dopo la metà degli anni Settanta, in un’aperta presa di distanze dalla narrativa manniana.

Una Mann Renaissance c’è stata solo trent’anni fa…

Effettivamente c’è stata ma molto tardi, a partire dagli anni Novanta e poi, in modo ancor più deciso dopo la pubblicazione dei primi volumi della nuova edizione critica all’inizio di questo millennio, quando Mann è stato riscoperto e ormai nessuno ne mette più in discussione la statura di scrittore. Per qualche anno l’industria editoriale tedesca ha addirittura propagandato ogni nuovo romanzo di qualche valore come “la nuova Montagna magica”: fatto sta che autori paragonabili a Thomas Mann sul piano della capacità di dominare gli strumenti della scrittura, della profondità di pensiero, della visione del significato della letteratura e anche della statura morale non se ne sono più visti.

Andiamo all’opera omnia, allora. Penso ai diari che state curando per la prima volta per il lettore italiano all’Istituto Italiano di Studi Germanici. Su che arco cronologico si allungano questi diari? Sono una fucina di idee politiche o “soltanto” un laboratorio dell’artista?

Questa domanda mi fa molto piacere. In effetti l’Istituto Italiano di Studi Germanici, in collaborazione con l’editore Quodlibet, ha avviato per iniziativa di una studiosa di fama internazionale come Elisabeth Galvan il progetto di edizione integrale dei diari. Sono 10 volumi che coprono integralmente gli anni dal 1933 al 1955 e hanno un prodromo interessantissimo nelle annotazioni degli anni 1918-1921 che Thomas Mann salvò, non si sa perché, dalla distruzione dei suoi vecchi diari intrapresa per ragioni di prudenza subito dopo l’inizio dell’esilio. Si tratta di un’impresa che impegnerà dieci fra i maggiori studiosi dell’opera di Mann in Italia – citerò solo, fra i più noti, Fabrizio Cambi, Margherita Cottone e Andrea Landolfi – e che metterà finalmente a disposizione degli studiosi e del pubblico italiano uno dei più straordinari documenti della cultura tedesca del XX secolo. Non si tratta soltanto di una testimonianza del Mann privato o di una documentazione utile esclusivamente a chi voglia approfondire la cultura, la poetica e l’arte di Thomas Mann.

C’è molta politica, molto impegno ma in che senso? Dopo che questa parola è stata falcidiata dal ’68, come si comprende l’impegno di Mann?

I diari si possono considerare davvero sotto molteplici punti di vista e risultano sempre e comunque una lettura straordinaria. Intanto per il loro valore storico: Mann, che segue gli eventi del suo tempo con la stessa puntigliosità usata per comporre i suoi romanzi, è un testimone sempre vicino agli eventi e sempre dentro i dibattiti culturali e politici che li accompagnano. A Monaco, assiste alla nascita e alla fine della Repubblica dei Consigli, è diventato il portavoce dell’ala conservatrice e nazionalista per aver scritto le Considerazioni di un impolitico, ma segue con partecipazione gli eventi che preludono alla nascita della Repubblica di Weimar a cui sarà fra i pochi ad aderire con convinzione. Nell’esilio, che segue immediatamente alla presa del potere da parte di Hitler, diventa uno dei portavoce più rappresentativi dell’emigrazione e entra in contatto con tutti, ma proprio tutti i grandi scrittori e intellettuali europei. Negli Stati Uniti, dove trova una mecenate generosa che gli apre tutte le porte della politica in Agnes Meyer, la moglie di Eugene Meyer, proprietario del Washington Post e presidente della Federal Reserve, è immediatamente riconosciuto come la voce più autorevole degli intellettuali tedeschi oppositori del regime nazionalsocialista: incontra Roosevelt, viene spiato dall’FBI per il quale, fra l’altro, lavorano i suoi figli Golo e Erika, lancia dalla radio i suoi appelli alla ribellione contro Hitler e intanto si sprofonda nell’atmosfera di quella Weimar sul Pacifico che fu veramente la Los Angeles degli anni Quaranta insieme a figure del calibro di Arthur Rubinstein, Charlie Chaplin, Arnold Schoenberg, Theodor W. Adorno, Bruno Walter, ecc.

Ma un contatto con la vecchia Europa persiste, per quanto tenue…

Infatti i diari riportano lì, di nuovo in Europa, dove lo ha ricacciato la “caccia alle streghe” di Hoover, quando rifiuta di tornare in Germania e trova l’ultimo rifugio di una vita incredibile in Svizzera inseguito da voci e sospetti che i servizi segreti fanno circolare ad arte (sarà protagonista negativo di questa fase, ad esempio, anche Ignazio Silone), ma è pur sempre l’esponente più autorevole e moralmente indiscusso della cultura tedesca e può permettersi di esprimere opinioni pesantissime e giudizi caustici sulle miopie politiche del dopoguerra e sui pericoli di un ritorno, sotto altre spoglie, degli uomini politici e degli intellettuali compromessi con il passato regime. Ma al di là del valore di questi diari per gli storici, emerge in essi “l’altro Thomas Mann”, l’uomo privato al di là dell’uomo pubblico e le tantissime annotazioni che lo rivelano nella banale e anche banalissima quotidianità dentro a cui non sa districarsi, nella sua incapacità di affrontare il caos della vita e del mondo sono a mio personalissimo avviso le più suggestive di tutte.

Ci dà qualche anticipazione succulenta?

In Germania il rivelarsi di questo Mann privato ha dato luogo a un’abominevole proliferazione di articoli voyeuristici interessati alla sua omosessualità semisegreta quando non allo screditamento dell’intellettuale per mezzo della sua vita privata. In realtà appare in queste pagine il Mann spaventato dalla vita, terrorizzato dalle situazioni in cui sa o teme di non poter contare sull’aiuto della moglie Katia, in preda all’ipocondria o costernato di fronte alle difficoltà insormontabili che gli procura anche solo la necessità di cambiare la neonata Elisabeth. È un Mann che risulta a volte persino spregevole in certe ipocrisie o bassezze rivelate solo a sé stesso; ma è anche l’uomo contro cui lo scrittore ha eretto il muro della sua scrittura, che ha opposto alla difficoltà di vivere il monumentale baluardo della sua arte.

A proposito di ipocrisie. C’è un testo di Mann, Fratello Hitler, composto in tedesco e subito tradotto in inglese nel 1939, in cui si leggono frasi tenebrose e accecanti: “Un fratello – un fratello piuttosto spiacevole e mortale. Mi innervosisce, la relazione è dolorosa da non dirsi. Ma non la rinnegherò (…) oggi è nostro fato incontrare il genio in questa sua fase particolare tra tutte le fasi possibili. Un artista, un fratello. Ma la solidarietà, e il suo riconoscimento, sono espressione del disprezzo che l’artista ha di se stesso”. Questo testo era disponibile finora soltanto nella traduzione dal tedesco in un’edizione fuorviante, che lo accostava a testi sulla questione ebraica. Sarà nostra premura ritradurlo sull’Intellettuale dissidente ma intanto ci può contestualizzare questo articolo-saggio di Mann?

È un articolo del 1939 che Thomas Mann pubblica sulla rivista Esquire, e che sarà pubblicato in seguito in varie versioni, nel quale prende per la prima volta posizione su Hitler. È giusto interrogarsi sul contesto, perché in seguito sarebbe stato contestato a Mann un atteggiamento troppo poco critico nei confronti di colui che stava trascinando l’Europa in una tragedia epocale. Ma non bisogna dimenticare tre cose: innanzitutto che mentre scrive queste pagine Mann è in esilio da sei anni, ha lasciato Monaco a seguito delle minacce mortali che gli sono venute dal fronte nazionalsocialista e, dunque, non può certo nutrire sentimenti concilianti con chi ha messo a repentaglio la vita sua e dei suoi familiari. In secondo luogo Mann dà per scontato il giudizio politico e persino storico su Hitler, ma giustamente non dà affatto per scontato che chiunque possa capire da quali strati dell’identità politica e culturale della Germania sia stato generato quel fenomeno. Infine – ed è il fatto più importante – Mann assume, qui, un’ottica morale e quell’ottica, protestante e severa, gli impone di non nascondersi, di riconoscere una qualche involontaria vicinanza al nazionalsocialismo: se la Germania ha scelto quella via, non è dato a nessuno di “chiamarsi fuori”, di attribuire ad altri la responsabilità dell’accaduto, di considerarsi diverso o superiore ai tantissimi tedeschi che hanno votato per Hitler. Questa è grandissima critica morale: è la critica che può esprimere solo chi sa di cosa parla perché è parte in causa, perché si assume la responsabilità culturale e intellettuale di rappresentare in sé stesso la Germania nazista e il suo contrario e perché, generato da quella nazione che ora rivela il suo lato più oscuro, sente di dover fare i conti con quel lato riposto in qualche parte di lui anche se lo rifiuta e lo disprezza.

Tiriamo il fiato. Per fortuna il mondo di lingua tedesca non è stato solo questo, ha avuto e tutto sommato ancora ha un lato più festivo, di rutilante nostalgia nella letteratura austriaca. Penso al romanzo di idee alla Musil. C’è però solo un piccolo problema: sembra un genere con pochi continuatori , è come se Musil fosse condannato a rimanere un unicum.

Il romanzo di idee o romanzo-saggio, in realtà, non è mai venuto meno. È presente ovunque e anche nei paesi di lingua tedesca. Certamente dopo Musil l’Austria ha prodotto almeno un grandissimo e purtroppo quasi dimenticato romanzo-saggio come La morte di Virgilio di Hermann Broch. Ma su scala europea mi vengono in mente, solo per fare qualche esempio, romanzi come La vita: istruzioni per l’uso di Perec o più recentemente Limonov e Il regno di Carrère o anche, in modo diverso, Gomorra. Esperimenti interessanti, per restare all’Austria, li sta realizzando Clemens J. Setz, che è un astro nascente del romanzo europeo. Quello che sta cambiando – ma non è una novità – è il modo in cui il romanzo organizza narrativamente le idee che ne costituiscono il sostrato germinale. Mi verrebbe da dire che oggi romanzi come quelli di Musil e Thomas Mann sarebbero impensabili, se non fosse che proprio l’ambizione dell’industria culturale tedesca a “scoprire” la Montagna magica del nuovo millennio ha prodotto una vasta mole di romanzi di idee e fra questi Kruso di Lutz Seiler è stato certamente il più celebrato.

Stringiamo il nodo per concludere. Quelli di Musil possono tollerare un confronto con le note di Mann?

Credo che non ci siano confronti possibili. I diari di Musil non sono una cronaca quotidiana, ma un grande “brogliaccio” – come quelli di Kafka del resto – in cui vita e arte non sono distinguibili fino in fondo e l’autore non appare mai spogliato della sua aura. Ma temo che un ragionamento su questo richiederebbe un’altra intervista.

Gruppo MAGOG