“Paura dell’amore assoluto”. Sull’ultimo romanzo di Paolo Scardanelli
Libri
Livia Di Vona
Infine, la risposta, perentoria, da un monaco dell’Athos: “La morte? La morte non c’è”.
Sembra di rileggere la dolce sentenza confitta nel Dottor Živago: “La morte non esiste. La morte non riguarda noi… non vi sarà morte, perché questo è già stato visto, è vecchio, ha stancato, è ora di qualcosa di nuovo, e il nuovo è la vita eterna”.
A libro chiuso, il monaco regala a Piero Scanziani l’icona di un Arcangelo. Non è l’angelo dell’annuncio ma quello che brandisce la spada, che schiaccia il male. Angelo dal volto bambino, severo, capace nell’ira e nell’uccidere.
Entronauti termina, dopo quattro anni di vagabondaggi, con una dedica “All’Arcangelo”. Scanziani dice in forma singolarmente analoga ciò che dice Boris Pasternak:
“Alzo lo sguardo verso una stella. Forse anch’essa è morta, da milioni di anni. Ma la sua luce no, cammina eternamente nello spazio e il nostro occhio l’incontra, viva. La stella non è morta e nulla muore: ciò che muore, cade nella vita”.
Qui sembra di ascoltare Rainer Maria Rilke, piuttosto, il maestro di Pasternak – la letteratura è sempre una questione di lignaggio o di amnistia dal compito –: “E noi, che la felicità la pensiamo in ascesa,/ sentiremmo la commozione,/ che quasi ci sgomenta,/ di quando una cosa felice cade” (la traduzione è di Sabrina Mori Carmignani).
*
Il primo invito di Entronauti, libro estraneo ai codici e ai canoni della letteratura italiana: a che cosa serve il linguaggio? Il linguaggio serve ancora ad ancorarci all’uomo, a sanare le ferite, a sfamare i cuori, a far risorgere dai morti? Non sono domande peregrine: informati da Cristo – incarnato Verbo – ai discepoli è dato il potere di vincere il male (“Nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”, Mc 16, 17-18). Nel Vangelo di Matteo, con chiarezza, si dice che la parola di Gesù, conferita ai suoi, è in grado di vincere la morte: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni” (Mt 10, 8). La parola infusa dallo Spirito – “infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre che parla in voi”, Mt 10, 20 – sconfigge la morte.
Cosa ne è della parola che vince la morte? Esiste ancora la parola in grado di vincere la morte? Che rapporto c’è tra la letteratura e la parola che sana?
*
Nell’ultima scena, Scanziani descrive l’uomo in abbandono, reso al sorriso “tutto interiore”, in estasi, che “respira minimamente… il volo d’alabastro dorato e luminoso”. Di nulla si occupa, di nulla ha bisogno – perfettamente orientato dall’orazione. Quando il fotografo si appresta a scattare, Scanziani scatta, lo blocca, è sacrilegio fermare l’icona di Dio in una immagine – anzi: è demoniaco. Ci sono cose che non possono avere raffigurazione fotografica – ma devono avere rappresentanza verbale.
*
Scrivo a un raro, grande poeta italiano, avviato a Dio. Cosa fai?
Per fortuna, non faccio nulla.
*
L’Azione è il regno faustiano; l’immobilità quello divino.
*
Forse la parola che sana è la diserzione dalla parola – rifarsi alla liturgia, in essa rifugiarsi, oracolare nenia. Salmeggiare. Costruire una capanna coi salmi – non oltrepassare i confini del Verbo.
*
Eppure: qual è la parola divina? La parola evangelica è latitante, è greco abborracciato, vocaboli-calcina, verbi scalcinati, diverbio del verbo. Gesù non si esprimeva in greco.
Dunque: verbo di Dio è verbo franco, finisterre del linguaggio, foglio di via dal linguaggio.
Dunque: letteratura. Terra di mercimonio e di scambio, terra di frainteso – particola di vetro che sta tra miracolo e miraggio.
*
Partiamo dalla cornice. Intanto, il viaggio. Bisogna viaggiare, con un cuore-veliero, con un cuore-caravanserraglio, per cercare le esigue tracce di Dio. Scanziani, come tutti i viaggiatori, unisce l’arte del candore alla scaltrezza. Come i grandi viaggiatori dell’antichità – da Erodoto a Ibn Battuta, da Ibn Arabi a Dante, da Bodhidharma a Guglielmo di Rubruck –, Scanziani ormeggia i propri pregiudizi, rischia l’ammaraggio di sé, si fa preda della curiosità. Eppure, egli va a caccia di Dio: quella è l’autentica predazione. Chi insegue Dio sa di bordeggiare il pericolo – si è sempre a rischio di morte.
*
Partiamo dalla cornice letteraria. Il reportage. Scanziani usa il linguaggio più facile – il giornalismo – per ascendere a quello più complesso, il linguaggio di Dio – lo stile di Dio. Entronauti è una mappa per arrivare alle inferriate della città di Dio: frena le mondane bestie, monda, rende, a tratti, immacolati – il viaggio, però, è il lettore a doverlo compiere.
*
Scrittura come benevolenza, beatitudine dell’abbeveraggio. Scrittura che sana:
“Città di paure: atomica, insurrezione, cancro, scontri, assassini, tutto illustrato, ripetuto giorno su giorno, fino a ridurti atterrito fra atterriti. Città di violenze… Città di furori satiriaci: nudità femminili da per tutto, donne perpetuamente in fregola, uomini in permanente libidine, inversioni esibite, manie propagandate, sesso onnipresente onnipotente obnubilante. In tale cosmo di vibrazioni frenetiche, ho perduto ogni mio bene: la serenità, la presenza, la gioia. Non m’è valso conoscere le tecniche interiori, non m’è valso il controllo del respiro, della sensibilità, del pensiero. Mi sono trovato a sussultare anch’io, con tutti gli altri”.
Scanziani distrugge l’estremo idolo: quello della ‘spiritualità’, della ‘sensibilità’. Ci sono luoghi, invivibili, in cui anche questo è un giogo, come tutti, una giustificazione, come le altre.
Morire a se stessi – cioè, vivere. Del primo corpo si nutre la terra, dell’altro, increato, pasteggia Dio.
*
Lo stile di Dio: Verbo incarnato. Corpo-corpus. La parola ‘comunica’ in senso eucaristico: è comunione, pasto. Divorare Dio. Il Verbo agisce perché il suo frutto è la Croce.
Due esempi tratti da altre tradizioni. Scanziani di fronte al “vincitore dell’Himalaya”: “un bel vecchio”, nudo, tonico, “intento a non so quale sua realtà interiore”. Spiegazione: “Lo guardo e mi domando come ha potuto sopravvivere per decenni a simile altitudine, sopravvivere alle nevi e alle bufere invernali, senza una stoffa, senza una casa, sopravvivere ai monsoni, ai cibi scarsi, forse ai lunghi digiuni, sopravvivere alle tigri ai leopardi ai cobra, principalmente sopravvivere alla solitudine. Noi con tanta facilità ne moriamo”.
Poi, in Giappone, presso un maestro di aikido. Magro, anziano, sfrangia frotte di discepoli armati di pertica.
“Mi guarda: grandi occhi luminosi, nuovamente turchini. S’inchina e se ne va, lasciandomi una verità essenziale: anche la forza fisica ci viene dall’uomo interiore”.
I canoni della cultura sono sopraffatti: ci si lascia fare, ci si lascia dire.
La parola è come una ciotola – vai a mendicare, raccogli il sangue del nemico – del povero Cristo.
*
Riempirsi la bocca. Di parole, di cibo. Mentre vola verso Los Angeles: “Ti danno continuamente da mangiare… Si sono accorti che il mangiare scaccia la paura”. Ai monaci del Monte Athos, quando gli si domanda “Cosa mangi?” la risposta è: “alza le spalle”. “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete” è scritto nei Vangeli (Mt 6, 25): sacra insussistenza.
La nostra cultura, ubiquità del cibo, è legge enogastronomica. Non si parla che di cibo, rendendo sacrilego un concetto che ha che fare con il sacro. Ogni addestramento a Dio riguarda il cibo. Dio stesso – nel cristianesimo – è un Dio che si offre come carne e sangue; il fulcro del rito è il pasto comunitario. La centralità del cibo è pari – per analogia – a quella del digiuno. Parola-corpo: la dieta – intesa come disciplina del cibo – è necessaria per forgiare il corpo all’affronto con Dio. Affilare il corpo – o setacciarlo, sfiatarlo, sbriciolarlo – perché sappia inoltrarsi negli interstizi di Dio.
Il contrario di riempirsi la bocca: il silenzio. La preghiera interiore.
*
All’Athos, Scanziani va per scoprire gli estremi lacerti dell’esicasmo, la disciplina contemplativa che tenta l’unione con Dio attraverso la preghiera incessante (“Siate sempre liete, ininterrottamente pregate, in ogni cosa rendete grazie”, 1 Ts 5, 16-18). Il corpo, tramite addestramento ascetico, è reso vaso, puro strumento, suono. Il monaco incontrato da Scanziani, Macario, faceva lo scaricatore di porto; è asceso all’Athos da vent’anni, a praticare l’esichia. Questi ‘folli di Cristo’ – jurodivye secondo l’ortodossia narrata dal “pellegrino russo” – percorrono la via più aspra, oltre ogni idea di ‘risultato’ e di giudizio. “La considerazione che ciascuno ha di se stesso impedisce la vera conoscenza di sé”, scrive Evagrio Pontico – e poi:
“Prega senza interruzione e tieni presente Cristo, Egli ti ha generato di nuovo”.
*
A Entronauti manca la boria dei trattati spirituali che gonfiano le nostre librerie: che pregio indimenticabile! Scanziani non si erge a maestro, non ci dice come bisogna vivere, non finge di essere ciò che non è. Celebra il rivoltante disagio del ‘contemporaneo’ e si mette in viaggio. Non si erge a maestro, ripeto: ascolta i maestri; ce li offre. L’umiltà è il tratto distintivo di questa scrittura virile, di uno scrittore, cioè, che sa di essere perduto, di essere preda. Il contatto con il sacro disorienta, ribalta i canoni, rassegna a una micidiale innocenza. “Folli di Dio e spregiatori del mondo, di cui non cercano la gloria, anzi il disprezzo”, gli vien detto dei dervisci, i sapienti sufi.
Non ha bisogno di appartenere, ma di partire, Scanziani.
*
“Puoi scegliere di essere un’animula che porta un cadavere o diventare un’anima che porta l’immortalità”.
Sembra di ascoltare, in sussurro, i versi dell’imperatore Adriano: Animula vagula blandula… Blandita dal vagabondaggio, bandita dal mondo, l’anima discende, levitando.
*
Entrare in Entronauti: Scanziani dissoda il sentiero verso la casa, allestisce il giardino, conosce l’arte del falco e dello scorpione. Per avvicinare Dio bisogna avere artigli e diventare sapienti nel veleno, alimentare il fuoco, librarsi. Ingenuità aggiornata alla volpe. Nel giardino, Scanziani dispone un’altalena – dissoda una fontana. La casa in cui entra il lettore, però, è vuota – sta a lui aderire all’eco, o rompere le finestre. Quel vetro, intanto, gli ricorda l’ispido pelo dell’angelo.
*
Nada te turbe.
*Si pubblica una porzione del testo pensato per il convegno “Piero Scanziani il cantastorie”, in atto al LAC di Lugano il prossimo 12 ottobre, alla presenza, tra gli altri, di Vincenzo Guarracino, Michela Musante, Andrea Mascetti, Maria Giuseppina Scanziani e Gerardo Masuccio