Arriva esatto, Alessandro Ceni – esattezza di bestia già sazia, non contraffatta da bruto ardimento, da zampe in rotta e bava alla bocca; bestia statuaria, che profuma, atta all’adorazione, al farsi intridere di nomi – prima di sparire, ancora e ancora – e a noi non resta che ancorarla a una leggenda, questa bestia che fu carne e bronzo e che è neve.
Occorre farlo, allora, il gioco delle ricorrenze. Sono rare, rade le parole che ritornano nel dire di Ceni; quando lo fanno, sono le parole-trave, le primeve: “dolore”, “amante”, “stanze”, “tempo”, “pietà” (e, al fuoco del lemmario, c’è ben più di dolore in Ceni che di pietà, divinità che arriva scagliando frecce), “occhi”, “letto”. Il resto, perfino le cose più rustiche, estratte dai quotidiani moti – “orecchini”, per dire, oppure “laccio” o “bersaglio” – sono creature nuove, parole dal muso mai visto, con dorature di brina. E non dico le lunari, le stravolte, le prese a braccio dal desueto – “ganza”, per dire, o “turibolo”. E non dico della quantità d’altre parole apparse soltanto una volta in un’opera che è tra noi – con sviluppo di rio, dunque non priva di arsure, di caracollare per cascate e anse pacifiche ai rettili – dal 1980. In quarantacinque anni di lavorio nell’elemento linguaggio, una poesia che viene esatta come un’Apocalisse, come bestia dal turrito palco travolta dai fari della macchina in corsa. Improvvisa – esatta, va detto ancora.
Di solito, cioè – parlo per me, di una poesia-bue, di una poesia da armenti all’aratro – il poeta s’impianta nelle sue ossessioni, le celebra fino a sfinirle, fino al pantano. Per dire: dipingo in mania quello stesso paesaggio, quella stessa pavesatura d’aceri e inabitati colli, annottati dalla neve, finché non ne estraggo la meraviglia, e lo sovrasto, e lo supero. Si chiama addestramento – ciò che altri direbbero: rogo.
In Ceni, no. La poesia è prima & ultima, d’arcangelo a spada sguainata – e sguarniti siamo ad allacciarla a un lecito lignaggio lirico. Alessandro Ceni arriva da un nulla – che di volta in volta prende nome, per la pia conventicola dei cronachisti, di Melville, di Dylan Thomas, di Bigongiari, dello Zhuang-zi, dei gorgheggi di siberiani sciamani o di chicchessia – e in un nulla scompare. Del suo dire resta lo scampanio, qualcosa come di scampata minaccia – o meglio: un avvertimento a fuggire, a darsi all’inseguimento (ripeto: fuggire) di un dio licaone, di un dio faggeto, di un dio dei venti, ventriloquo, con l’arco a tracolla.
E non ho detto della torsione verbale, delle slogature grammaticali, perché qui, in effetti, insistere sulla grammatura dei lemmi è darsi all’archeologia, alle legioni dei lezionari. Più che altro in Ceni – ancheggiare tra discordi concordanze – è la lingua a essere forgiata a nuovo: necessita, allora, di un lettore nuovo, di un uomo nuovo. E tutto è detto, al contempo, come di carezza e di lotta, come di incanto e di incendio. Si dice ascesi ciò che per altri è imprevisto o impervio.
Ma c’è altro. L’esattezza si lega a conturbante continuità. Con esattezza, Alessandro Ceni arma, da quarantacinque anni, la stessa danza, la stessa opera: ce ne procura il tempio, i gambali, i cembali e l’acciaio. Così, i ritmi di quest’ultima poesia, Taxa, finora inedita, si rintracciano in testi aurorali come Una nascita o La cattività del meno, ma più che una fede, questo è a rimostranza di un fiato che non cede, di una spira, forse. Non ho detto monolitica, per dire dell’opera di Ceni: autarchia da re senza ingaggio, semmai, marmo che recede in pitone.
Interrogo l’oratorio “Treccani” per capire il significato di Taxa: “Nelle scienze biologiche, le categorie sistematiche (taxon, al singolare) corrispondenti a entità, raggruppamenti ordinati degli esseri viventi. I t. possono essere di qualsiasi livello gerarchico: in senso decrescente ricordiamo il phylum (o tipo), la classe, l’ordine, la famiglia, il genere e la specie”.
Di questa dea Taxa, divinizzazione tassonomica, Ceni traccia l’andare, con meandri da Cantico dei Cantici, da stil novo degli Iacuti. Ciò che un tempo era ardore ora si fa ordine; l’ordine rincula nell’ordinario; ma le gerarchie svasano, passano di vaso in vaso, s’invasano, fino alla rottura (shevirà si dice nell’ottica della cabbala luriana).
Non si può presagire a cosa conduca un verso – se tale è, creda nel crollo, nella sua gloria. Forse Taxa narra la speciale fine di una specie – o della specie inestinguibile.
*
TAXA
Scendi ora rapida a bussare le stanze,
cerca con gli occhi il posto.
Nessuno conserva questo dolore come te
nessuno rapido come te a bussarvi
come fa l’amante infedele,
per cui tutto nel letto apparecchiato
è come volevi o sembra.
Scuoti il turibolo delle stanze,
scuotilo con gli occhi,
tienlo come averci la ganza,
che dopo il laccio di fumo
e il condom della preghiera
simulando scocca le fusa
di chi sa che nulla è degli amanti,
e nullo il loro tiro al bersaglio.
Scendi lungo le cavigliere delle scale,
scendile con gli occhi, perché nessuno –
tranne schiacciato fra i battenti un livido –
sa scendere come te,
pattinando sul vetro dei tuoi occhi,
una pietà di fanciulla:
fai le viste allora con quella
di avergli creduto o –
secondo gli orecchini della formula –
d’esserne stata innamorata un tempo.
Un tempo
entrata nella stanza,
divenutane mirabile distacco,
la decomponevi.
Alessandro Ceni