I poeti s’incontrano per destino. Non per altro, e non tanto così per dire. Valentina Meloni è una di quelle rare folgorazioni, le cui poesie le scorgi inaspettatamente su un prato, la notte, illuminate dalle lucciole, quando sei esausto degli imbrogli della vita e ti nascondi nei boschi. Poesie come bagliori di fuochi antichi, come apparizioni improvvise di volpi. E non è un caso se lei ha scelto di vivere la vita tutta per la Letteratura, allontanandosi dal mondo, vivendo in un borgo arroccato sul lago in Valdichiana, tra prati, boschi, rumori d’altri tempi. Valentina mi parla di sé, dell’amore smisurato che sente e prova per l’epistolario immortale tra Rilke e la Cvetaeva; del suo attaccamento alla natura, dell’amore ancestrale che lega gli uomini agli alberi. Infatti, spiritualità, ecologia, alberi e natura sono i temi fondamentali della sua poetica.
«Scrivo poesie, quando poesia chiama» mi dice spesso, quasi fosse un motto. Ma non solo. È traduttrice, scrittrice di saggi, testi teatrali, aforismi, haiku e libri per bambini. Tra i tanti, ricordiamo Le regole del controdolore (Temperino Rosso, 2016), Il fiore della luna-Leggenda di Rosaspina (La Linea dell’Equatore, 2018) e Storie di goccia, Nanuk e l’albero dei desideri (Temperino Rosso, 2017). Strabilianti inoltre, per bellezza, le sue lunghe poesie sugli alberi.
Esiliata anche lei dall’invidia di quei pochi, la cui pochezza è risibile e raglio d’asino, il suo silenzio ha incontrato il mio. Ne è scaturito un trovarsi, un assomigliarsi, un comprendersi. Soprattutto per me è stata una scoperta, della quale voglio farvene dono. Perché in letteratura non esiste cosa più grande che il parlare, non di sé, ma degli altri. Sacrificare il proprio ego, per omaggiare l’opera di un altro, è rituale antico, perso, da riprendere e praticare se si vuole imparare l’umiltà del mestiere. Meloni fa un lavoro infausto, sottopagato, ma lo porta avanti con tenacia. Appunto perché credere nella sacralità della parola, corrisponde non solo a una scelta precisa di vita, ma anche e soprattutto a una chiamata, che del fato ne segue l’ombra. Per questo è fine traduttrice di vari poeti stranieri contemporanei e classici del passato, tra i quali spicca, per preferenza, l’immensa Emily Dickinson. Valentina Meloni fa della traduzione il suo rifugio, la sua quiete, la sua sorella lontana, il latte verde a cui si abbevera in solitudine ‒ sono parole sue, che illuminano tutta la professionalità e passione che impiega il quotidiano lavoro del tradurre. Ecco dunque alcune sue poesie e alcune poesie della Dickinson da lei tradotte. (Giorgio Anelli)
*
hanno portato via il mio unico amore
hanno portato via il mio unico amore
tagliate le sue ali di angelo dannato
lo hanno preso e processato
‒ loro dicono ‒ per troppo amore
pare che mi abbia amato più di quanto si deve
che abbia trascurato Dio per la mia pelle
ma non sanno che attraverso di me
egli ha adorato l’altissimo più di ogni altro
non sanno che lo ha glorificato
che ha sussurrato preghiere ardenti
e fatto dell’anima un altare
non sanno loro che egli ha reso onore
al cielo desiderante di ogni uomo
che di ogni bacio ne ha fatto un’orazione
di ogni carezza un rito di purificazione
di ogni sua sillaba l’eucarestia preziosa
della bellezza eterna e silenziosa dell’amore
*
la piccola volpe che ero
tengo stretta al grembo
la piccola volpe che ero:
le orecchie dritte
i denti aguzzi
il muso puntuto che saggia l’aria
e la lunga coda rossa
una carezza al grano di primavera.
ho sempre con me i suoi occhi vispi
‒ addormentati tra le mani ‒
una fiammella che s’accende improvvisa
quando scopre il passero del perduto amore
ancora cinguettante sul ramo dei ricordi.
*
Prendi questo nome
e fanne un pane caldo
da spezzare domani
quando avremo fame
e non avremo nessuno
a cui dire grazie.
Prendilo e impastalo
con mani di rinuncia
che lascino al tempo
il compito lieve
della gemmazione.
E non aver paura
d’ingoiare la notte
prendi il mio nome
e, insieme al tuo,
rendilo cielo
di questa nostra bocca.
(da Corrispondenze da un mondo increato ‒ epistolario poetico con Giorgio Bolla, La Vita Felice, 2018)
*
nel palmo delle mani
infine tolsi la pietra
e tolsi il corpo come
se io non fossi più
nascosta dentro un vuoto
inospitale e stanco
perché non mi toccasse
ancora la sua mano
perché non fossi detta
più terra di conquista
e nessuna spada più
venisse a giudicarmi
di me solo rimase
una lontana voce
una croce pesante
lasciata sopra i muri
e un filo sottilissimo
di rose e fiori d’acqua
nel palmo delle mani
una lontana luce
che brucia senza sosta.
Valentina Meloni
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Traduzioni da Emily Dickinson
Caro Marzo – avanti –
sono così felice –
ti ho atteso a lungo –
posa il cappello –
devi aver camminato –
come sei spossato –
caro Marzo, come stai, e gli altri –
hai lasciato bene la natura –
oh Marzo, sali di sopra con me –
ho così tanto da raccontare –
Ho ricevuto la tua lettera, e gli uccelli –
gli aceri non sapevano che stessi arrivando –
non ti dico – come sono arrossiti i loro volti –
però Marzo, perdonami –
tutte quelle colline che mi lasciasti da tingere —
non c’era un cremisi adeguato –
l’hai portato tutto con te –
Chi bussa? Ecco Aprile –
chiudi la porta –
non mi farò raggiungere –
è stato via un anno per chiamare
ora che sono occupata –
quanto sembrano futili le inezie
non appena arrivi tu
Che il biasimo è prezioso quanto l’elogio
e l’elogio sincero come il biasimo –
F1320 (1874) / J1320 (1874)
*
Da così minute galanterie,
un bocciolo, o un libro,
sono piantati i semi dei sorrisi –
che s’aprono nell’oscurità.
J55 (1858) / F37 (1858)
*
Ho derubato i boschi –
i fiduciosi boschi –
gli alberi ignari
porgevano le loro galle e i muschi
lusinghe alla mia fantasia –
esaminai curiosa i loro ninnoli –
li afferrai – li portai via –
cosa dirà l’austero abete –
cosa la quercia?
F57 (1859) / J41 (1858)
*traduzione di Valentina Meloni
**In copertina: una immagine da “A Quiet Passion” (2016), film biografico di Terence Davies sulla vita di Emily Dickinson