22 Giugno 2020

“Strane escrescenze spuntano sulla pelle della gente. Una monetina non smette di ruotare su se stessa fino a sembrare un piccolo pianeta”. Piccolo discorso su “L’istrice” di Luca Cristiano

C’è gente che rompe l’anima perché noi si scriva un libro. ‘Noi’: è successo a tutti voi che state leggendo, nessuno escluso. Il problema è proprio che tutti sanno scrivere un libro in vita loro, mentre lo scrittore – quando esiste – incomincia col secondo. Tutti sanno scrivere almeno un libro se non altro perché quando vivono in realtà stanno scrivendo il loro passato e quando sono passati degli anni prendono a scrivere narrando il loro passato.

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Arriva questo libretto scritto anni fa che dice di un’epidemia che trasforma tutte le persone nei loro occhi. Chiaramente in questa situazione in cui si può soltanto vedere finiranno tutti per morire di empatia. Si può solo osservare come il Linceo di Goethe nato per vedere, installato sulla torre per osservare, mentre spasima la sua lontananza e ama le cose perché rimangono sul fondale.

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Il libretto che racconta dell’epidemia è anche di fantascienza, e a questo punto anche l’epidemia da cui siamo usciti è diventata fantascienza, un ricordo di mesi irreali, il libretto si diceva è opera di Luca Cristiano. L’autore ha da poco compiuto quarant’anni e ha pubblicato il romanzo breve L’istrice con Prospero di Milano, stesso editore che già gli ha dato fuori la raccolta di poesie Brucia la cenere (2017) e il volume di racconti La danza delle vergini e delle vedove (2018). Di formazione classica, phd alle spalle, Luca Cristiano ha scritto anche un saggio: Crema di vetro: misura e dismisura nei romanzi di Antonio Moresco (Massa 2016).

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Questa storia dell’autore che incomincia coi racconti e approda al romanzo breve – L’istrice tocca appena le cento pagine – intriga. Forse quello che cambia tra una forma e l’altra è come si raccontano le cose. Ci sono anche autori, chi sa se Cristiano è tra questi, che hanno una predilezione per i frammenti: sarà colpa delle molte letture o della grande memoria. Roba da far venire in mente i quadri mnemotecnici con l’aggiunta che il palazzo della memoria è l’autore stesso. È una strada interessante sulla quale lavorare: una narrativa che soddisfa le regole dell’ars memoriae; come ha potuto Borges non pensarci mai: o forse l’ha fatto e non l’ha mai detto a nessuno (oppure l’ha detto – nell’Aleph, in Finzioni e anche prima – e non l’abbiamo capito o abbiamo capito solo altro).

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I pezzi per essere scrittore mi pare che Cristiano li abbia tutti e sono sempre di più, più lui si fa a pezzi: il fatto che uno scrittore scelga di frammentarsi – e che magnifico frantumatore dei sogni e delle aspettative altrui sono certi scrittori! – è un punto di forza letterario unico, perché scrivere ha a che fare con il ricomporre i pezzi e poi il cospargerli di nuovo. Fanno così alcuni monaci tibetani e zen: i primi creano quei disegni minuziosi e ripetitivi per poi cancellarli con uno strepitio di preghiere e canti; i secondi solcano di linee parallele quadrati di sabbia, passando intorno ai sassi, e li chiamano giardini. Entrambi sono poetici per lo scompiglio che gettano quando distruggono ciò che hanno compiuto con tanta lungimirante pazienza, poiché credono che la massima saggezza stia nel rendersi conto di quanto folle sia la credenza che le cose siano stabili, anche quelle fatte più minuziosamente.

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Nella trimurti degli indù vi è un dio che crea (Brahma), uno che distrugge (Visnù) e uno che trasforma (Shiva). Il primo è padre, la seconda è madre (che bello che ogni tanto una madre disfi!), il terzo è il figlio: Shiva trasforma, distruggendo e ricreando. Nella cultura induista derivano così da Shiva tutte le arti, compresa quella dello scrivere.

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E cosa dice L’istrice di Cristiano? «Un uomo viene colpito in testa da un pezzetto di cemento. Un animale investito si dibatte sull’asfalto cercando di morire. Strane escrescenze spuntano sulla pelle della gente. Qualcosa di indicibile balugina dietro i vetri, mentre una monetina non smette di ruotare su se stessa fino a sembrare un piccolo pianeta». Questo sta scritto sulla quarta di copertina del libro. E potrebbe bastare per descriverlo rendendolo ‘accattivante’ agli occhi dei potenziali lettori.

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Sei in libreria (che sia una libreria o stia su internet), vedi la copertina, leggi che c’è scritto dietro e dici: «mi ispira, lo prendo». Finito. E con questo è finita anche la recensione, secondo lo stile in cui si scrivono le recensioni: devo sembrare uno che la sa lunga più dell’autore, devo sembrare uno che sarebbe potuto diventare un più grande scrittore dello scrittore recensito se solo avesse voluto, ma siccome non lo ha voluto per non scadere ecc. Insomma, devo ammiccare: devo ammiccare fortissimo. Più ammicco, più strizzo l’occhio così tanto da stritolarmi la cornea con la forza dei miei stessi muscoli oculari e più sembra che il libro meriti di essere letto perché IO. Fatto: ho ammiccato abbastanza. Mi fanno male entrambi gli occhi.

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Ora scrivo di questo libro, invece. Dice, sostanzialmente, che la morte può essere una risorsa, una risorsa profondamente e paradossalmente intrisa di vita e di umanità migliori di questa vita e di questa umanità.

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Perché la storia raccoglie l’insieme di visioni allucinatorie e malate (anche con un ormai inattuale – per ridondanza – fenomeno epidemico) che descrivono situazioni in cui cose, persone o animali fragilissimi soffrono a causa di cose, persone o animali che sono, alla stessa misura di loro, fragilissimi.

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Questo è quello che si vive tutti, ogni giorno. Il fatto è che c’è sensibilità e ipersensibilità: quelli che soffrono di più, si capirà leggendo, sono quelli che sentono tutto, vedono tutto, empatizzano con tutto. Degli sfigati proprio. È per questo che il libro garba, perché parla a e di persone che non sono ciniche, o non lo sono ancora abbastanza per essere definite adulti compiuti, indipendentemente dalla loro collocazione anagrafica: ma vorrebbero esserlo! E questo avrebbe a che fare con la poesia e la speranza, la frustrazione, la disperazione e il dolore, se fosse permesso usare queste parole.

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Che poi si debba scrivere o parlare di quello che sono veramente gli esseri umani per metafore e nascostamente, è un grande problema, ma è sempre così che ci autodescriviamo e scriviamo di noi, vergognandoci (giustamente) un po’ di essere ancora primati complessi, non adulti, violenti e egocentrici, vergognandoci anche quando andiamo fieri di questa incompletezza strutturale, ontologica e, forse, solo tragicamente generazionale, locale, personale.

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Insomma: sono fatti talmente di chi scrive qui – come la costa tirrenica a sbalzi dopo la Liguria all’ingresso di Carrara, dove l’Italia comincia per davvero – che vederli scritti in un libro di uno che si conosce appena, sorprende e rende grati con profondissimo amore; questo forse è l’effetto che deve fare un libro se scritto bene.

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Un’ultima cosa: c’è un protagonista costantemente assente in ogni visione e pagina del libro; la sua presenza per privazione – rafforzata dal fatto che spesso l’autore ne mostra la possibilità – è così forte e violentemente illogica, che ti viene a mancare il fiato a forza di cercarlo in ogni situazione, parola, persino nella punteggiatura: se ne sente sempre e ovunque il bisogno, è una necessità del libro drammaticamente latente. Questa cosa, non si sa bene se sia un difetto o un pregio, dona molto valore al testo.

Andrea Bianchi & Marco Matteoli 

Gruppo MAGOG