“Un mostruoso e selvaggio desiderio animale di ululare”. Un saggio di René Daumal, “Libertà senza speranza”
Letterature
a cura di Tommaso Scarponi
In questi giorni di malattia il risveglio è lotta subdola con me stesso. La depressione, ambigua lama che attraversa dalla testa ai piedi, arretra lentamente. È da poco arrivata a trovarmi e sembra quasi dire: Ma come, non ti ricordi più di me? Inconsciamente, forse, l’avevo dimenticata. Lei vuole baciarmi infilandomi la sua lingua in bocca.
Invece, la ricordo eccome fare scempio delle mie debolezze. Rispetto ad altre volte, però, sembra quasi lieve: candida neve che nasconde l’arrivo della tormenta? Difatti ogni volta è lotta diversa; i suoi tranelli innumerevoli. Ambiguo il suo mostrarsi, peggio delle azioni di falsi amici scrittori nel vile tentativo di eliminarmi dal grande gioco. Tuttavia, io resisto ai margini di ogni evenienza, non sono fottuto.
Vorrei scrivere un articolo per Pangea, ma una mezza litigata telefonica quasi mi distrae dall’intento. Non mi arrendo. No, non mi arrendo. Il poeta che ha urlato nell’ignoto di valli incantate, risvegliando il volo ad alta quota di animali celati all’uomo, non può mancare all’appello. Perciò, guardo osservo gl’infiniti libri della biblioteca nella stanza-studio. Li prendo uno a uno, li sfoglio, li leggo: poesie, lettere che in questo istante non fanno per me. Eppure ‒ proprio così! proprio così! ‒ gli unici veri amici di una vita prendono il sopravvento su qualsiasi disillusione. E mi parlano, o cantano dal loro cuore. Poi, come sempre, un’illuminazione giunge a dare speranza. Le foto di Nelly Sachs, gli occhi tristi di Sylvia Plath distolgono lo sguardo momentaneamente dal pericolo, anche se ricordo quanto, in un non troppo lontano passato, ho dovuto soffrire e / o subire.
TULIPANI
I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda com’è tutto bianco, quieto, coperto di neve.
Sto imparando la pace, distesa quietamente, sola,
come la luce posa su queste pareti bianche, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; non ho nulla a che fare con le esplosioni.
Ho consegnato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere,
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Mi hanno sistemato la testa fra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
Come un occhio fra due palpebre bianche che non vogliono chiudersi.
Stupida pupilla, deve assorbire tutto.
Le infermiere passano e ripassano, non danno disturbo,
passano come gabbiani diretti nell’interno, in cuffia bianca,
le mani affaccendate, ciascuna identica all’altra,
sicché è impossibile dire quante sono.
Il mio corpo è un ciottolo per loro, lo accudiscono come l’acqua
accudisce i ciottoli su cui deve scorrere, lisciandoli piano.
Mi portano il torpore nei loro aghi lucenti, mi portano il sonno.
Ora che ho perso me stessa, sono stanca di bagagli ‒
la mia ventiquattrore di vernice come un portapillole nero,
mio marito e mia figlia che sorridono dalla foto di famiglia;
i loro sorrisi mi si agganciano alla pelle, ami sorridenti.
Ho lasciato scivolar via le cose, cargo di trent’anni
ostinatamente aggrappata al mio nome e al mio indirizzo.
Con l’ovatta mi hanno ripulito dei miei legami affettivi.
Impaurita e nuda sulla barella col cuscino di plastica verde
ho visto il mio servizio da tè, i cassettoni della biancheria, i miei libri
affondare e sparire, e l’acqua mi ha sommerso.
Sono una suora, adesso, non sono mai stata così pura.
Io non volevo fiori, volevo solamente
giacere con le palme arrovesciate ed essere vuota, vuota.
Come si è liberi, non ti immagini quanto ‒
È una pace così grande che ti stordisce,
e non chiede nulla, una targhetta col nome, poche cose.
È a questo che si accostano i morti alla fine; li immagino
chiudervi sopra la bocca come un’ostia della Comunione.
Sono troppo rossi anzitutto, questi tulipani, mi fanno male.
Li sentivo respirare già attraverso la carta, un respiro
sommesso, attraverso le fasce bianche, come un neonato spaventoso.
Il loro rosso parla alla mia ferita, vi corrisponde.
Sono subdoli: sembrano galleggiare, e invece sono un peso,
mi agitano con le loro lingue improvvise e il loro colore,
dodici rossi piombi intorno al collo.
Nessuno mi osservava prima, ora sono osservata.
I tulipani si volgono a me, e dietro a me alla finestra,
dove una volta al giorno la luce si allarga lenta e lenta si assottiglia,
e io mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
e non ho volto, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani mangiano il mio ossigeno.
Prima del loro arrivo l’aria era calma,
andava e veniva, un respiro dopo l’altro, senza dar fastidio.
Poi i tulipani l’hanno riempita come un frastuono.
Ora s’impiglia e vortica intorno a loro così come un fiume
s’impiglia e vortica intorno a un motore affondato rosso di ruggine.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
di vagare e riposare senza farsi coinvolgere.
Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere in gabbia come animali pericolosi,
si aprono come la bocca di un grande felino africano,
e io mi accorgo del mio cuore, che apre e chiude
la sua coppa di fiori rossi per l’amore che mi porta.
L’acqua che sento sulla lingua è calda e salata, come il mare,
e viene da un Paese lontano quanto la salute.
18 marzo 1961
Eccola, quindi, di nuovo, la risposta! Sono troppo aggrappato alla vita per urlarne la morte. La risposta è la lingua della poesia che mi allontana dall’esilio e mi porta a combattere (per davvero) il male oscuro. Non sono un povero illuso, ma un poeta. E Sylvia lo descrive molto bene il momento della sconfitta da dove poi (forse) comincerà la salita. La poesia alimenta la ferita che ci portiamo addosso. La poesia è il motore di tutto, “e io mi accorgo del mio cuore, che apre e chiude / la sua coppa di fiori rossi per l’amore che mi portaˮ.
No, la depressione non avrà l’ultima parola, non ancora. Rivedo a poco a poco il mio volto. Tutto parla alla mia ferita. Qualcuno ancora mi cerca per litigare al telefono.
Giorgio Anelli