16 Maggio 2020

“Volevo studiare gli oceani, ma scrivere è un modo diverso di andare sott’acqua”. Ascoltiamo Joan Didion

In principio fu il viso – il numero, invece, è il 325. Ammetto, a volte vale la regola rabdomantica. La usava anche Iosif Brodskij, per altro. L’opera di uno scrittore è incisa nel suo volto. E quel volto. Mio dio. Occhi tratti dal bosco e conficcati in una donna in vetro – sembra uno spago di ferro, tenuta in piedi con qualche laccio, pronta a esplodere. Joan Didion sembra una formula magica – o una maledizione, è uguale – sullo squarcio delle labbra. Mi pareva bellissima – anni Sessanta, la Corvette, il New Journalism, che abita con devota ferocia, l’incontro con John Gregory Dunne, giornalista di fama, sceneggiatore di film importanti come Panico a Needle Park (1971; con Al Pacino) e L’assoluzione (1981; con Robert De Niro e Robert Duvall). Continuai a guardare le fotografie – l’esordio nel 1963, sulla scia dei trent’anni, con Run, River, poi quel libro mirabile, Slouching Towards Bethlehem, diceva di fondere la concisione di Hemingway allo sguardo di Henry James, alla basilica narrativa di George Eliot. Ora l’hanno mutata in icona. Accade così, negli States – i sopravvissuti diventano idoli. L’anno scorso, al numero 325, la consacrazione. La Library of America comincia a pubblicare la sua opera, 980 pagine, da Run, River a The White Album sotto la sigla “The 1960s & 70s”. In Italia è sommamente pubblicata da il Saggiatore. Mi pare bellissima, qualcosa che viene a torturarti – bisogna sempre dubitare di ciò che appare fragile perché, è facile, ti ferirà con millenaria minuzia.

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Lo dice lei, per altro, in Why I Write (1976): “Per molti versi scrivere è il gesto di dire Io, di imporsi agli altri, di dire, ascoltami, guarda ciò che vedo, cambia idea, seguimi. È un gesto aggressivo – perfino ostile. Puoi mascherare gli aggettivi, raffinare le congiunzioni, adottare ellissi, evasioni – e accennare più che pretendere, alludere più che affermare – ma mettere parole su carta resta la tattica del bullo segreto, un’invasione, l’imposizione della legge dello scrittore nello spazio più intimo del lettore”.

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Ma la violenza può voltarsi in pratica sadica. “Scrivo sola. Certo, commetto un atto aggressivo nei miei confronti, sono ostile a me stessa” (1978, alla “Paris Review”). Elusione ed eleganza: il moto del cobra, prima del tocco. Ostilità verso di sé: scrivere come estrarre spine.  “La voce. Quella ti viene addosso. Non avevo mai sentito prima una voce narrativa simile. Equilibrio tra distanza e impegno, occhio acuto dell’osservatore, ma anche la percezione di guardare tutto dall’esterno. E poi, la congiunzione tra il materiale personale, confessato, e la storia comune. E poi, l’idea che la narrazione sia aperta, che si stia ancora svolgendo, una volta terminata la lettura. Ha aperto delle possibilità finora inaudite”, dichiara David L. Ulin, che cura l’opera di Joan Didion per la Library of America.

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Estratta a se stessa, Joan Didion sembra incarnare la divinità della letteratura. L’efficacia della spada si misura da levigatezza e disciplina: addestramento che coincide con un destino. Non è mai facile scrivere, si scrive come si costruisce una sedia, di cui il lettore valuterà il censo. Qui si traduce una intervista a Joan Didion, a cura di Sheila Heti per “The Believer”, era il 2012. La scrittura è ciò che porti in superficie dopo un lungo inabissamento; le parole, in effetti, sono di legno. (d.b.)

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Da bambina voleva fare l’attrice.

Vero.

D’altronde anche la scrittura è performance: interpreti un personaggio.

Non proprio. Costruisci uno spettacolo intero. Ma, è vero, la scrittura mi è sempre sembrata una sorta di performance.

Qual è la natura di questa performance?

A volte un attore interpreta un personaggio, a volte si esibisce e basta. Con la scrittura non reciti un personaggio. Lo crei. Lo doni al pubblico. Non interpreti nessuno, ostenti le tue idee. “Guardami, eccomi”: dici questo.

Ma questo “io” è stabile o instabile, che distanza c’è, intendo, tra il ruolo dello scrittore e…

…e la persona reale. Non lo so. La persona reale diventa il ruolo che hai scelto di darle.

Si esibisce per sé o per gli altri?

Per me. Ma anche, è ovvio, per chi sceglie di essere coinvolto. Voglio dire, il lettore è il pubblico.

Quanto del suo lavoro è stato creato in risposta o in collaborazione con il pubblico?

Molto. Ho creato uno spettacolo su L’anno del pensiero magico e sono rimasta sorpresa dal modo in cui il pubblico è diventato parte dello spettacolo. Penso che ciò accada anche quando si scrive.

Nel caso della scrittura è diverso, però.

Certo. Ma non riesco a immaginare di scrivere senza l’idea di un lettore. Non più di quanto un attore penserebbe di recitare in assenza di pubblico. Non esiste il vuoto, quando scrivi. Se non hai la percezione di un lettore, nuoti nel vuoto.

Quando ha iniziato a scrivere?

Da bambina. Avevo quattro o cinque anni, mia madre mi dà una grossa lavagna nera, perché mi lamentavo, mi annoiavo. “Scrivi qualcosa, poi me lo leggi”, mi disse. Avevo appena imparato a leggere. Fu un momento emozionante. Scrivere qualcosa per leggerlo!

Le piaceva leggere ciò che scriveva?

Negli anni, sì. Non sempre.

Non sempre…

Il mio primo romanzo. Non mi ha coinvolto perché, molto banalmente, non sono riuscita a fare ciò che avevo in mente. Volevo confinare la cronologia didascalica, volevo confondere i piani. Non avevo esperienza, ho seguito i suggerimenti del mio editor, e ho scritto un libro convenzionale. E questa non è una bella cosa.

Pubblicare non è facile: devi avere fiducia nel tuo pensiero, nel tuo sguardo sulla realtà.

Si impara lavorando, la fiducia. Devi essere certo di ciò che fai, anche se pare ridicolo. Il mio personale punto di fiducia credo di averlo conquistato con Prendila così. Il mio terzo libro. Mio marito mi diceva, ricordo, “Questo libro non ce la farà, non ce la farà, non ce la farà”. La pensavo come lui. Ma ce l’ho fatta. Da quel momento, ho avuto fiducia.

Perché pensavate di non farcela?

Perché era il mio terzo libro. Voglio dire: non credi immediatamente di farcela. Pensi di avere un talento stabile, che si farà ascoltare nel tempo. Se non comunichi subito con un pubblico non sai quando questo potrà accadere.

Qual è stato il primo segnale che la ha convinta di avercela fatta?

Non ricordo esattamente. Ricordo che all’improvviso si parlava del mio libro. La gente ne parlava. Era una cosa che non avevo mai sperimentato prima.

Il successo ha cambiato la sua relazione con quel libro?

Ero felice. Mi ha fatto sentire più in sintonia con quel libro. Ero molto triste mentre lo scrivevo perché era un libro difficile da scrivere per me, soltanto dopo ho realizzato quanto scriverlo mi abbia prostrato. Poi l’ho finito, e improvvisamente è come se un peso si fosse tolto dalla testa. Ero felice.

Forse è difficile trovare un libro ‘facile’ da scrivere.

Già. I libri ti portano sempre dove non vorresti andare.

Negli anni Settanta lei scrive un brillante articolo sui film di Woody Allen – tra cui “Io e Annie” e “Manhattan” – pubblicato dalla “New York Review of Books” dove la parola “relazioni” è sempre messa tra virgolette…

Non mi pareva abbastanza onesto il modo in cui Woody Allen ragionava di relazioni. Film dove gente parla delle proprie relazioni e questa è la sola cosa che capita. Per me non funzionava.

In “The White Album” lei scrive: “Sono entrata nella vita adulta dotata di un’etica essenzialmente romantica; credevo che la salvezza si trovasse negli oneri estremi, nelle vite segnate”. Riguardo a matrimonio e maternità…

Oneri estremi e vite segnate, appunto. Non parlo per esperienza vissuta, ma per ciò che ho visto. Matrimonio e maternità sono una specie di condanna – e una salvezza.

Salvezza da cosa?

Dalla solitudine, dalle estremità della solitudine.

Perché la relazione è intima o per il matrimonio in sé?

Il solo fatto di avere un’altra persona – di rispondere a un’altra persona. Per me è stato molto. Era una specie di romanzo, qualcosa che nel tempo si è rivelato grande.

Penso a “Blue Nights” e a “Verso Betlemme” e mi chiedo se si diventi davvero più frammentati, atomizzati quando si è lontani dalla propria famiglia, senza punti di riferimento.

È così. Poi, bisogna imparare a gestire le proprie rovine. Quei libri sono personali non tanto perché parlano della mia personalità o di ciò che mi è accaduto, ma perché narrano il mio smarrimento, l’incapacità di trovare un filo narrativo.

Scrivere qualcosa di frammentario anziché narrativo invoca un altro tipo di pensiero…

Un modo assolutamente diverso di pensare, sì. Di solito cerchi il tono narrativo, un orientamento. Per molti anni la ricerca della narrazione è stata il mio compito. Poi ho cambiato. Blue Nights nasce dall’idea che la narrativa non sia importante, che narrare non sia il punto fondamentale.

È questa una verità più profonda del narrare?

Così mi si è rivelata. Scrivere, per me, è sempre un modo per giungere a una comprensione che altrimenti resterebbe irraggiungibile. La scrittura ti costringe a pensare. Ti costringe a risolvere dei problemi. Niente viene a noi con facilità. Quindi, se vuoi capire cosa stai pensando devi in qualche modo elaborarlo. E per me scrivere è la sola forma di elaborazione che conosco.

Quando scrive, di solito?

Quando trovo il ritmo del libro.

Ci sono momenti in cui scrive e vorrebbe evitarlo?

Accade. Devono esserci dei momenti in cui scrivi anche se non vorresti.

Che natura ha questa evasione, questo evitare la scrittura?

Non pensare. Non penare pensando.

Se non fosse diventata una scrittrice…

Volevo diventare un oceanografo. Quando vivevo a New York e lavoravo per una rivista, la mia intenzione era diventare oceanografo. Non potevo. Mi sono informata presso la Scripps Institution of Oceanography. Mi hanno detto che mi mancavano dei corsi di scienze. Non avevo seguito quei corsi che mi avrebbero permesso di seguirne altri e di seguirne altri ancora. Quindi, ho abbandonato l’idea di diventare un oceanografo.

Le sarebbe piaciuto…

Scrivere è un modo diverso di andare sott’acqua.

 

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