Ci sono lettere che nella loro apparente aritmia quotidiana, senza asperità, dischiudono un mondo. Oh, certo: una vita non si vive una volta e per sempre, sigillata, non è il singolo abito di un unico individuo. Accade che alcune vite – e non è invidiabile, questo – si spartiscano, spezzate, come un vaso di vetro. Alcuni preferiscono contemplare i vetri, ricostruire l’originario manufatto; altri lasciano che la scaglia scintilli sul braccio, liberando spire di sangue.
La lettera con cui Boris Pasternak si complimenta con Anna Achmatova per la nuova raccolta, “Dai sei libri”, uscita nel 1940 dopo quasi vent’anni di silenzio, va comparata a quanto accade a Marina Cvetaeva in quei giorni. Boris Pasternak accenna alle “code di persone allineate su due strade” per acquistare il libro di Anna Achmatova. In quelle code, tra quelle persone c’erano anche Marina Cvetaeva e il figlio, ‘Mur’, che così, appunto, appunta nel suo diario, l’8 luglio del 1940: “Siamo in coda per il libro della Achmatova dalle quattro di mattina”. Certo, c’è da rabbrividire: nell’era atroce, la coda per comprare un libro di poesie di Anna Achmatova, a cui il governo rivoluzionario ha ucciso il primo marito, il poeta Nikolaj Gumilëv, e recluso nei gulag il figlio, Lev. La contraddittoria affinità tra la Cvetaeva e la Achmatova è anche in questo, come capisce ‘Mur’:
“Secondo Kotchetkov cresce l’attesa anche per la pubblicazione di una raccolta di versi di mia madre («Se la Achmatova ha pubblicato un libro, perché non anche la Cvetaeva?»). In molti conoscono e apprezzano le poesie di mia madre. Ma ora tutte le opere poetiche più importanti della mamma sono bloccate alla dogana insieme ai nostri effetti personali, sotto sequestro”.
Nel giugno del 1940 Boris Pasternak aveva pubblicato la traduzione dell’Amleto del suo Shakespeare: gli era stata commissionata da Vsevolod Mejerchol’d, il grande regista, fucilato pochi mesi prima; la sua arte non corrispondeva ai dettami della nuova società sovietica. Nel 1939, il governo arresta il marito e la figlia di Marina Cvetaeva, che approda, dalla Francia, in Unione Sovietica, priva di ogni appoggio, di ogni sostegno, intellettuale, economico, affettivo. Pasternak – legato a lei da un rapporto epistolare durato un quindicennio – cercherà di starle al fianco: tragica la sua fine, alla corda, in un misero appartamento di Elabuga, ai confini di tutto.
Boris Pasternak e Anna Achmatova si ammiravano senza affetto, come bestie allo stesso fiume. Pasternak, carnivoro e raffinato, sempre inafferrabile, pare una lince; Anna, dall’aristocrazia equivalente, ha la foga, sprezzante, dell’airone. “Il fatto è che le poesie di Pasternak sono state scritte prima ancora del sesto giorno, quando Dio creò l’uomo. Lo avete notato? Nei suoi versi l’uomo è assente”, confessa a Lidija Čukovskaja, nel giugno del ’40. E poi: “Anche quando Boris Leonidovič morirà, non si riuscirà a spiegare in che cosa consistesse la forza del suo fascino”.
Schermaglie da poeti, ciascuno ostinato nel proprio istinto: che sia nudo, come un bimbo sulle barricate della luce, a torso scoperto, oppure chino nel canneto, o sotto le lenzuola; con i nastri tra i capelli o la fionda in tasca. Nel 1928 Boris Pasternak aveva dedicato una poesia ad Anna Achmatova, che attacca così:
“Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio”.
È come sempre una poesia allusiva, piena di vicoli abbaglianti, con tante porte attorno. Anna Achmatova, per così dire, risponde a Boris Pasternak nel 1936; una quartina – nella traduzione di Angelo Maria Ripellino – riassume il carattere retrattile, dunque universale, del poeta:
“Ha avuto in premio un’eterna fanciullezza,
la perspicacia magnanima degli astri;
la terra tutta è stata suo appannaggio,
ed egli l’ha divisa con tutti”.
Stando alla biografia della Achmatova, è una poesia importante, questa, che sancisce il nuovo corso della sua ricerca lirica: “Nel 1936 ricominciai chissà perché a scrivere poesie, e la prima fu Boris Pasternak”.
A differenza del rapporto con la Cvetaeva, tra impari, tra ragazzi fuori dal tempo, così simili da incenerirsi, quello di Pasternak con la Achmatova è un legame tra pari, che segue il nobile rituale di una stima senza eccedenze, che non oltrepassa i canoni sonori della cautela – del sospetto, perfino. Qualche mese dopo, il primo novembre del 1940, Pasternak scrive ancora ad Anna: la mannaia dei giornalisti di regime, la lordura dell’insulto, aveva colpito il suo libro.
“Cara, cara Anna Andreevna! Posso fare qualcosa per rallegrarVi almeno un pochino e farVi trovare piacere nell’esistenza, in questa tenebra che si è mossa un’altra volta le cui ombre, tremando, sento ogni giorno incombere anche su di me?”
Il conforto offerto dal poeta è lieve, tra i massacrati dell’epoca, tra i tormenti. Pasternak parla dei genitori e delle sorelle, sfollati, da anni, prima in Germania poi in Inghilterra, non senza pericoli, tanto che “mentalmente già me li figuravo morti secondo quell’immagine che un bombardamento aereo può suggerire all’immaginazione”; di Nina Tabidze, a cui ha dato riparo nella speranza di trovare notizie del marito, il poeta georgiano Tician Tabidze: “è detenuto a Mosca, e la notizia è stata accertata”. In realtà, Tician era stato fucilato nel 1937; la tattica della menzogna – tragica strategia delle anime morte – non faceva che rendere spettrale la vita dei vivi, senza grazia di prece quella dei morti.
Anna Achmatova morì nel 1966, sei anni dopo Boris Pasternak. Vissero, reduci di un tempo di grazia e di massacri – mentre amici, parenti, amanti morivano.
Naturalmente, il libro che raccoglie le lettere di Boris Pasternak ad Anna Achmatova – pubblicato insieme a un mannello di altre Lettere da Morcelliana nel 1983, “con un saggio di Jurij Malcev” – è irrintracciabile. Ci sono vite che urtano ancora, chiedono di accodarsi – mai di accomodarsi –, vanno costeggiate, per lo meno, per decidere della propria personale ascesi. Sono volti ampi come portoni, vite con il chiostro in mezzo. Ah, certo, il rischio che ciò che sollevi ti divori, che il cero che fu padre si traduca in un incendio. Averne, di libri simili…
***
28 luglio 1940
Cara Anna Andreevna!
Già da tempo vi sto scrivendo mentalmente questa lettera, già da tempo mi sto congratulando con Voi per la Vostra grande opera, della quale si parla ormai da due mesi.
Il Vostro libro io non l’ho. L’ho preso per leggerlo da Fedin e non ho potuto riempirlo di punti esclamativi, ma ho scritto delle note a parte e le trasporterò nell’esemplare mio, quando l’avrò acquistato.
Quando è stato pubblicato, io ero all’ospedale (per via di una sciatica), e non ho potuto assistere alla sensazione prodotta dalla sua apparizione, ma anche lì mi hanno raggiunto le voci sulle code di persone allineate su due strade per poterlo acquistare, nonché sulle circostanze favolose della sua diffusione. Uno di questi giorni è stato da me Andrej Platonov e mi ha raccontato che si continua a contendere per l’edizione già esaurita e che il prezzo per un esemplare già letto da altri è salito a centocinquanta rubli.
Non è sorprendente che, appena Vi siete mostrata in pubblico, abbiate vinto un’altra volta. Sorprende invece che mentre tutto ciò che esiste sulla terra viene ottusamente contestato la Vostra vittoria sia così piena e incrollabile.
Il Vostro nome, Achmatova, ha ancora una volta quel significato che gli permise di rappresentare la parte migliore della Pietroburgo da Voi descritta. Con la forza di una volta esso mi ricorda quel tempo in cui non avrei osato credere che un giorno Vi avrei conosciuto e avrei avuto l’onore e la fortuna di scriverVi. Quest’estate esso significa nuovamente tutto ciò che significava allora, ed inoltre qualcosa di nuovo e di eccezionalmente grande, che negli ultimi tempi avevo notato separatamente, ma che ancora non avevo mai visto in unione con ciò che già conoscevo.
Il significato antagonistico della Vostra nuova produzione in Iva (“Il salice”) è troppo legittimo e potente per sembrare semplicemente una continuazione o una modificazione della vecchia. Si potrebbe parlare dell’apparizione di un artista nuovo, sorto inaspettatamente in Voi accanto al vecchio, tanto sorprendente è la superiorità di questo realismo assoluto sulla poesia impressionistica, rivolta alla sensibilità, nonché la perfetta indipendenza del pensiero dall’influenza del ritmo.
…In generale siete unica. In effetti, io, Severjanin e Majakosvkij dobbiamo a Voi enormemente di più di quanto si è soliti pensare, e questo debito supera di molto qualsiasi nostro riconoscimento, poiché esso è incalcolabile. Quanto tutto ciò ha colpito l’immaginazione, è stato assimilato e ha suscitato l’emulazione! Che esempi di pittoricità raffinata e di precisione istantanea!
Bene, arrivederci, Vi bacio la mano. Ancora una volta un ardente grazie da tutti noi per la realizzazione di questo prodigio.
Vostro, Boris Pasternak