02 Luglio 2022

Dio opera nell’esagerazione. Discorso intorno all’opera di Luca Doninelli

Una volta, il mio amico regista Giuseppe Rocca, mi ha raccontato una scena di uno spettacolo di Carmelo Bene. La scena è la seguente: un condannato alla crocifissione si crocifigge da solo, inizia prima dai piedi, inchiodandoseli, poi, a fatica, come può, riesce a inchiodarsi una mano, alla fine però resta con un braccio libero, senza poter completare la sua opera.

È una scena insensata già dalle premesse, ma incisiva, forte, sebbene assurda alla luce dei risultati, e comunque paradossale, oserei dire grottesca. Sono tante le riflessioni che sorgono in merito a questa immagine, senz’altro emblematica di un modo di essere, oltre che di una cultura. La negazione e l’irriverenza colpiscono, e attraverso queste è come se tutto il Novecento fosse arrivato al capolinea, o piombato nel nulla: il sacrificio di Cristo è ridotto ad autolesionismo, cioè non è servito a niente. Oppure, viene da chiedersi perché il nostro Occidente continua a manifestarsi nella colpevolezza assoluta, fino all’impossibile, fino a negare la sua stessa rappresentazione ideale e drammatica da cui tutta la coscienza occidentale è scaturita: la Croce come sorgenza di riscatto per l’uomo sofferente, ogni uomo. Allo stesso tempo si può dire che il suicidio non si compie, non si può compiere nell’esempio e nel nome di Cristo, Gesù salva. Merito comunque a Carmelo Bene di aver suscitato, nel passato, polemiche e dibattiti ancora aperti, di avere dato forma all’immane nostro travaglio, perseverante e senza uscita.

Rifletto: non è un Cristo arreso quello di Carmelo Bene, è un Cristo in cui predomina l’attività. Qui il mio pensiero si prende una rivincita, associa per conto suo, cambia e scambia registro, mi sembra di ridere al centro di una platea seriosa, quasi preso da un motto di spirito irresistibile che non so da dove mi venga. Forse dalla signora che abita al piano di sopra che quando esce di casa la vedo tenere con una mano il cellulare e nell’altra ha legato il guinzaglio del cagnolino; dei tre figli, poi, due sono in monopattino e uno è in bicicletta. La signora grida di non dimenticare il carrello della spesa, e intanto lascia la porta aperta dietro di sé.

Mi pare la versione ridicolizzata della crocifissione di Carmelo Bene: vogliamo fare tante cose contemporaneamente ma nessuna ci soddisfa, nessuna si realizza, ci fa felici, partendo dal presupposto che la felicità non esiste e che la pratica è tutto. Ma, mi permetto di dire, a costo di risultare ipercritico, che la praticità è una cosa e l’essere costruttivi è ben altro. Allora si spiega il perché, il perché della nostra condizione.

Pasolini, in un’intervista televisiva, affermava che aveva bandito la parola speranza dal suo vocabolario. E quelli che ancora la vivono?, mi domando. La mia esperienza, ad esempio, è stata diversa. A me non è andata così. I miei incontri, le mie frequentazioni mi hanno portato da un’altra parte. Il vero scandalo resta la Croce, nel senso che nessuno può annullarsi pienamente, questo il suo significato, che ha sul versante opposto l’inizio supremo, l’origine: il mistero del Dio fatto uomo. Noi siamo dentro questo. Mi dico: fino a che punto possiamo negarci?, fino a che punto possiamo compiere la nostra fine? I calchi dei morti di Pompei illustrano meglio quello che voglio dire, forme di corpi polverizzati che ritornano a essere corpi, sebbene di gesso, ma la cui forma nasce dal vuoto che la morte ha lasciato, imprimendosi nell’eternità e per l’eternità, impressa nella terra, e che è durata nella terra, che dalla terra ritorna a illuminarsi. Certo non sono più loro, non sono più quegli uomini che speravano, che soffrivano, che volevano vivere, intenti nelle loro mansioni quotidiane, sconvolti dall’improvvisa fine, dalla sofferenza, dalla paura, ma quello che è impressionante di questi reperti è che vivono ancora in loro l’umanità, la sorpresa delle loro carni scabre, le loro superfici di gesso, che una volta sono state carne pulsante, anelito di vita, respiro, passione, desiderio, pietà per sé e per gli altri, fede. La loro volontà di vita è ancora lì ed è viva nel mistero del farsi di nuovo forma, suggestione della forma, o evocazione, addirittura miracolo, proprio perché stanno a indicare che il mistero nostro, degli uomini, non muore. I calchi di Pompei ce lo confermano: “Badate che siamo insopprimibili – ci dicono –, si torna, si torna, sebbene muti, immobili, nature morte, sebbene questo, non è ancora detto tutto!”.

È un po’ come dire che non ci si libera mai dell’umanità, dell’umanità profonda dell’essere. Tutta l’intera umanità nostra che olocausti e tragedie non riescono a eludere, a cancellare niente. Pensiamo a “La metamorfosi” di Kafka, pensiamo alla conclusione di quel mirabile e terribile racconto, veramente drammatico e misterioso, sovranamente misterioso. Un giorno, in una libreria, colgo al volo le parole di una persona che si lamentava di averlo letto, infastidita dal senso di angoscia che le aveva trasmesso, che le pareva quasi di aver subito. In realtà quella piccola opera è straordinaria proprio per la riflessione continua che impone. Penso alla fine, quando la salma del grande insetto viene buttata via con la scopa, spazzata via come se fosse possibile liberarsi di una cosa come quella. Viene da chiedersi: dove può essere gettato via il cadavere di uno scarafaggio di quelle dimensioni? Si può dire che il senso della fine è inappagabile, oppure è l’ordinarietà del gesto a non convincerci? Crocifiggersi e non riuscire nemmeno in quello, nemmeno in quel gesto disumano, irriverente, sacrilego, di buttare via l’umanità, un’umanità per giunta impaurita della vita, perché Gesù è morto davvero sulla croce e ha sofferto davvero come tutti noi. Il vero scandalo, oggi, è avere speranza, o avere speranza di attenderla, o aspettarsi la vera speranza, la speranza di un nuovo incontro, che nonostante tutto operi davvero.

A me è successo di incontrare Luca Doninelli e per dire di lui dovrei dire la mia vita, il mistero di quell’incontro e la commozione che prese mio padre nel leggere un suo articolo che parlava di un mio libro in cui mi dichiarava scrittore cristiano. Fu un’apertura nel mio destino. Una proposta di cammino in compagnia, dove la contaminazione, tipica della composizione letteraria, non sta nel genere, ma nello sconfinamento dell’orizzonte a cui apre la Croce, nella vastità dell’orizzonte che si delinea attraverso l’umanità della Croce; umanità spalancata sul mondo, sugli uomini e le cose del mondo. Incarnazione e Croce sono la sua trama, penetrano la realtà tutta, simile allo scorrere dell’acqua, che trova ogni passaggio per tentare la via, e se non la trova scava, compie opera di scavo, anche opera minuta, ma nei secoli, nel tempo. Ecco la sua millenaria fatica, la sua pazienza abissale, che è dedizione e cura, e non conosce ostacoli.

La nostra amicizia è stata segnata dalla fede, e Dio acuisce tutto, opera nell’esagerazione quando accentua l’amicizia, o ti fa innamorare, o migliora la profondità di un pensiero, o aggiunge creatività a creatività, o permette di scrivere meglio, o di dipingere meglio, o di cantare e suonare meglio, o di ascoltare, parlare, leggere e guardare, animati da maggiore verità, oltre la verità di ciò che si ascolta, si dice, si legge e si guarda, di amare con più convinzione. O disillude pienamente, drasticamente e con coraggio, facendo sprofondare ogni sicurezza, cancellando qualsiasi certezza, azzerando anche la minima verità che a stento trattenevamo fra le nostre povere dita. Piccole dita che ancora sperano di recuperare quell’ingannevole senso di vita che ci ha guidato per le nostre strade. Ricordo Luca a Firenze, negli anni Novanta, al Gabinetto Vieusseux, dopo una conferenza sulla letteratura con insigni intellettuali, ebbene mi girai e lo vidi che mostrava i disegni dei suoi figli, allora bambini, agli stupiti relatori, imbarazzati per tanta semplicità, per tanta maniera diretta, lì dove sembrava che ogni cosa risultava impegnativa, complicata, difficilmente risolvibile da animo umano.  

Quante cose, quante cose da capire, quante cose da conoscere! Un moto di rivelazione le accompagna. La morte stessa rivela. Ne “La verità futile”, c’è il mistero di una inadeguatezza che si afferma nello scrivere. Scrivere per accondiscendere alla madre del protagonista, la quale un giorno dice al figlio di scrivere, di fare lo scrittore, e a questo proposito gli regala un quaderno. Anche il gesto di Carmelo Bene può essere inteso come inadeguatezza, dove ad agire è proprio l’impossibilità a vivere la morte come l’ha vissuta il Cristo che ci rende incompiuti, da lì l’inadeguatezza a compiere pienamente la propria crocifissione. Ma nel libro appena citato di Doninelli la vita è dono, la verità, anche se piccola, rivela questa forza sua che trascina tutto, che si compie in tutto e diventa affermazione del divino, di qualcosa che si impone, che si presenta nel suo esserci per noi, adeguatamente a noi, alla povera cosa che siamo, anzi, proprio perché povera cosa, siamo più bisognosi e adeguati ad accettarla, a viverla nel più segreto dei giorni a venire.

Dare la vita per un altro. L’importante per il cristiano è questo, e tutta l’opera di Doninelli è radicata in questo desiderio. Ché di desiderio si tratta. Ma si può amare ancora?, si può vivere così?, si chiede Doninelli nei suoi libri. È possibile a patto che ci si aspetti qualcosa, a patto che Dio ci mostri il suo volto, che abbia pietà di noi mostrandoci il suo volto, che è quello che sperimenteremo in paradiso. Ognuno nella possibilità data del vedere, di conoscere, che è possibilità di infinito, immisurabile possibilità, se non nell’infinito di Dio. Sebbene anche la generosità ha un limite, con la generosità sperimentiamo il limite della nostra energia, che è dramma, spirito del dramma che si afferma, ma con un effetto dirompente di consapevolezza, inimmaginabile perché è ancora tutto da dire, ancora tutto nella creazione, nel movimento che contiene a crearsi nei nostri corpi, a incarnarsi in noi, e attraverso i nostri corpi in cerca, in perenne ricerca.

Nel romanzo “La mano”, la tentazione della velocità non fa superare la musica, la possibilità di bellezza che ha in sé la musica. Nessuna protesi, nessuna sostituzione di noi stessi può aiutarci a vivere. Bisogna esserci. L’arte non è una protesi, niente può sostituirci, e la questione che l’artista non vive per far vivere il suo fantasma, la sua finzione, e si isola beato per non vivere, a me non ha mai convinto. L’arte è conoscenza, è approfondimento di un significato che manca, aggiunge vita a vita. La più bella frase che ho sentito me l’ha detta giorni fa una mia amica, all’improvviso lei mi fa: “Tu mi dai quello che manca a me, io ti do quello che ti manca”. Portentoso, vale per l’intera esistenza!

Balena una luce precaria nei libri di Doninelli, “luce gialla e cattiva”, mi pare dica lo scrittore in un memorabile racconto uscito sulla rivista Nuovi Argomenti, negli anni Novanta, intitolato “Le diverse morti di mio padre” che ricordo mi colpì molto. È interessante ricordare il plagio che il racconto subì, pubblicato su una rivista letteraria diretta da Idolina Landolfi (figlia del noto e grande scrittore Tommaso Landolfi). Naturalmente è impossibile controllare tutto quello che è già stato edito altrove. Passi questo, ma l’interessante è notare che il plagiatore aveva sostituito il personaggio del padre con quello della madre. Lo aveva trasposto cioè al femminile. Ecco che il plagio ci viene in aiuto, nell’originale la luce è legata alla situazione del padre non della madre, ed è gialla perché cattiva, vale a dire falsa, giacché la luce, per definizione, è bianca. Luce falsa per permetterci di distinguere ciò che è vero dal falso, ciò che è moralmente vero da ciò che è immoralmente falso. L’amore fa il resto, l’amore permette di comprendere tutto, quello che veramente conta è l’amore del padre, anche dove si annida il falso. L’amore che ci soccorre nel giudizio. “Non io ma il Padre mio” dice Gesù.

Così pure mi ha sempre colpito il momento in cui ne “La revoca”, il figlio va a prendere un bicchiere d’acqua in cucina per il genitore morente, ma al ritorno egli è morto. E sembra quasi che non sia servito a niente andare a prendere quell’acqua, lasciando il figlio in una dimensione assurda, che attende risposte e la risposta è rimandata chissà a quando. Si deve attendere che quell’acqua del bicchiere arrivi al suo destinatario, al sofferente che aspetta (il padre come il figlio), si deve attendere che arrivi un compimento, la vita piena, attesa, che consiste in luce buona, pacificata, perché ci dev’essere questa luce, è stato promesso, è la promessa che ci fa andare avanti, che ci fa uscire di casa, partire, viaggiare, arrivare in un altro posto, in un’altra città, col cuore in subbuglio, in agitazione perché la promessa che qualcuno ci aspettava lì era sicura, ma come sarà? È la stessa insorgenza che ci prende quando si pensa a che cosa faremo davanti a Lui, Dio, e ci si scoraggia, è cosa faremo che ci scoraggia, addirittura emerge la paura della noia, di nuovo la paura che ci perseguita, e se ci sarà davvero giustizia, se ci ameremo davvero, se ci sarà davvero amore per ognuno di noi, se davvero sarà amore. Ce lo domandiamo per quanto siamo stati delusi, per quanto siamo abituati alla delusione, quindi ci si chiede, tremanti, se sarà uno stare insieme con gli altri veramente fiducioso, sereno, o sarà la solita critica a investirci, talmente che siamo terrestri, insicuri che tutto finisca, che ci sia sempre la fine improvvisa, che ce ne sia sempre una nuova, crudele, peggiore, imprevedibile, ma non imprevista, no, in quanto sappiamo che dobbiamo morire. Certo la faccenda non è bella, a volte il pensiero stritola, ci fa mancare il respiro di notte, sembra di finire così, con un bicchiere d’acqua che non serve a niente, che non è riuscito neppure a dissetarci in tempo, prima della fine. Dimentichiamo, o non siamo in grado di pensare, che quell’acqua, quel bicchiere pieno d’acqua è l’anticipo che lo stare con Dio è già tutto, giacché stare con Dio non ci si rende conto di quanto è superiore ai nostri schemi, alle nostre idee. Ecco, forse in quella scena del bicchiere d’acqua c’è tutto questo.

Nel 2014 mando una email allo scrittore.

Caro Luca,

voglio dirti che il tuo romanzo è una scheggia che si eleva nell’infinito (n. d. a.: è appena uscito “Fa’ che questa strada non finisca mai”), quando alla parola fine parte un colpo supremo che attraversa i secoli dal punto in cui siamo originati, correndo oltre la nostra carne e nell’aria. Il tuo libro mantiene uno sguardo fermo e deciso, che è impressionante questo sangue che da lì a poco scorrerà, e continua a scorrere, per cui Giuda rappresenta un canale di passaggio, un canale di passaggio della verità che sta in Gesù, che viene dal rapporto con Lui. Hai voluto guardare dentro la sconfitta del mondo, e ripercorrere quella strada terribile, per poterla illuminare di nuova luce, o di antica luce, di quella luce umana, unica, speciale, che era già dai tempi antichi, fatta di drammatiche e fosche luci di fiaccole. Come si fa a non pensare al Caravaggio de “La cattura di Cristo”, conservata a Dublino, in cui lampeggia in primo piano la corazza di un soldato. E così pure le tue parole che spesso hanno punti lampeggianti di verità improvvisa! Ma soprattutto, mentre leggevo il tuo romanzo, non ho fatto altro che ripensare alla tua descrizione della grotta di Betlemme, in un altro libro: “Cattedrali”. Leggendo “Fa’ che questa strada non finisca mai”, si avverte lo stesso senso di buio, la stessa immensa ferita umana in cui sembra di cadere, cadiamo noi tutti, crepa di sprofondamento, di inabissamento, in cui si coglie il nodo drammatico del mistero, in cui la parola che ci sostiene è la parola amicizia, solo quella ci soccorre, ci conforta, l’amicizia di Gesù, che è per ognuno di noi: la cosa che ci salva e non smette di farci compagnia, anche se siamo lontani, afflitti e soli, caduti a testa in giù per il peso dei nostri pensieri, caso mai risentiti a causa di qualcosa che non è andata come volevamo, e ci accapigliamo per far procedere strategie totalmente inutili. Ognuno, quando scrive vuole scrivere qualcosa che manca alla letteratura, che deve ancora essere detto, o almeno essere detto in quel modo che ci sta a cuore. Tu, ogni volta lo fai, aggiungi qualcosa che occupa uno spazio di piena e profonda umanità, nonché di pensiero. Questo siamo, questo ci fa scrittori, per un senso che non è nostro, ma che ci abita.

La verità, azzardo a dire, è che Doninelli racconta sempre il paradiso (il che appare incredibile per uno che ha scritto “Baedeker inferno”, un libro originalissimo, che andrebbe ripubblicato); qualunque vicenda racconti è sempre un’idea di paradiso che traspare. Egli invoca segretamente il paradiso, come la luce che vediamo attraverso le assi di legno delle porte malandate, o delle odierne persiane. “La luce viene dalle finestre” scriveva lui da bambino. Lo scrittore racconta che a scuola scrisse in un tema che la luce dell’aula veniva dalle finestre, ma provò molta sorpresa nel sentire che il maestro gli diceva di no, che lo correggeva dicendogli, anzi rivelandogli una verità assoluta e celeste, cosmologica e universale, che comprende tutto, in cui ci siamo tutti noi e persino le parole che scrivo adesso, cioè: la luce viene dal sole! La stessa frase che si sentì dire il piccolo Luca dal suo maestro e che ripeto anch’io ai miei alunni, con grande loro conforto. Ecco, da quel momento è nato lo scrittore Doninelli, che ansiosamente cerca di raggiungere quello che ha già raggiunto, ha raggiunto in sé (“il paradiso è celato in ciascuno di noi” dice Dostoevskij, nei Fratelli Karamazov), e per pienezza di questo dono anticipato, ricevuto fin dagli inizi e in seguito coltivato, vissuto nei rapporti, nell’amicizia (con Giovanni Testori, con don Luigi Giussani, ma insieme a tanti altri), ha possibilità generosa di trasmetterlo.

Egli non è scrittore escatologico, semmai in lui emerge la speranza del cristiano di fronte al male, la conferma è ne “Le cose semplici”, dove i personaggi, ma che dico?, l’intero mondo, Milano, il suo Duomo, la sua Madonnina, il suo cielo, aspettano, sono lì ad attendere la luce che viene dal sole. Una luce che non sia gialla e cattiva. Doninelli si può dire che ha impiegato il suo tempo per ritrovare quella luce vera, rivelata dal suo maestro delle elementari. Luca ce ne ha messo d’impegno per ritornare a quella luce, ma ha dovuto passare per il buio dell’attesa dei giorni a venire, i giorni che ci hanno separato, ma ci hanno anche toccato, giacché la felicità non è irraggiungibile, come si dice, è che è così grande!, talmente grande e comprensiva di tutto che è difficile viverla. Ci vuole una grazia parimenti grande, infinita, una comunione delle anime e dei corpi, delle speranze e delle attese, che non si compie mai del tutto, o solo per accenni, per prospettive che si aprono all’improvviso, di traverso alle strade principali che percorriamo, come accade di vedere nelle città di mare, quando girando lo sguardo da un lato si spalanca l’azzurro, che non è solo colore, è azzurro + luce + conferma + attimo + speranza. Respiro-di-quell’attimo-in-certezza-che-possa-affermarsi. Che-possa-essere-respiro: ogni-parola-evento-e-respiro. Che possa essere, saldarsi in noi.   

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