19 Luglio 2024

“Sono stremata di desiderio”. Per l’anniversario de “L’amante”, il romanzo di Marguerite Duras

Nel 1992 esce in sala L’amante, di Jean-Jacques Annaud. È un film, in fondo, didascalico, che procede per elementi di primi, che deve quasi tutto alla protagonista, una seduttiva Jane March. Pochi anni prima, Annaud aveva firmato un film equivalente e opposto: L’orso. Nessun dialogo, pura natura, la belva come protagonista. In qualche modo, anche la ragazzina che scopre l’ebbrezza del sesso in Indocina è una piccola belva – ha i denti della faina, vuole mordere tutto.

L’amante, come si sa, è tratto – fin nelle minuzie – dall’omonimo libro di Marguerite Duras. Il libro, pubblicato nel 1984 dalle éditions de Minuit, vinse il Goncourt, ottenne un successo pressoché planetario. In Italia uscì per Feltrinelli, nel 1985, nella traduzione di Leonella Prato Caruso; gode ancora di infinite ristampe. In copertina, di solito, campeggia la fotografia di una giovane Marguerite: di cognome faceva Donnadieu. Il viso è spavaldo, gli occhi ti penetrano, hanno il becco, le labbra sono eccessivamente colorate, pronte all’offesa. È quasi impossibile riconoscere in questo volto quello della Duras come la conosciamo, la donna di successo, la polemista, il mito. Un viso, per lo più, da rospo.

“Presto fu tardi nella mia vita. a diciott’anni era già troppo tardi. Tra i diciotto e i venticinque anni il mio viso ha deviato in maniera imprevista. Sono invecchiata a diciott’anni… Mi sembra di aver sentito dire che qualche volta un’accelerazione del tempo può investirci quando attraversiamo l’età giovane, la più esaltata della vita. È stato un invecchiamento brutale. L’ho visto impossessarsi dei miei lineamenti a uno a uno, alterare il rapporto che c’era tra di loro, render gli occhi più grandi, lo sguardo più triste, la bocca più netta, incidere sulla fronte fenditure profonde”.

Sono le prime righe de L’amante. Quasi che la scoperta del sesso, quella tigre che chiamiamo amore, ma sfugge a ogni tassonomia e forse non esiste, ti sottragga l’identità. Forse si è irriconoscibili dopo l’amore – forse si ama, si fa l’amore, perché qualcuno ci sfiguri. Da qui l’idea – inesatta – che la verginità sia figura dell’eterno, corpo messo in ostensorio. Oh, no… evangelicamente, un corpo deve essere consumato, perché se ne riveli il seme; deve sanguinare per sorgere – chi lo trattiene è per sbocciare, forse, nella bocca di Dio.

Quando pubblica L’amante, Marguerite Duras compie settant’anni; la storia è ambientata alla fine degli anni Venti. Non ricordavo, rileggendo, che ne L’amante comparisse anche la Parigi occupata, Drieu la Rochelle “visibilmente malato d’orgoglio, parlava poco”, Brasillach, “forse”, Sartre assente, “non veniva mai”, mai a sporcarsi le mani. La Duras descrive il salotto di Ramon e Betty Fernandez. Ramon Fernandez era una figura istrionica: socialista, comunista, fascista, finì per farsi fedele a Vichy. “Ramon Fernandez parlava di Balzac. Si sarebbe stati ad ascoltarlo per notti e notti… Parlava di Balzac come se parlasse di se stesso, come se una volta avesse tentato di essere anche lui Balzac”. La palude umana: questo è il luogo d’elezione della Duras, che ha il corpo di un anfibio, di un rospo.

“Erano collaborazionisti, i Fernandez, e io, due anni dopo la guerra, membro del PCF. L’equivalenza è assoluta, definitiva. È la stessa cosa, la stessa pietà, la stessa invocazione di aiuto, la stessa incapacità di giudicare, la stessa superstizione che consiste nel credere a una soluzione politica del problema personale”.

Le epoche ambigue – l’occupazione – e i luoghi ambigui – l’Indocina – favoriscono la sessualità caotica, il disastro del corpo. Alcune volte si ama in modo apollineo, altre lo si fa come fosse un sotterfugio, una fuga – si ama per sconfinare dal sé, per sconfiggersi. Chi fa l’amore per un principio atletico, come andasse in palestra, ad annaffiare il proprio io-gorgiera, è un poverello, dell’amore non ha assaggiato neppure la gronda, vada, piuttosto, a giocare a calcetto.

Naturalmente, ne L’amante c’è l’amore. L’amore carnale, che scarnifica. La degradazione come forma di esaltazione, di esattezza.

“Guardavo quel che faceva di me, come si serviva di me, non avevo mai pensato che si potesse farlo in quel modo, andava oltre le mie aspettative, assecondava il destino del mio corpo. Così ero diventata la sua bambina… Fa l’amore ogni sera con la sua bambina e talvolta si spaventa, si preoccupa della sua salute, come se scoprisse che è mortale e pensasse improvvisamente di poterla perdere”.

La lussuria di farsi trattare da sgualdrina, di darsi senza trattative; la lussuria di rinnegare il cinese, abbiente, un abominio per il suo ambiente:

“Non è più il mio amante in presenza del fratello maggiore. Continua a esistere ma non è più nulla per me. terra bruciata. Il mio desiderio, ubbidiente al fratello, respinge l’amante. Ogni volta che li vedo insieme, mi sembra di non poterne sopportare la vista. Rinnego il mio amante proprio per quel suo corpo gracile, per quella debolezza che mi travolge di piacere. Davanti a mio fratello diventa uno scandalo inconfessabile, un motivo di vergogna da tenere nascosto”.

Rinnegare è il solo modo per riconoscere pienamente. Chi rinnega, nel lignaggio d’amore, è il fedele.  

L’altro aspetto che de L’amante ulcera è la famiglia. Unione data per disgregazione e disprezzo. Lei che è succube – perfino nella dittatura del corpo – dal fratello più grande e che ama il più piccolo (“L’amore insensato che provo per lui rimane per me un insondabile mistero”). Tutti stigmatizzati dalla tragedia che grava sulla famiglia, retta da una madre di minacciosa bontà. Ne L’amante la Duras passa dall’io al lui al noi, i nomi scompaiono, i pronomi personali si perdono nella selva dei ricatti; tutti sono sotto il giogo del desiderio, in ostaggio:

“Parlavamo anche, naturalmente, di venir divorati dalle tigri se non stavamo attenti o di annegare nel rac se continuavamo a nuotare nella corrente”.

Nessun albume paesaggista – chessò, quello di Kipling, Conrad, Stevenson, ma anche di Malraux – deforma la scrittura di Marguerite Duras. L’Indocina è un moto del sentimento, null’altro che carne che crolla. È il primo livello dell’amore, quello che impone di uccidere l’amato, per sprigionarsi. D’altronde, quando si ama non si vede il profilo del proprio amore: lo riconosciamo dopo, semmai, più tardi, quando è troppo tardi; prima, la sicurezza del corpo fa specchio all’insicurezza del sentimento. Sentire è il contrario di provare. Mettere alla prova: improvvido gesto che getta nel tradimento.

Poi c’è Hélène Legonelle, “una delle cose più belle che Dio abbia creato”, puro corpo, corpo di eccezionali eccessi, “rotondità dei seni portati come un accessorio e offerti alle mani altrui”. Quel “corpo sublime”, chiuso al sesso, inebria la protagonista de L’amante, che se ne vuole saziare. Piuttosto, vorrebbe che se ne saziasse il suo amante: la donna che procura al proprio uomo una preda che lo soddisfi, esiste amore più conturbante?

“Il corpo di Hélène Legonelle è pesante, ancora innocente, la morbidezza della pelle è quella di certi frutti, quasi al di là della percezione, illusoria, sconvolgente. Hélène Legonelle fa venir voglia di ucciderla, fa balenare il sogno meraviglioso di darle la morte con le proprie mani… Sono stremata dal desiderio di Hélène Legonelle. Sono stremata di desiderio. Voglio portare con me Hélène Legonelle, là dove ogni sera, ad occhi chiusi, aspetto il piacere che mi fa gridare. Vorrei dare Hélène Legonelle a quell’uomo perché facesse su di lei quello che fa su di me”.

Chi ha l’onore del nome, ne L’amante, è soltanto la preda, la ricca messe, l’erbivoro – antico segreto degli innominabili.

Ogni relazione significa: disporre di trappole – poi, c’è chi usa le corde e una sorta di legalismo delle promesse mai mantenute – più nobile è imbracciare l’arco, fare del talamo una tenuta di caccia.

L’amante è il contrario di Lolita: la scrittura, qui, non riscatta il corpo del reato, l’esuberanza verbale non vela il mistero. L’inconsolabile del linguaggio va consumato: scrivere non è innalzare un labirinto ma spargere il sale sulla città massacrata, sul capolettera della ferita. Marguerite Duras agisce in direzione opposta a Marguerite Yourcenar. L’amante va letto in contrasto a Il colpo di grazia e ad Anna, soror. Da un lato, la reticenza dell’amore dissoluto e dell’amore incestuoso; la Yourcenar s’introduce nel non detto, nell’indicibile, con grazia rabdomantica. La mente sopraffà il corpo, il Cristo condannato ha un viso serafico, oppressa l’insopportabile sofferenza. Nella Duras, tutto va squartato, a concime di condor; voluttà dell’esibizione. Fare l’amore per osservare con astuzie da anatomopatologo le smorfie dell’altro – e rubargli l’anima nel momento supremo dell’abbandono.

L’amante compie quarant’anni – lo stile della Duras è stato talmente abusato da apparire fin troppo facile. È il rischio del successo, dell’inimitabile dono di diventare di tutti. Ma la purezza e l’impuro vivono nello stesso arco sacro, sotto il cielo dello stesso dio: il resto – fanghiglia senza artigli – è appropriato alla mediocrità di cui si beano i contemporanei, così pieni di sé da aver scordato l’istinto, da ignorare le prime sillabe della salvezza.  

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