Marguerite Duras è stata una scrittrice impulsiva, compulsiva, instancabile. Parte della sua vita artistica si è giocata nel cinema: ha scritto per Alain Resnais (Hiroshima mon amour), Peter Brook (Moderato cantabile), Tony Richardson (Mademoiselle, insieme a Jean Genet), tra gli altri. Soprattutto, ha tradotto sullo schermo i suoi libri: da La Musica (1967) a Les Enfants (1985), passando per il film più noto, India Song (1975). Questa autrice le cui parole sono scritte per essere viste, hanno la nitidezza dell’occhio, ha girato, tra pellicole originali e riduzioni dei propri testi, diciannove film nell’arco di vent’anni. “Il suo approccio, il principio della sua scrittura cinematografica, è guidata dal paradosso di un cinema che tenta di ‘distruggere il cinema’”, è scritto nella quarta di Le cinéma que je fais, raccolta di écrits et entretiens della Duras curata da François Bovier et Serge Margel per P.O.L., ricca di inediti, di testi ormai introvabili. L’editore P.O.L., tra l’altro, ha nel suo catalogo il testo più estremo, l’ultimo, della Duras: s’intitola C’est tout, è apparso nel 1995, poco prima della morte dell’autrice, il 3 marzo del ’96. Il testo (passato di sfuggita per Mondadori, anni fa), in realtà, è un diario in cui Yann Andréa, giovane amante, compagno, factotum della Duras dal 1980, raccoglie le parole ultime della scrittrice – bagliori di verbi, barlumi di un dire disancorato dal mondo, scalciando i nomi nel niente. L’Amant era uscito nel 1984, la scrittrice aveva vinto il Goncourt e raccolto una fama mondiale; dal 1988 diverse crisi la relegano, di fatto, in un lento, claustrale, indignato silenzio. C’est tout parla, in verità, della spoliazione estrema, sul ciglio della morte: è tutto, come a dire, tutto è nulla. Caracollare nell’abisso del senza memoria, pasteggiare con parole appena sussurrate e defunte – dove tentiamo il definitivo, di solito, non scopriamo che il lapsus, l’insensato, la lapidazione dell’identità. Che il libro – di cui proponiamo alcune lasse – sia artificioso, estorto, a volte patetico, non fa che aumentarne la tragicità, a relegarlo tra le testimonianze oblique – chessò, le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch o i Tre diari raccolti da Ingmar Bergman –, contraffatte dal male, dunque, per destino di contrasto, affascinanti.
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21 novembre, pomeriggio, rue Saint Benoît.
Y.A.: Che dire di te?
M.D.: Duras.
Y.A.: Che dire di me?
M.D.: Indecifrabile
Più tardi, quello stesso pomeriggio.
Qualcuno che vaga lungo il tempo.
Sono senza identità.
All’inizio, fa paura. Poi trapassa in un movimento di gioia. Poi si blocca.
La gioia. Cioè: una quasi morte.
Assente dal luogo da cui parlo.
Più tardi, ancora.
Tutto è una questione di tempo. Farò un libro.
Lo vorrei, ma non è sicuro che scriva un libro.
Desiderio aleatorio.
22 novembre, pomeriggio, rue Saint Benoît.
Y.A.: Hai paura della morte?
M.D.: Non lo so. Non so rispondere. Non so più niente da quando sono arrivata al mare.
Y.A.: E con me?
M.D.: Ora e allora, è amore tra te e me. Morte e amore. Sarà quello che vorrai.
Y.A.: La definizione che dai di te.
M.D.: Non lo so come in questo istante: non so che scrivere.
Y.A.: Il tuo libro preferito in assoluto.
M.D.: Une barrage, l’infanzia.
Y.A.: Andrai in paradiso?
M.D.: No. Non farmi ridere.
Y.A.: Perché?
M.D.: Non so. Non ci credo.
Y.A.: E cosa rimane dopo la morte?
M.D.: Nulla. I vivi che si sorridono, che ricordano.
Y.A.: Chi si ricorderà di te?
M.D.: Giovani lettori. Piccoli studenti.
Y.A.: Cosa ti interessa?
M.D.: Scrivere. Una occupazione tragica, cioè relativa al flusso della vita. Ci sono dentro senza sforzo.
Più tardi, quel pomeriggio.
Y.A.: Ha un titolo il prossimo libro?
M.D.: Certo. Il libro della sparizione.
23 novembre, Parigi, ore 15.
Voglio parlare di qualcuno.
Un uomo di venticinque anni al massimo.
Molto bello, vuole morire prima che la morte lo rapisca.
Lo amavi.
Più di tutto.
La bellezza delle sue mani.
Le sue mani che avanzano con la collina – ora distinte, chiare, luminose di una grazia infantile.
Ti bacia.
Ti attende come colui che distruggerà questa grazia derelitta, dolce e ancora calda.
Dono a te, intera, da tutto il mio corpo, questa grazia.
Più tardi, quel pomeriggio.
Volevo dirlo – che ti ho amato.
Gridalo.
È tutto.
27 novembre, domenica, Rue Saint-Benoît
Stare insieme è l’amore, la morte, la parola, dormire.
Più tardi.
Y.A.: Cosa diresti a te stesso?
M.D.: Non so più chi sono.
Sono con il mio amato.
Il nome, non lo so più.
Non è importante.
Stare insieme come con un amante.
Vorrei che fosse successo a me.
Stare con un amante.
Silenzio, e poi.
Y.A.: A cosa serve scrivere?
M.D.: È tacere – e parlare. Scrivere. Cioè: cantare un paio di volte.
Y.A.: Danzare?
M.D.: Certamente – è il compito. Ballare: lo stato dell’individuo. Mi è sempre piaciuto, danzare.
Y.A.: Perché?
M.D.: Non lo so più.
Silenzio, e poi.
Y.A.: Eravate brava?
M.D.: Sì. Così almeno mi pare. La scrittura è vicina al ritmo della parola.
Un altro giorno, rue Saint Benoît.
Per Yann.
Per nulla.
Il cielo è vuoto.
Amo quest’uomo da anni.
Un uomo che non ho nominato.
Un uomo che amo.
Un uomo che mi lascerà.
Il resto – dietro, davanti, intorno a me – mi è indifferente.
Io amo.
Tu non puoi pronunciare il nome con cui lo hanno rivestito i genitori.
Amanti sconosciuti.
Ancora, l’attesa.
Mi domandi, attesa di cosa, e rispondo: non lo so.
Attendere.
Nel divenire del vento.
Forse domani ti scriverò ancora.
Possiamo vivere di questo.
Ridi e piangi.
Parlo del tempo che scaturisce dalla terra.
Mi manca il respiro.
Devo smettere di parlare.
Più tardi.
Di tanto in tanto, mi tenta la morte di quell’uomo. Non so come si chiama, come chiamarlo. Letteralmente, la sua insignificanza è grande.
Silenzio, e poi.
Non so chi sono – non ho più idea di ciò che pensavo di sapere.
Questo è tutto.
Silenzio, e poi.
L’inizio della fine di questo amore, effettivamente frantumato, scandito dal rimorso, a ogni ora.
E poi, l’ora incomprensibile, scavata al fondo del tempo.
L’ora orribile.
Sono riuscita a non uccidermi grazie all’idea della sua morte.
Della sua morte – della sua vita.
Marguerite Duras