09 Gennaio 2023

“Tremo sempre, sull’orlo della poesia”. Vita lirica di Katherine Mansfield

Infine, Katherine Mansfield ha la levigatezza dei cocci di vetro: le tigri di vetro che si spezzano, per sbadataggine, balzando dal tavolo e uno di quei frammenti ti artiglia il piede. La realtà sotto vetro: protetta, precisata, non meno pericolosa, non meno vera – diversa. Fino ai finimenti di sangue. Piace, la Mansfield, a chi ama le dame fuori tempo, che precipitano da una rupe; a chi preferisce il vittoriano che balla il jazz; la tigre, certo, ma di ceramica. Le forme esasperate – l’ambiguità.

Non poteva che finire malata, la Mansfield. La tubercolosi diagnosticata nel 1917, aveva 29 anni, aggravatasi nei Venti; sposare John Middleton Murry non rallentò la malattia né l’ansia di altri corpi – uomini, femmine – ma organizzò, per così dire, il suo talento. Nel 1920 la Mansfield pubblica Bliss and Other Stories; due anni dopo The Garden Party and Other Stories. Si affidò a Gurdjieff, instabile, instancabilmente irrazionale, pronta a ogni entusiasmo: la cura antroposofica non sortì effetti, e la Mansfield morì a Fontainbleau il 9 gennaio del 1923. Il guru l’aveva affidata alle cure di una delle sue più efficaci allieve, Olga Ivanovna Lazović: la donna, di rapinosa bellezza, sarebbe diventata la terza – e ultima – moglie di Frank Lloyd Wright.

Nata in Nuova Zelanda, a Wellington, la terra natia appare – soprattutto nei versi – con toni fiabeschi, quasi che l’epica Maori fosse domesticata con le vettovaglie di Andersen. Il papà, Harold Beauchamp, guidò la banca neozelandese; la madre, Annie Burnell Dyer, era donna dura, dal fascino carismatico. Dicono sia una Virginia Woolf in vitro, ma il talento della Mansfield risiede nel capriccio istantaneo, nello scroscio di luce in faccia, nell’improvviso splendore. Per questo, piacque tanto a Pietro Citati, che intorno a lei ideò uno dei suoi noti esercizi di stile, Vita breve di Katherine Mansfield.  

Soprattutto, la Mansfield piacque a Cristina Campo. Poco più che ventenne, nel 1944, con il nome di Vittoria Guerrini, la traduce per Frassinelli, in un libro dal titolo Una tazza di tè e altri racconti. L’introduzione, firmata da C.C. – ora in Sotto falso nome, Adelphi, 1998 – ha una perentorietà efficace:

“Al di là di ogni conquista di stile, l’opera letteraria che può dirsi tale proietta sempre, sullo schermo della pagina, l’elemento predominante nella personalità del suo autore. Vi è un’opera-spirito, un’opera-cuore, un’opera-cervello, un’opera-sangue, un’opera-nervi, un’opera-memoria. Quella di Katherine Mansfield è invece, perfettamente, l’opera-creatura. Sangue che circola, nervi che captano, cuore che raccoglie, cervello che filtra, spirito che trasforma. Ogni suo libro, se non tutta la vita, è certo – compiutamente – tutta una vita… Katherine Mansfield è nata in Oceania da una famiglia di pionieri francesi. Sangue latino, dunque, trapiantato per tempo in una terra giovane e ricca. Questi i due elementi che stanno alla base del suo essere: l’uno come fattore soprattutto stilistico, come senso classico della forma e del gusto; l’altro quasi essenza fisica: bisogno assoluto di una spontaneità nativa, di una panteistica, sempre nuova verginità di cuore”.

Qualche mese dopo la morte, il marito pubblicò a Londra la raccolta dei Poems di Katherine Mansfield. Non fu una sorpresa. Katherine ha punteggiato di poesie la sua esistenza – appartiene a quei rari spiriti costantemente ispirati, per cui esiste un’inquieta continuità tra lettere, diari, racconti, poesie. La nota esplicativa è utile:

“Nel suo diario, il 22 gennaio del 1916, Katherine Mansfield racconta i propri progetti di scrittura al fratello morto. Voleva saldare “un debito sacro” contratto con il suo paese, la Nuova Zelanda, “perché lì siamo nati io e mio fratello”. “Per questo”, continua, “voglio scrivere poesie. Tremo sempre, sull’orlo della poesia”, sussurra al fratello. “Il mandorlo, gli uccelli, il bosco dove ora abiti, i fiori che non vedi, la finestra spalancata a cui mi appoggio, mentre sogno e sento che sei sulla mia spalla, le volte che la tua fotografia mi sembra triste. Soprattutto, voglio dedicarti una lunga elegia… forse non in versi. No, forse in prosa. Una sorta di prosa speciale”.

La prosa speciale della Mansfield proviene dalla terra poetica, messa a maggese. Spesso, nelle poesie, la Mansfield sogna di mutarsi in uccello, in flusso d’erba, in sabbia – a volte si crede la figlia del mare, caduta in una terra inappropriata, estranea.

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Voci nell’aria

Infine arriva, il raro istante,
quando, senza alcun motivo,
le flebili voci dell’aria
suonano sopra il mare e il vento.

Il mare e il vento obbediscono
e sospirano, si lamentano in doppia nota
di contrabbasso, si accontentano di ideare
un accordo per quelle piccole gole –

Le piccole gole cantano e si ergono
verso la luce con disarmante disinvoltura
e una specie di magico, dolce stupore
le intontisce mentre si ascoltano –

Eccole, le piccole voci: l’ape, la mosca,
la foglia che fa tip tap, il baccello che si
spacca, la brezza che piega gli aghi d’erba,
lo squillo ripido e acuto dell’insetto.

*

Regole per principianti

I bimbi non devono mangiare il carbone
e non devono prodursi in smorfie,
è impedito rotolarsi durante le feste
e sporcarsi di nero la faccia.

Devono imparare che indicare è da rozzi,
devono stare fermi a tavola,
e mangiare tutto il cibo
che gli è dato – se ne sono capaci.

Se cadono, non devono piangere
benché sappiamo quanto soffrano:
no – non ci sarà sempre Mamma
a confortarli con i suoi baci.

*

La figlia del mare

Nel mondo l’hai spedita, madre,
modellando il suo corpo con corallo e spuma.
Un’onda ha pettinato i suoi caldi capelli.
Dopo tutto, l’hai cacciata da casa.

Tra gli anfratti della notte, è entrata in città
e sulla soglia di una casa l’ha deposta:
bimba blu in un abito frangiato di scaglie.

Nessuna sorella, nessun fratello
ha udito la sua chiamata, ha risposto al suo grido.
Il suo viso risplendeva dalla culla dei capelli
come una trama lunare nel cielo.

Ha venduto i coralli, ha speso la spuma;
il suo cuore arcobaleno, conchiglia che incanta,
si è rotto nel suo corpo: è tornata a casa.

Ti prego, torna al mondo, figlia mia.
Figlia mia, torna nelle lande oscure:
qui non c’è che triste acqua di mare
e manciate di sabbia da intrecciare.

*

La caverna dai sogni di opale

Nella caverna dai sogni di opale ho trovato una fata:
le ali più fragili dei petali di un fiore
più fragili dei fiocchi di neve.
Non era spaventata, stava sull’abisso delle dita,
con delicatezza cominciò a camminare sulla mia mano.
Ho serrato i palmi
per fare di lei la mia prigioniera.
L’ho portata fuori dalla caverna di opale
e ho aperto le mani.
Prima è diventata un soffione
poi un laccio tra i raggi del sole,
poi – più niente.
Vuota è ora la mia caverna dai sogni di opale.

*

Quando fui uccello

Volai su un albero di karaka
in un nido fatto di foglie
morbide come piume.
Ho inventato una canzone che cantavo da sola:
non aveva parole – alla fine, mi ha rattristato.
C’erano margherite, nell’erba, intorno all’albero.
Ho cercato di provocarle:
“Vi staccherò le teste a morsi per darle
da mangiare ai miei piccoli”.
Non credevano che fossi un uccello
per questo restarono quiete.
Il cielo era un enorme nido blu con piume bianche
il sole era la mamma uccello che lo teneva caldo.
Ecco cosa diceva la mia canzone, che non aveva parole.
Fratellino si avvicina, spingendo il suo carro.
Ho mutato il mio vestito in una coltre di ali
sono rimasta in silenzio.
Quando mi si fece accanto ho detto: “Dolce, dolce!”.
Per un attimo mi parve sorpreso
poi disse: “Puah, tu non sei un uccello, hai le gambe”.
Le margherite non hanno importanza
Fratellino non conta nulla:
mi sento proprio come un uccello.

*

Ora sono una pianta, un’erbaccia

Ora sono una pianta, un’erbaccia,
gramigna che oscilla
su un baratro di rocce;
ora sono flebile erba marrone
che fluttua come una fiamma;
sono una canna;
vecchia conchiglia che canta
da sempre la stessa canzone;
un cumulo di carici;
una bianca, bianca pietra;
un osso;
finché non torno
ancora sabbia
e rotolo, soffio,
avanti e indietro, indietro, avanti
sulla riva del mare
nella luce che agonizza –  
finché anche la luce muore.

Se tu fossi qui non diresti:
“Non mi aspetta, si è dimenticata
di me”. Non stiamo giocando
mutandoci in gramigna, in pietre e prati
mentre quelle strane navi passano
gravemente, gentilmente, mollando noccioli di schiuma
che si srotola intorno alla nostra isola natale con eleganza
bolle di spuma che luccicano sulle pietre
ti piacciono gli arcobaleni? Guarda, tesoro! No, sono spariti.
E le vele bianche si sciolgono nel cielo che naviga.

Katherine Mansfield

Gruppo MAGOG