In un vasto ritratto di Putin, ribattezzato Lo zar folle, pubblicato sul “Corriere della Sera” il 27 febbraio scorso, Paolo Valentino scrive: “Il problema è che è difficile, forse impossibile, negoziare con qualcuno che pensa in termini metafisici”. In particolare, citando Kurt Kister, già direttore della “Süddeutche Zeitung”, il giornalista accenna alla “Russia come entità metafisica, un essere eterno”, con un destino proprio, incarnato da Putin. Non si comprende lo stupore: l’uomo, creatura terrena, è un essere simbolico, i luoghi che abita sono sempre intrisi di esigenze metafisiche. Se Itaca non fosse, prima di tutto, un simbolo – un luogo metafisico – Odisseo avrebbe preferito una qualsiasi ninfa incontrata lungo il viaggio, capace di soddisfarlo e donargli la vita eterna; se la Grecia non fosse un’idea sarebbero inspiegabili le Termopoli e perfino Lord Byron, impaniato di classici, che muore a Missolungi a combattere una guerra non sua.
Quanto alla Russia, il gergo simbolico acquisisce una lucentezza per così dire spietata. In un libro pubblicato da poco da De Piante, La bellezza salverà il mondo, vengono allineati, tra gli altri, i pensieri che Fëdor Dostoevskij dedica alla Russia e ai russi. Eclatanti, radicali, istruttivi. Dostoevskij scava una radiosa diversità tra la decrepita Europa, serva di Baal, del demoniaco progressismo, e la Russia (“Noi non siamo certamente l’Europa e tutto da noi è così particolare che, in confronto all’Europa, è come se sedessimo sulla luna”); annuncia l’apocalisse militare (“Meglio sguainare una volta la spada che soffrire all’infinito”; “La Russia deve sperare nella sua spada e non nell’amicizia dell’Europa e, nei fatti, deve insistere con la forza”); delinea la “vocazione russa”, religiosa prima che metafisica: “rivelare al mondo il Cristo Russo, sconosciuto al mondo, il cui principio sta nella nostra Ortodossia”. In una sorta di mistica ostia tra Rivoluzione e Ortodossia, Aleksandr Blok chiude il suo poema, I dodici, intorno all’immagine-sigillo di Cristo, “con la bandiera insanguinata”. Se Dostoevskij ci pare estremista e Blok – straordinario angelo/poeta – ipnotizzato dai clamori leninisti, leggiamo Fëdor Tjutčev, per lo meno, poeta delicatissimo, immenso – e colpevolmente poco tradotto in Italia – che visse come diplomatico tra la Germania e Torino, alieno alla vita letteraria del proprio paese, cardato in una specie di argentea malinconia. Proprio con Tjutčev si perfeziona l’idea della Russia ‘metafisica’, della Russia come concetto e come compito, che sempre sfugge ai suoi interpreti, perché sempre un po’ più in là dal torchio delle definizioni:
“Con la mente non si può capire la Russia,
Non la si può misurare con metro comune!
In essa c’è un essenza particolare –
Nella Russia si può soltanto credere”.
La Russia ha la micidiale entità di un dio, ogni illecito le è permesso, perché essa è il sacro e sul torso del Santo non alligna la liceità, l’era dei lumi – illuminata dalle ghigliottine – o l’etica cartesiana.
Venendo a noi, all’oggi, sarebbe utile rileggere l’intervista a Eduard Limonov realizzata proprio da Paolo Valentino per la “Lettura” del “Corriere della Sera”, era l’8 febbraio del 2015. Parlando di Ucraina, Limonov è chiaro: “il Dobass è popolato da russi”, “l’Ucraina è un piccolo impero, è composta dai territori presi alla Russia e da quelli presi a Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Ungheria. I suoi confini sono le frontiere amministrative della Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina. Non sono mai esistiti. È territorio immaginario che, ripeto, esisteva solo a scopi burocratici”. Riguardo alla Russia, Limonov ricorda che “a nessuno fregò nulla dei confini internazionalmente riconosciuti nel 1991, quando l’Unione Sovietica fu sciolta”, che la Russia è “la più grande nazione europea”, e che i russi “non sono migliori degli altri, ma neppure peggiori: non accettiamo di essere trattati come inferiori, snobbati o peggio umiliati”. Quanto alle sanzioni economiche: “Penso che l’economia nel mondo di oggi sia sopravvalutata. Il motore della storia sono le passioni. Alle pressioni economiche si può resistere. E resisteremo”. Non occorre fare i chirurghi che scavano nei gangli della storia: sette anni fa era ovvio, palpabile, palese ciò che sarebbe successo oggi.
Per chi vuole approfondire, vale la pena sorbirsi Limonov vs. Putin. Contraddittorio, esagitato e crudele, Limonov, che vent’anni fa è stato incarcerato da Putin, scrive una specie di pamphlet imprecatorio contro il capo di stato russo, una bestemmia permanente:
“Putin, in Russia, è atipico. Pare creato in laboratorio. Si ha il sospetto che sia l’esito di un’inseminazione artificiale, un prodotto di padre ignoto e madre surrogata. Non ha nulla di proprio e niente di popolare. Pare un intellettuale, un insegnante, neanche un accademico, il professore di chimica di una scuola tecnica. Sembra un alieno, ecco. Troppo pulito, sarebbe rinnegato perfino tra gli insegnanti… È molto basso… Bocca grande, naso allungato, punta a trifoglio. Negli ultimi anni la stanchezza lo ha segnato: anelli visibili gli cerchiano gli occhi. Ma è l’intera figura di Putin a essere insignificante. Nonostante lo sci e il judo, la pancia è prominente; ha le gambe corte e le spalle strette. Quando si parla di argomenti spiacevoli, Putin serra le mascelle. Ha i muscoli sugli zigomi. Ma il contenuto dei suoi discorsi è banale, la voce è monotona, priva di enfasi… Nessuno lo ha mai visto esporsi in un gesto di gentilezza. O non è gentile per natura o crede che le sue funzioni – fare il presidente della Russia – lo obblighino a essere malvagio. Scortese, cattivo, probabilmente pensa che uno zar debba essere così, severo e feroce. Eppure, il popolo chiamava lo zar “piccolo padre”. La stessa parola zar presuppone un tocco di gentilezza: il popolo sperava nella compassione dello zar. Putin, al contrario, è un padre malvagio, esigente, che ghigna e nasconde gli occhi. Ci considera come suoi sudditi, è confuso: troppe aquile a due teste si agitano intorno a lui. Ma noi non siamo i suoi sudditi e questo non è il XIX secolo. Siamo cittadini di un paese privo di libertà, è vero, ma non siamo i sudditi di questo zar crudele, che cerca di governarci con la protervia di un falso zar”.
Tuttavia, è Emil Cioran a chiarire davvero l’enigma russo in un saggio, La Russia e il virus della libertà, raccolto in Storia e utopia (l’edizione Adelphi è del 1982). Il pensatore rumeno è micidiale nel leggere i fatti, nel decrittare i segni, come ci si spacca un bicchiere sul polso per valutare lo spessore enciclopedico del sangue, spaziando verso la profezia: “La Russia non si è mai accontentata di sventure mediocri. E così sarà anche in avvenire. Essa si schiaccerà sull’Europa per fatalità fisica, per l’automatismo della sua massa, per la sua vitalità sovrabbondante e morbosa così propizia alla generazione di un impero (in cui si materializza sempre la megalomania di una nazione), per quella sua salute, piena di imprevisti, di orrore e di enigmi, posta al servizio di un’idea messianica, rudimentale e prefigurazione di conquiste. Quando gli slavofili sostenevano che la Russia doveva salvare il mondo, adoperavano un eufemismo: non si salva il mondo senza dominarlo… Con i suoi dieci secoli di terrore, di tenebre e di promesse, essa era più adatta di qualunque altra nazione ad accordarsi col lato notturno del momento storico che attraversiamo. L’apocalisse le si adatta a meraviglia, ne ha l’abitudine e il gusto, e oggi vi si esercita più che mai, perché ha visibilmente cambiato ritmo. ‘Dove corri così, Russia?’, si chiedeva già Gogol’, che aveva percepito la frenesia che essa nascondeva sotto l’apparente immobilismo. Adesso sappiamo dove corre, sappiamo soprattutto che, a somiglianza delle nazioni dal destino imperiale, è più impaziente di risolvere i problemi degli altri che i suoi propri. Quanto dire che il nostro cammino nel tempo dipende da ciò che la Russia deciderà o intraprenderà: essa tiene in pugno il nostro avvenire…”.
Sorprendersi dei carati ‘metafisici’ di un luogo è da ciechi. Ogni luogo esiste perché è al di là, perché è un simbolo: per questo gli ucraini combattono – non certo per una casa non più bella di altre migliaia di case né per quella zolla di terra mutila, grigia. La bandiera di un paese è un simbolo, mira alla metafisica; il gonfalone racconta non tanto la storia quanto il destino di un comune, di una cittadinanza; la toponomastica è l’ancella della metafisica dei luoghi. Ad Alfonso La Marmora, per dire, sono dedicate un lotto di vie, qua e là: guidò il contingente italiano – meglio: del Regno di Sardegna – in Crimea, al fianco di Francia, Gran Bretagna e Turchia, contro i russi. Dall’altro lato delle barricate combatteva Lev Tolstoj: nei momenti di pausa scriveva i Racconti di Sebastopoli. In un telegramma inviato a Cavour, era il 16 agosto del 1855, La Marmora elogia il coraggio dei suoi soldati, in assalto contro le schiere russe: “La nostra parola d’ordine era Re e patria… Abbiamo avuto 200 fra morti e feriti”. Forse ci sembrano enfatiche e sfiatate, corrose, queste frasi, oggi; ma alieni dal simbolo – credere che questo tavolo sia solo un tavolo, che tutto cioè si possa acquistare e non acquisire dopo lenta dedizione – rischiamo di restare avulsi dalla storia, esauriti, senza destino.