Vita, morte & vanità nell’opera di Marcovinicio, pittore “sciamanico”
Arte
Jonathan Salina
Va nell’età della profusione digitale l’uomo come un soldato sfinito, non sapendo più mandante, né territorio, né le vie certe per giungere ad alcuna meta o riparo. Nella marcia oscenamente massiva e informe si dispiega l’ampia creatura snodata, il grosso animale di Simone Weil, in una peristalsi di acquisizioni perdute e smarrimenti che, nella desolata china da spirito a materia, da devozione a diniego pare acefala, immemore della propria elezione all’intelletto, fatalmente protesa al male.
Di tutte le cose visibili e invisibili l’uomo è stato circondato senza chiave ermeneutica alcuna. E tra i due feudi la sua esistenza si consuma, avendo del secondo solo qualche sentore in sogno, presso quella «membrana sottilissima» dove «questo mondo si assottiglia e l’altro inizia a prendere corpo» (Pavel Florenskij, Iconostasi).
L’onirico ha matrice mistica, in comunione col mistero; è a esso affine: salita all’impalpabile dove è dato arcanamente contemplare essenze e qualità celesti, realtà noumeniche sillabate, che lasciano pregni di messaggi indecifrabili, da riportare sulla terra come pietre di Marte. Riattraversando il velario del mondo terreno, l’unico tentativo possibile per preservare il ricevuto è produrlo in immagini simboliche, opera d’arte: esperienza dello spirito che tenta di prender corpo e materia, e trasdurre senso.
Tuttavia l’evento contemplativo, rientrando nei vincoli logici e spaziotemporali del quotidiano, diviene un precipitato, cristallizza nel reticolo sensoriale del visibile.
Accade allora che quanto più l’espressione artistica si propone di essere minuziosamente particolareggiata, realistica, più si allontana dai sensi reconditi che voleva riportare. Solo il simbolo, abissale e alato, può evocare i sembianti, le idee; ma sempre in accenno, e dando struggimento d’inespresso fulgore, d’infinita nostalgia.
Una vaga percezione dell’assoluto e dei soavi, assorti splendori che le sono patria e grembo, permea l’umanità. «Altare», luogo dell’invisibile, cielo della mente di cui a ognuno vien dato in certa forma e misura; e iconostasi, parete simbolica, velo che non cela ma allude, fa visione: agiofania, angelofania, teoria dei testimoni, soglia, invito al volo:
«L’iconostasi apre nel muro delle finestre e attraverso i loro vetri vediamo, o per lo meno possiamo vedere, ciò che vi accade dietro, possiamo vedere i testimoni vivi di Dio».
(Florenskij, op. cit)
I pittori di icone non creano immagini ma imprimono sulla struttura lignea i sembianti, le essenze spirituali di armonia celeste che sono venute a loro, in effusa e condivisa carità, nel fiore di una spoglia, quotidiana devozione.
Eleggere la tavola lignea, levigare, apporre i puntoni, scolpirne il corpo: il Creatore era falegname, il legno materia prima. Stratificare il gesso o l’amalgama d’alabastro, luce aurorale. E i contorni, solcati, a guida del colore: esistenza in potenza, volontà creativa di Dio; nel chiarore, che prende corpo dal fondo dorato. Infine la preparazione dei colori, uniti a tuorlo d’uovo: il guscio dell’uovo cosmico, che si spezza e schiude l’universo (John Lindsay Opie, Nel mondo delle icone).
Tinte purissime, da minerali e vegetali polverizzati, disposti nella complementarità gravida del bianco: moto segreto al raggio indiviso del sole. Le pennellate candide, in superficie, come onde che ritornano al fondo aureo: processione dall’oro alle cromie, e al radiante candore solare, al bianco indiviso della grazia divina. Verde e azzurro per terra e cielo, sfumature che scandiscono la metamorfosi alchemica e ascetica del naturale in celeste; il vigore dei rossi, le gravità di certe tinte d’ocra. Dalle forme pensate, alla figura; dalla potenza all’atto, stratificando cromatici veli, dando uniformità alla campitura base; e in vetta toni sempre più chiari, e vivi bagliori: la creazione è partizione della luce dalle tenebre (Gen 1,4; Gv 1,5).
L’icona è realizzata con mirabile perizia, secondo il canone, in ossequio al modello e alla visione formale della Chiesa, ma poi diviene epifania: emanazione d’archetipo divino, irradiata grazia, a fare varco tra sostanza e sopramondo. Incarnazione suprema dell’opera impressa per pura emanazione celeste è il Mandylion, il Salvatore in effigie «acheropita», non dipinta da mano d’uomo: il Volto Santo del Cristo che s’imprime per contatto col suo viso, e Abgar, re di Edessa, che guarisce dal suo male solo vedendolo.
Trascendenza che visita la coscienza umana, oggetto non immaginario, ma «immaginale» (Henry Corbin, Elémire Zolla): visione custodita nello spirito, luogo figurativo sacro, dove l’artista accoglie il soprannaturale con governato genio, assolvendolo dalle geometrie terrestri. Nelle icone la spazialità non è né ingenuamente bidimensionale, né realisticamente tridimensionale, bensì un’alchemica fusione tra le due, che esitano in deliziose e stranianti prospettive ribaltate, punti di fuga magicamente impossibili. Rublev nella Trinità fa in modo che i tre angeli incontrati da Abramo non paiano visti da un punto dominante, ma che le essenze sacre risplendano andando verso chi osserva. Nella Theotókos di Vladimir, Madre di Dio della tenerezza, lo sfondo dell’icona nega ogni definizione spaziale alle figure, le quali riempiono il pannello quasi per intero: l’aureola della Vergine supera i limiti della cornice, Madre e Bambino vengono avanti dal piano pittorico, entrano negli occhi come un bassorilievo di amore dorato.
Gli ikonniki lo sanno: l’esperienza delle cose altissime è solo del cuore, per tentata immagine: noetica tipicamente medievale, in cui, da matrici aristoteliche trovano convergenza mistica cristiana e filosofia araba: il primo motore immobile, il punto di luce trascendente, è amato mediante conoscenza e conosciuto mediante amore, acquisendolo per assimilazione. Amore come atto d’intellezione, reciprocità tra ardore e intendimento, pratica della contemplazione: Ubi amor, ibi oculus. Secondo Riccardo da San Vittore:
«Dov’è l’amore, qui è l’occhio; volentieri guardiamo chi molto amiamo. Non c’è dubbio che chi ha potuto amare le cose invisibili, vuole immediatamente conoscerle e vederle con l’intelligenza»;
e ancora:
«Dobbiamo tenere il nostro spirito sospeso non solo a ciò che possiamo avere in questa vita, ma anche a quella meraviglia della contemplazione divina che speriamo per la vita futura, e in simile attesa aspirarvi con desiderio intenso. A questo fine ci è data la grazia; a questo fine, dico, è infusa in noi l’intelligenza delle realtà eterne, perché cioè sappiamo che cosa cercare instancabilmente con diligenza e sospirarvi col desiderio».
Così, commentando Averroè, Jean-Baptiste Brenet parla dell’immagine abolita, desiderata e sottolinea l’affinità tra amore e conoscenza, che avviene mediante risalita dalla percezione fenomenica a elaborazione dell’immagine fantasmatica: corrispettivo diafano dell’intelligibile limpido e inviolato, fantasma evocato per affezione, di cui l’intelletto in habitus è dimora. Mediante acquisizione del reale si sale ad astrazione e intuizione profonda, fino a percepire una comunione d’intimo ingegno con l’intelletto materiale, che tutto genera e mantiene.
Eleggere a oggetto d’amore il punto primo, tendersi a esso come un arco, coltivando il fine interno della perfezione del proprio intelletto agente, amandone lo sforzo immaginativo: pensiero rivolto al vertice, desiderio di identificazione, fusione, ritorno; desiderata comunione con il supremo intelligibile, cui ci si rivolge non direttamente, ma con la mediazione interiore di un’immagine amata, eikón, simbolo che media tra soggetto e idea purissima: sostrato in cui si realizza il pensiero in atto.
Il pensatore è fabbrica immanente di tale pensiero, che si astrae e sale, sollevandolo e rendendolo apolide (Hannah Arendt, La vita della mente), libero da configurazione spaziotemporale. L’immagine è il non luogo dove egli s’appoggia, piolo di eterea scala, nube precaria nell’ascesa al concetto: anche questo rango teoretico è provvisorio: la figura va abolita per salire ancora, come il crollo del monte Sinai che Dio provoca davanti a Mosè (Sura VII, 143), polverizzandolo per farne emergere, fulminea ed effimera, l’idea. L’immagine fonda e poi si annienta, lasciando soltanto intelletto in potenza, di fronte all’atto pieno. Ancora Florenskij:
«Distruggere le icone significa murare le finestre. Al contrario, togliere anche i vetri, che rendono più debole la luce spirituale a chi è capace di vederla direttamente, parlando metaforicamente, in un vuoto trasparente significa imparare a respirare l’etere e vivere nella luce della gloria di Dio. Quando ciò accadrà, l’iconostasi materiale si sopprimerà da sola, si sopprimerà l’intera immagine di questo mondo e perfino la fede e la speranza e si starà in contemplazione con la pura carità dell’eterna gloria di Dio».
Giovanni Scoto Eriugena a proposito di San Giovanni teologo, l’apostolo, l’evangelista, tradizionalmente contemplato nell’effigie dell’aquila, afferma:
«Al di fuori di tutte le cose, con il volo ineffabile della mente, è innalzato fin entro l’arcano del principio unico di tutte le cose e […] percepisce limpidamente, dello stesso Principio e Verbo, cioè del Padre e del Figlio, l’incomprensibile superessenzialità dell’unione, insieme all’incomprensibile supersostanzialità della distinzione […] Allora, l’aquila spirituale dal rapido volo, dallo sguardo che vede Dio – Giovanni teologo, voglio dire – trascende ogni creatura visibile e invisibile, penetra ogni oggetto d’intellezione e compie, deificato, il suo ingresso in Dio che lo deifica».
A pochissime anime, nella storia dell’umanità, è data tale percezione e nitidezza, ma è lecito pensare che ognuno possa dare il suo contributo, nel millenario dispiegarsi delle consapevolezze. Ancora Florenskij:
«Ma quando l’attenzione diventa elastica e non viene più attirata su un certo oggetto da un’impressione esterna; quando impara a distinguere da sola in mezzo a impressioni sensoriali confuse un segno o un oggetto persi tra gli altri ma necessari alla comprensione, allora non ha più bisogno del sostegno dei sensi. E nella sfera della contemplazione sovrasensibile non avviene diversamente: il mondo spirituale, l’invisibile, non è da qualche parte lontano da noi ma ci circonda».
In questo le immagini, se pur transitorie, sono indispensabili, perché danno accesso all’atto e alla sua potenza, lavorandola da attitudine a capacità essenziale: l’uso del fantasma è adito, limen della potenza, intelletto che desidera e immagina, e dunque, per grazia, partecipa dell’intelletto primo: labilmente unendovisi, in parte lo conosce.
Ogni singolo apparato psichico, senza avvedersene, dall’esperienza fenomenica estrae le unità fondamentali delle cose, omeomerie direbbe Anassagora, «semi» d’infinite qualità che si disgiungono e riaggregano a formare tutto l’esistente. Questo processo di progressiva astrazione conduce l’intelletto teoretico a poter concepire il reale sterminato senza soccombervi. Ascesa alla sintesi, all’immagine desiderata e poi abolita che, col sacrificio di sé stessa, porta alla potenza, al vuoto che accoglie la grazia.
Freud mette in parallelo l’apparato psichico del singolo con il Wunderblock, piccolo dispositivo novecentesco: tavoletta incerata su cui era possibile incidere e cancellare indefinitamente, che permetteva illimitato stoccaggio e rinnovata, costante ricettività all’informazione.
Uno solo è l’intelletto eterno, eppure si dà in facoltà pura in ogni individuo che nasce: il libro dell’umanità, infinitamente volte sovrascritto, è saturo di segni; scurissimo e privo di lacune, poiché tutto è già stato detto e pensato. Eppure vi è un intelletto materiale, in potenza, che in ognuno s’accende, e risale l’attenuazione dello spirito in materia fino al supremo pensabile. Questo avviene tramite la nuova immagine scrivibile per desiderio ed evocazione, su una pagina che ha la verginità rinnovata della maternità, il candore di ogni trascesa oscurità. Per la grande mente pensante dell’umanità, sul nero denso di un’immane scrittura s’apre una fenditura: nascituro vago, creatura bianca e indeterminata che dà inizio a inedita rappresentazione. L’immagine rinnovata è la sua innocenza.
In questo l’opera d’arte è visione profonda, percezione elettiva rappresa in materia. Florenskij:
«Se il simbolo, essendo funzionale al suo scopo, lo raggiunge, ne è realmente inseparabile, è inseparabile dalla realtà superiore da lui stesso manifestata […] Se esiste la trinità di Rublëv, allora esiste Dio».
Gli ikonniki nell’umiltà della trasmissione del canone purissimo, nella liturgia delle dorature, delle stratificazioni, degli impasti, celebrano e onorano in ogni gesto il fiat lux del creatore (Gen 1, 3). Immagini radicate, piene, latrici di sensi soprannaturali, che tessono fili tra cielo e terra.
Secondo Florenskij quest’«onda di diffusione» del sacro in alcuni spiriti-guida, in grado di riportare sulla terra le verità sottili a essi affidate, nel Rinascimento tende a estinguersi. Ignorando i canoni della tradizione simbolica, il pittore rinascimentale testimonia solo sé stesso: indugia con voluttà su sontuosi panneggi, amabili tratti e anatomie, si crogiola in prospettive spaziali e giochi di luce di un realismo disturbante, perché traspone con immodesta perizia e vanitosa svista il sovrasensibile in un al di qua particolareggiato e profano, rendendolo di un’avvenenza spettrale: ritratto, non volto; disabitata larva, cadavere astrale.
Manca, secondo Florenskij, quella «verità delle cose incarnata artisticamente» che dimora nel canone, nel «filo d’oro della tradizione» in cui il Verbo si manifesta, nei simboli che presentiscono e poi, nei secoli, vanno a compimento: uno per tutti la Madre delle messi degli Elleni, presagio di Maria.
Percezione corale che conosce epoche oscure, in cui la tracotanza umana sopisce, travisa e distorce. L’uomo rinascimentale è esordio di caduta. In arte cerca l’autolegittimizzazione, rifiuta la durezza dell’ontologia, al supporto ligneo inciso preferisce la superficie ondeggiante della tela, l’ampia pennellata oleosa. Celebrazione di un’immanenza di desertica sensualità che, mentre rappresenta l’altrove, sembra negarne l’autorità. L’intelletto collettivo che segue al medioevo rifiuta l’intelligenza ontologica, s’identifica con la propria sensibilità fenomenologica: quel fasto di precarietà e magnificenza piena di morte che prelude al barocco.
La visione di Cristina Campo sull’arte è vicinissima a quella di padre Florenskij e del bizantinista John Lindsay Opie, col quale intrattenne cara amicizia e raffinatissimo scambio epistolare. Ma la sua concezione di splendore è più trasversale, e rileva isole purissime conservate, smeraldi di enigma in molte forme di umana condotta e presenza.
Sia iconostasi ortodossa, tappeto persiano o villa fiorentina, sia campana – per il popolo voce di Dio – o rogo d’incenso, sia sommesso segreto delle anime purganti, dramma teatrale o partitura musicale; sia leale traduzione, fraseggio du temps perdu, vita monastica sigillata «in perpetuo silenzio»; sia luogo numinoso, rastremato d’afflato mistico, sources de la Vivonne; sia gesto di scoscesa, intrepida grazia, sia poesia o liturgia, esiste uno «splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile» regolato «da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi». L’intera esistenza, se non teme la lama fredda della bellezza, può farsi arte: icona, filatura d’invisibili orditi, segno «di primissimo ordine», non troppo sporcato da mano umana; immagine acheropita, che da sola affiora e schiude, e apre vie.
Ancora sulla pittura, Cristina, in apparente dialettica con Florenskij – che tuttavia riporta, per esempio, il carteggio tra Raffaello e Baldassarre Castiglione, dove il pittore rivela «l’immagine misteriosa» che a volte «gli visita l’anima» a dargli i tratti della Vergine – ravvisava tale visione tersa «sull’indicibilmente puro» anche in alcuni maestri del primo rinascimento. Scrive a Remo Fasani:
«Ho avuto in questi giorni una tessera permanente per la mostra dei 4 maestri. Ogni volta che passo di là entro a guardare un piccolo quadro. Il Cristo in mantello rosso, per esempio: che sembra fuggire nella notte portando in salvo la sua croce, ed è più alto dei monti che lo circondano e avvolto in un cartiglio come una vetta in un giro di nubi. O la Crocifissione di Lugano: col suo cielo d’inchiostro, il sole come nascosto nel giallo abbacinante della Croce». (n.d.r. Le opere citate di Paolo di Dono detto Paolo Uccello sono il Cristo portacroce e la Crocifissione).
Maestosa e casta sia l’opera, nella scia di quell’anagogicus mos di cui si deve far serva, «immagine scartata», tentando la mediazione con l’inesprimibile. Secondo Cristina, nel Salvatore di Tommaso di ser Giovanni Cassai:
«Masaccio ha mirabilmente rappresentato, nel Tributo, l’idea di mediazione. Il gesto che si ripete, passa dalla mano tesa del Cristo a quella di Pietro e a quella del soldato, verso il lago e il paesaggio senza limiti: “Come mio Padre m’ha inviato a voi, così io vi invio…”. È un’idea che ogni puro artista ha provato il bisogno di esprimere, inconsciamente o meno, con gli occhi ripercossi e le segrete risposte di cui vive ogni grande opera d’arte».
Masaccio è, secondo Cristina, uno dei maestri rinascimentali che trascende l’epoca, e appartiene al cerchio eterno:
«Tutte le figure di Masaccio nascono d’acqua e spirito. Il Cristo del Tributo ha i colori dell’aria dell’acqua e della terra, è un grande continente, emerso nell’aria dai mari, il primo giorno della creazione. E in volto reca la volontà del Creatore».
Così Paolo Uccello, che è
«tra tutti il pittore più indifferente al mondo. Non una delle sue tele è dipinta per chi guarda. Del resto, nei suoi quadri, non c’è mai niente da riconoscere. La Battaglia di San Romano, per esempio, si svolge a un’ora che non esiste in fondo nel quadro non esistono uomini. Lance, archi, frecce, trombe volano da sé come folgori e solo i cavalli bianchi rossi e neri spezzano o sono spezzati. Nel fondo, su un invisibile colle, pare di intravedere una figura in cammino; ma è forse solo lo spirito della guerra – tanto il suo passo è lungo e fantastico, in quella oscurità che non è notte».
Con medesima disposizione, cita Ramon Gaya:
«“L’arte” scrive Gaya “sembra giungere di molto lontano, passare attraverso l’uomo, indi sbarazzarsi dell’uomo come di una corteccia e proseguire”. Di qui l’ingombro dello stile “in cui l’arte si rifugia quando si travia” dando luogo al carattere, all’espressione, all’emprise della persona sulla realtà. Ma nell’artista puro la creazione è nulla più che obbedienza, risposta a quella realtà che vuole essere salvata, fatta trasparente attraverso la sua persona».
Per Campo, come per gli ikonniki, l’arte è rito, il rito opera d’arte:
«Il rito è vita, come le Scritture; come il sole che ogni giorno sorge brilla e tramonta, eppure rimane inesauribilmente misterioso e diverso. L’immutabilità del vero rito fu voluta da Dio e da tutte le tradizioni appunto perché in quel ritorno cosmico, infallibile di figure si procedesse ogni giorno un poco di più nella complessità insondabile dei loro significati: ciò che non si lascerà mai esprimere in concetti razionali, ma solo indicare, alludere in gesti, suoni, simboli divinamente ordinati».
Cristina, dai suoi nitidi candori, vede ciò che è superfluo, disordinato e vano, come strumento del diabolico. In una lettera a Opie, rispondendogli riguardo un suo sogno, scrive:
«Riconosco le due nature del sogno per un semplice discrimine di stile: da un lato la maestosa figura di bronzo, immobile nel buio: che nulla fa, lascia che le cose accadano, operando potentemente col solo esserci: il grande stile del Divino. Dall’altro lo stile satanico, estremamente attivo, estremamente letterario e minuzioso: la squisita – e volgare in sommo grado – atmosfera da bric-à-brac che ti aggancia con mille piccoli uncini a un intero mondo di oggetti e sentimenti che domani ti parranno mostruosi e ridicoli, ma che tesse attorno al nocciolo dell’anima la trama più difficile da spezzare […] Que Dieu nous garde de la littérature! Il diavolo è certamente un bravissimo scrittore – che opera soprattutto attraverso ‘spleen and dreaminess’ come disse un esperto (n.d.r. Charles Baudelaire)».
Il diabolico è sontuoso, s’affaccenda in mille seduzioni; il divino è saldo, verticalmente solenne, luminosamente immobile.
Uno stile autoreferenziale, studiato per addizione, oblitera i canali dell’essere. Il sacro si rivela con coerenza indenne e silenziosa, e ogni creatura è uno scrigno profondissimo di reminiscenze: «Uno a uno vengono accesi i volti / alle radici millenarie / della selva d’icone, / per fare di giorno notte, / neve e stelle, / per far della tenebra rose / – più che rugiada trasparenti rose».
Ma ora qui, il chiassoso deserto di un virtuale sfrenato: immenso ologramma, Leviatano, dedalo che tutto spalanca e preclude. Inane maschera, larva, vuoto involucro e, come ogni guscio, direbbe Florenskij, prono al male: un mainstream soverchiante, spesso teso a intenzionale bassezza e banalità, che fa leva sulle componenti più grevi e avvilite della natura umana. Al cospetto di tutto questo, occorre tenere presente che dell’inconscio corale bisogna aver cura. Perché le istanze della mente profonda che sottende all’umanità si concretizzano non solo nell’arte ma anche in ogni aspetto della civiltà.
Così merita tutela e accudimento ogni nuova creatura, particella d’universale intelletto che, in seno a una memoria globale di per sé già oberata e satura, nasce intonsa: verginità rinnovata in cui si staglia infinita potenza, in cui riposa abissale memoria.
Persino l’epigenetica insegna come informazioni a latere rampichino sulle sequenze geniche primarie, dando segno nella discendenza di acquisizioni esperienziali, abilità acquisite di cui è tenuta nota, chiosa. Eco di un’identità profonda, celata, che riverbera da sideree lontananze, annotate a matita, accanto a ciò che è più evidente. Dio è uno scoliaste attento.
Isabella Bignozzi
*Riferimenti e testi consultati:
Pavel A. Florenskij, Iconostasi. Saggio sull’icona, a cura di Giuseppina Giuliano, Edizioni Medusa 2008
John Lindsay Opie, Nel mondo delle icone. Dall’India a Bisanzio, a cura di Alessandro Giovanardi, Jaca Book 2014
Riccardo da San Vittore, La grazia della contemplazione. Beniamino Maggiore. A cura di Mary Melone e Antonio Orazzo, Diogene Edizioni 2016
Giorgio Agamben, Jean-Baptiste Brenet, Intelletto d’amore, Quodlibet 2020
Annah Arendt, La vita della mente, introduzione di Alessandro Dal Lago, traduzione di Giorgio Zanetti, il Mulino 1987
Giovanni Scoto Eriugena, Il prologo di Giovanni, a cura di Marta Cristiani, Mondadori, 1987
Alessandro Giovanardi, Il non licet calato sul mistero, Appunti su Cristina Campo e la pittura del Quattrocento. In: Matias Augé, Laura Beconcini, Renzo Cresti, Cristina Campo. La via dell’interiorità redenta, Città Ideale Editore (collana Teorie) 2013
Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi 1998
Il riferimento è alla Mostra di Quattro Maestri del primo Rinascimento: Andrea del Castagno, Domenico Veneziano, Paolo Uccello, Piero della Francesca; Firenze, Palazzo Strozzi, 22 aprile-12 luglio 1954, Firenze, Tipografia Giuntina, 1954
Cristina Campo, La disciplina della gioia. Con le lettere a John Lindsay Opie. A cura di Maria Pertile e Giovanna Scarca, Pazzini 2022
Cristina Campo, Un ramo già fiorito. Lettere a Remo Fasani. A cura di Maria Pertile, Marsilio 2010
Cristina Campo, La Tigre Assenza, Adelphi, 1991