In lui, probabilmente, Drieu vide il falò di un’epoca, l’indole della dissipazione, una torcia gettata nel pozzo. Jacques Rigaut, eternato nell’Alain di Fuoco fatuo, fu soldato, dada, suicida. Compagno di Tristan Tzara, si unì a una ricca americana, Gladys Barber, per risolvere canonici problemi di soldi; lei lo mollò nella spirale di New York, dopo averlo scoperto eternamente tossico. “Prestigio della demenza! Fare qualcosa di completamente inutile – gesto puro di cause e di effetti. Finora – come altrove è quello della gravità – questo è il regno dell’inutile; quando arriverò a quello dell’assurdo evado pure da qui…”, scrive in Propos Amorphes, è il 1920. Tornato in Francia nel 1928, cerca di disintossicarsi: il 6 novembre del 1929 si spara al cuore. Aveva un viso triangolare, forse trasparente, pareva di carta. I suoi Écrits – editi da Gallimard, nel 1970 – elevarono la drogata vaghezza a culto; nel ’63 Louis Malle aveva tradotto Fuoco fatuo in film. Rigaut fu amico di Drieu – più grande di cinque anni –, da subito, dal primo dopoguerra. Drieu aveva già esordito, come poeta, nel 1917, con Interrogation; subì il fascino difforme dell’amico, di cui replicò la morte, pur in circostanze altre.
Le Feu follet, uscito nel 1931 per Gallimard, è in verità il culmine di un ‘ciclo’ dedicato a Rigaut, di cui è parte Adieu à Gonzague – spesso stampato insieme a Fuoco fatuo – e La valise vide, testo pubblicato sulla Nrf nel 1923 e recuperato in edizione d’arte da Fata Morgana. “La valise vide è l’immagine per bagliori di un fallimento, che non contiene ancora il suicidio di Jacques Rigaut, narrato otto anni dopo. Già, perché Gonzague è Rigaut e Rigaut è l’Alain di Feu follet. Ma il ritratto dell’amico dadaista di Drieu è al vetriolo, coniugando abisso e fascino: nessun disastro è risparmiato e tale crudele lucidità suggerisce anche ciò che Drieu non amava dell’amico”. Il volume, tirato in 500 esemplari, è curato da Jean-François Fourcade. Qui si propone un dettaglio che tratteggia il ‘tipo’ che come un proiettile di cristallo perforerà il secolo (declinato in molteplici forme: alla Camus, alla Sartre, alla Malcolm Lowry, alla Canetti…). Incapace di stare nei ranghi del sistema produttivo, tormentato dal tedio, da uno spleen intriso di droghe e chiacchiere, Gonzague s’inoltra, con aristocrazia nichilista, nel vacuo, consapevole che l’amore è l’ennesima accezione del caos.
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“Gonzague falli, del resto, il suo lavoro, e fuggendo l’orrore in cui era impiegato, andò altrove, già disgustato da quello che avrebbe dovuto fare, posseduto da un’unica, assoluta smania: quella di passare da una cosa all’altra. Aveva imposto quello stile lunare, lunatico alla sua testa. Passava lunghi momenti dal parrucchiere, faceva la manicure e la pedicure, vagava negli hammam, nei bar, dove giocava, telefonava, beveva, telefonava ancora, intratteneva mille chiacchiere. Pranzava e cenava a destra e a manca. Si prodigava in visite. Non che fosse prestante – era troppo pigro e troppo timido – ma sei o sette case in cui transitare almeno una volta ogni otto giorni sono utili a colmare la settimana”.
Drieu la Rochelle