Nato a Vienna nel 1886 da una ricca famiglia di ebrei imprenditori, Hermann Broch lavorò dapprima nella fabbrica tessile del padre, a Teesdorf, vicino alla capitale, finendo per dirigerla per vent’anni, dal 1907 al 1927, occupandosi anche, quando necessario, della risoluzione di vertenze sindacali, dunque coltivando solo a margine dell’attività i propri interessi letterari. Proviamo a immaginarcelo, di giorno mentre attraversa i capannoni in cemento armato della fabbrica, dotati dei macchinari più moderni, e la sera alla scrivania, a leggere Nietzsche, Schopenhauer, Kraus.
Ritiratosi a vita privata, dal 1928 al 1931 studiò matematica, filosofia e psicologia all’università di Vienna. Dopo aver composto solo brevi lavori per riviste specializzate, nel 1931-32 Broch pubblicò la trilogia di romanzi Die Schlafwandler (I sonnambuli, il primo dei quali è stato pubblicato recentemente da Adelphi con la nuova traduzione di Ada Vigliani), per la quale venne accostato a James Joyce, perché considerato tra i più interessanti innovatori della forma romanzo. Nel 1938, in seguito all’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, venne arrestato e rinchiuso in un carcere nazista. Liberato grazie all’aiuto di un gruppo di amici, tra i quali lo stesso Joyce, Broch riuscì ad emigrare dapprima in Gran Bretagna, poi negli Stati Uniti, dove ottenne la cittadinanza americana e la cattedra di tedesco all’università di Yale.
Gli ultimi anni di vita di Hermann Broch, che morì nel Connecticut il 30 maggio 1951, videro lo scrittore piuttosto attivo all’interno della comunità ebraico-tedesca esule negli USA. Particolarmente intenso fu il suo rapporto con Hannah Arendt, in particolare dopo la pubblicazione, nel 1945, negli USA, de La morte di Virgilio (in italiano esiste purtroppo la sola traduzione di Aurelio Ciacchi per Feltrinelli, risalente al lontanissimo 1962), l’opera che si sarebbe rivelata il capolavoro dell’austriaco.
Ed è sulle motivazioni che spinsero Broch ad ispirarsi al grande poeta latino che voglio invitare a gettare lo sguardo, partendo da una sua lettera alla Arendt (estratta da H. Arendt – H. Broch, Carteggio 1946-1951, Marietti 2006) del 21 agosto 1947, cui l’austriaco accluse una poesia intitolata significativamente Ombra di Dante (Dantes Schatten, pubblicata per la prima con alcune varianti in H. Broch, Gedichte, Suhrkamp 1980, in italiano in H. Broch, Poesie, trad. di V. Punzi, Città Nuova 2009):
21.8.47
Hannah, cara, l’accluso Weigand, con la sua pulizia tecnica, potrebbe divertirLa. Non da meno, anche il fatto che alla fine del lavoro egli mi rimproveri un’identificazione con Dante. Quando ho letto questo la notte successiva ho sognato Dante che passeggiava nel quartiere tessile di Vienna (il luogo della mia lunga e gloriosa attività) e su una delle insegne delle aziende, accanto a quella di Pollack, di Hirschmann, di Jellinek, era scritto:
«Egli prese a cuore ciò che gravoso da lui si volgeva,
così che nulla in lui a lui si confessò:
un coraggio infernale, e tuttavia lui si chiamava Dante».
Da questo riferimento ho scritto l’altrettanto allegato sonetto di ringraziamento per Weigand, e glielo spedirò per motivi didattici, cioè proprio perché si tratta di un sonetto e dove c’è rima è riconoscibile come tale: non confermi dunque ora le “belle terzine”. Mi affatico terribilmente con una follia in parte chiara, in parte oscura, ma spero tuttavia di rivederLa presto. Tante cose ad entrambi, Vostro
H.
Ombra di Dante
Non prese alla leggera ciò che gli fu dato con leggerezza
e neppure gravemente ciò che gravemente si allontanò da lui:
intorno a Beatrice tesse l’infinitamente ignoto,
nel quale fluttua, nel quale le epoche fluttuano,
così che nulla in lui lo proclama –
lo ottenne? Per pienezza dovette elevarlo
al proprio essere. E si trovò? Si scoprì d’improvviso lì accanto
straniero nel senza nome. E tuttavia si chiamava Dante.
Il suo coraggio era solitudine e per questo nient’altro che fuga,
un coraggio che riguardò più gli amici che i nemici;
il tormento tuttavia lo colpì, sempre condannato al verso,
nondimeno il dolore della veglia, nondimeno la paura del sonno:
è il coraggio dell’inferno che canta, è la paura del paradiso che tace?
La fine vicina, matura, volge verso l’inizio.
Ciò che Broch inviò allora alla Arendt accluso alla lettera fu lo studio Broch’s Death of Vergil, terminante appunto con il rimprovero d’identificazione con Dante, che il germanista statunitense Hermann J. Weigand, docente di letteratura tedesca dal 1922 al 1961 alla Yale University, aveva scritto nei primi mesi del 1947 per “Publications of Modern Language Association of America”.
Andando a ritroso, era stato proprio a Weigand, in una lunga lettera del 12 febbraio 1946, che Broch aveva narrato percorso e motivazioni che si celavano dietro la stesura de La morte di Virgilio. Si tratta di lettera nota per lo più solo per alcuni passi, ma merita di essere letta per intero (la traduzione è di Stefano Chemelli): “Vorrei in primo luogo raccontarle la storia del mio incontro con Virgilio, dato che Lei più volte si è occupato della scelta del mio tema. Ebbene, non si è trattato affatto di scelta, ma di un mero caso. Per la Pentecoste del 1935 fui invitato ad aprire il programma speciale della radio di Vienna con una lettura delle mie poesie. Detesto per principio le letture fatte dai poeti, particolarmente quelle alla radio: so infatti fin troppo bene quanto annoino il pubblico (e, nel caso mio, anche il dicitore). Dunque andai dal direttore dei programmi letterari, che significativamente si chiamava Nüchtern (sobrio, disincantato, ndt), e gli proposi che mi concedesse di leggere qualcosa di più interessante, per esempio, su un argomento di filosofia della storia: La letteratura alla fine di una cultura. Ma non ebbi fortuna: “No”, disse il dottor Nüchtern, “non si può; scegliendo questo tema lei sconfinerebbe nella sezione scientifica e ciò creerebbe difficoltà contabili. Deve assolutamente leggere qualcosa di poetico”. Così, resomi conto che la contabilità è una divinità suprema – davvero il Fato del nostro tempo –, gli promisi di ridurre in forma di novella il mio argomento, Fine di una cultura e letteratura. Mi misi dunque a riflettere sul modo migliore per assolvere a un tale compito, e non ci vollero molte riflessioni per avvedermi di certi paralleli tra il primo secolo avanti Cristo e il nostro: guerra civile, dittatura e decadenza delle vecchie forme religiose. Anzi, persino nel fenomeno dell’emigrazione c’era un parallelo significativo e particolare: Tomi, il villaggio di pescatori sul Mar Nero. Sapevo inoltre della leggenda secondo la quale Virgilio avrebbe avuto l’intenzione di bruciare l’Eneide, e mi era quindi lecito supporre, accettando la leggenda, che a una decisione tanto disperata uno spirito come quello di Virgilio non fosse stato spinto da motivi irrilevanti e piuttosto vi avrebbe influito l’intero contenuto metafisico e storico della sua opera. Tenendo presenti queste considerazioni, la mia decisione fu presto presa. Altrettanto rapidamente però mi accorsi anche che Virgilio non era morto a Tomi. Sarebbe stato però assurdo per un motivo così esteriore abbandonarlo per Ovidio, dunque restai su Virgilio. Dante, invece, non ha avuto nessuna parte nell’ideazione del progetto. A parte il fatto che si trattava solo di una novella destinata alla radio, detesto i motivi e le motivazioni ‘letterarie’. Chi si prende un Dante come padrino del proprio lavoro si mette abilmente su un piano di solennità letteraria che sottrae a priori ogni autenticità. Non è possibile ‘evocare’ di proposito i grandi spiriti del passato: quando vengono a noi, essi arrivano furtivi dalla porta di servizio, inviati dal ‘caso’, da quel caso che è tanto affine al ‘miracolo’ da poterlo considerare a buon diritto fonte di ‘autenticità’. Che Virgilio mi sia affiorato alla coscienza casualmente, ha per me qualcosa di rassicurante, come se mi desse la conferma che non ho fatto opera di mera ‘letteratura’.
Il primo canovaccio, la novella radiofonica, era dunque un lavoretto assai rudimentale, di nemmeno venti pagine, ma naturalmente già in quella prima stesura mi ero accorto della ricchezza del tema. Fu una sensazione così forte e prepotente che subito smisi di lavorare a un romanzo già quasi ultimato: ampliai la stesura originale sino a quasi ottanta pagine, e poiché questa si era rivelata a sua volta una misura insufficiente per padroneggiare la pressoché inesauribile massa di motivi che venivano affollandomisi, non restava che una soluzione: avere cioè il coraggio di misurarmi con essi e, senza fissare limite di tempo, decidermi a tentarne l’elaborazione. A questo si aggiunse poi un ulteriore motivo. La minaccia di morte che proveniva dal nazismo assunse forme sempre più concrete. Non era più possibile fingere di non vedere, le illusioni non erano più possibili. Certo, per noi in Austria non era (1936) ancora immediatamente attuale, e per questo motivo, legato com’ero ai vincoli familiari, continuai a rimandare la fuga, forse anche soggiacendo al fascino sottile che emana dal pericolo. In ogni caso, tuttavia, era una situazione che mi costringeva in modo sempre più pressante ad una preparazione alla morte, per così dire a una preparazione privata alla morte. E appunto in una tale preparazione si trasformò il lavoro di composizione del Virgilio e proprio per questo libro, come Ella ha giustamente notato, ho rotto completamente il quadro imposto dalla figura storica e dall’opera di Virgilio, diventando l’immaginazione della mia morte.
Quegli anni (compreso il periodo trascorso in carcere) furono una concentrazione costante, intensissima, sull’esperienza della morte. Il fatto che contemporaneamente io stessi scrivendo un ‘libro’, diventò accessorio. Lo ‘scrivere’ doveva unicamente servire come tramite per fissare quell’esperienza, come mezzo di chiarificazione; era dunque un atto del tutto privato, che nulla più aveva da spartire con la convinzione di star scrivendo un’‘opera d’arte’, o con il pensiero della sua pubblicazione, a parte poi il fatto che per motivi estrinseci (Hitler), non vedevo più la possibilità di pubblicare. E accanto a quest’esclusione di ogni estrinseco c’era, e con la medesima urgenza, l’esclusione totale in ogni cosa ‘appresa’. La concentrazione su un unico punto non mi consentì d’impiegare ‘materiale di origine culturale’. Eppure l’emergere dall’inconscio dei più svariati simboli della morte, tratti dalla sfera delle antiche religioni, costituì una felice sorpresa, poiché corroborava di verità non solo il loro intrinseco contenuto, ma anche il contenuto delle mie rappresentazioni. Nemmeno la costruzione retrospettiva, nella quarta parte del libro, è stata un’astuzia a freddo. Al contrario, mi si è imposta con forza la necessità, cioè nella forma d’immagini che, benché inizialmente disordinate, già in sé recavano il principio del loro ordine futuro: e non potei che accettarne il dettato.
Solo dalla logica dei fatti sorge la plausibilità, e plausibilità è ‘conoscenza’. Certo, ero pervenuto a una plausibilità e a una conoscenza (conoscenza della morte) soggettive; e non potevano che essere soggettive, perché l’esperienza mistica nel suo inizio, anche quando è un inizio di conoscenza, affiora sempre come esperienza personale, privata. Il profeta tuttavia ha la possibilità (e dunque anche il diritto) di portare a conoscenza dei suoi simili, come verità oggettiva, la propria esperienza di veggente; colui la cui esperienza non giunga sino alla grandezza profetica, ha tuttavia la possibilità, l’autorità, o magari l’obbligo di una simile oggettivazione e annunciazione? Questo è un problema specifico del Virgilio. Il non profeta diventa infatti artista, dunque un uomo che sta sul confine della profezia, con un’esperienza mistica troppo limitata per esprimersi immediatamente in forma religiosa, pur volendo, ciononostante, esprimersi. L’arte, dunque, benché non possa mai sottrarsi, nella misura in cui è autentica, a un’esperienza mistica iniziale, è tuttavia un ‘surrogato’: non è come la diretta partecipazione profetica, è piuttosto un complicato apparato espressivo che si serve di simboli o, più esattamente, produce simboli, facendo entrare certe unità d’espressione in certe funzioni d’equilibrio, conferendo loro per l’appunto in questo modo una ‘plausibilità’.
Nell’operazione di sfaccettatura, però, i diamanti si riducono di dimensione, anche se cresce la possibilità che essi vengano usati per il lusso e aumenta il loro valore venale. Insomma, con il lavoro di sfaccettatura l’artista si vede inevitabilmente privare del vero e proprio reperto conoscitivo originario. È una metafora, ma per me è stata anche un’esperienza: i tre anni passati alla ‘sfaccettatura’ del Virgilio hanno considerevolmente cancellato l’esperienza della conoscenza della morte di cui avevo avuto un presagio, benché ora fosse stata accessibile anche ad altri. Da ciò traspare il malessere implicito nella bestemmia (e anche questo ho tentato di esprimere nel Virgilio) e indubbiamente più l’esperienza mistica iniziatica è intensa e autentica, più questo carattere blasfemo dell’arte si rafforza. È proprio in un’epoca come la nostra, che per la sua nuda rozzezza altro non riesce a sopportare se non ciò che è assolutamente immediato e a tutto il resto rifiuta consistenza, che mi fa perspicua l’inadeguatezza dell’espressione artistica. Lei ha quindi tutte le ragioni di sollevare la questione del perché, in considerazione del tutto, io abbia pubblicato il Virgilio, anziché darlo alle fiamme o almeno tenerlo nel cassetto. Vanità d’artista, ambizione d’artista? Può darsi, ma soprattutto la fuga davanti alla prospettiva di non poter saldare un debito artistico già contratto. Ero arrivato in America con il Virgilio incompiuto e furono così tante le persone e le istituzioni che mi accordarono fiducia, nonché aiuto concreto per portarlo a termine, che non potei assolutamente non tener fede alla promessa. Tanto più che ora approfitto della medesima fiducia per il lavoro politico-psicologico cui sto lavorando e che per me è molto più importante del Virgilio, giacché spero possa dare un piccolo contributo agli sforzi tesi a salvaguardarci da una ripetizione dell’orrore universale che abbiamo vissuto.
Mi si potrebbe tuttavia opporre che un sacrificium di mentalità non può esser in nulla giustificato e che, nonostante i miei sessant’anni, i mezzi per il lavoro scientifico avrei potuto guadagnarmeli con la politura delle lenti o facendo il lavapiatti, e non con il Virgilio. Può darsi che ciò sia vero. Ma, anche se si è persuasi, come sono persuaso io, che nel mondo attuale l’arte non occupi più quel posto d’onore che le è spettato in altri tempi, tuttavia sarebbe stato quasi un gesto ridicolo, un patetico ‘di troppo’ se avessi esibito e convalidato una simile valutazione con lo spettacolare autodafé di un rogo di libri, ovviamente pubblico. Avrebbe avuto l’aria di un’originalità a tutti i costi. Ho rinunciato a un vero compimento artistico del libro, perché in quest’epoca d’orrore non avevo il diritto di dedicare un altro paio d’anni a un’opera che a ogni passo si sarebbe fatta sempre più esoterica. Credo con ciò di aver definitivamente concluso la mia carriera letteraria. Mi sembra che per la mia conoscenza non potevo fare di più. E non è stata per nulla una decisione facile.Perché a chi è entrato una volta nella sfera dell’arte – e ne abbia per di più appreso a fondo il mestiere occorre un certo coraggio per un simile commiato. Un commiato piuttosto doloroso. E poi, non è semplice a 60 anni cambiare mestiere. Se rimanessi un narratore la mia vita in ogni caso sarebbe più facile e di più certo successo.
E con questo – è stato un giro assai lungo – arrivo finalmente alla sua congettura, secondo la quale scrivendo il Virgilio, mi sarei vagamente identificato con Dante. Credo di poter affermare che il mio atteggiamento verso Virgilio, quale l’ho descritto lì, sia quanto mai non-dantesco. Un parallelo con Dante tutt’al più mi sarebbe potuto venire in mente immaginando che una stazione radio fiorentina lo avesse invitato a tenere una conferenza per il giorno di Pentecoste, e che poi anche a lui ‘Virgilio’ fosse comparso per caso, entrando furtivamente dalla porta di servizio della poesia…”.
Parole chiare, cui nulla si può aggiungere, se non per sminuire. Solo una memoria, il ‘lamento funebre’, in realtà tutt’altro che disperato, affidato ad un coro di donne, con cui si conclude un poco noto testo teatrale di Hermann Broch, L’espiazione (1934): “noi, voci del futuro, portiamo le stelle,/ invochiamo la lontananza più infinita,/ invochiamo l’unità che ci è stata donata…/ oh, vi si riveli del divino l’amorevole via…”. Che cosa mai, più profetico di questo?