“neve le mani
e morire fra un intervallo di tempia
tutto alla sommità del sonno si gonfia sulla crosta
e adesso che insieme uno strato si alza sullo strato”.
Nell’ottobre del 1956, per l’editore Albert Bonniers di Stoccolma esce uno dei libri in versi più folli del secolo, Aniara. Harry Martinson vi lavorava, incessantemente, da anni. Idealmente, aveva fissato la data d’inizio dell’opera – la vera ‘detonazione’ – all’agosto del 1953, quando l’Unione Sovietica fa scoppiare una sperimentale bomba all’idrogeno. La catastrofe nucleare sembrava imminente.
Aniara, in effetti, è il nome dell’enorme astronave che trasporta un manipolo di umani dal pianeta Terra verso Marte e Venere. La nave va fuori rotta, attraversa una grandinata di meteoriti e il viaggio – va da sé – diventa, a poco a poco, una malinconica e terribile riflessione sulla fine del genere umano e sull’implosione del nostro pianeta, disfatto da guerre nucleari e conseguenti disastri ambientali. Più che la trama – esile ed efficace – è la scrittura di Martinson a stordirci: suddiviso in 103 canzoni, Aniara alterna poesie arcane, orfiche, a ballate popolari; l’epica arturiana della quest e le movenze dell’Edda alla sapienza orientale; la Divina Commedia alla meccanica quantistica; il romanzo d’appendice al vangelo gnostico. Insomma: è il libro della vita. Tra l’altro, Martinson inventa lemmi nuovi, che rendono necessario, per agevolare la lettura, un glossario: goldonde – da gondel, gondola – identifica un’astronave spaziale come Aniara; fototurbo è “un’arma di distruzione di massa”; gopta – dal sanscrito gupta – vuol dire “occulto” in un certo dialetto parlato nei meandri di Aniara; per transtomismo – mutuato da “tomismo” – s’intende un credo che fonde fede e ragione. Uno dei personaggi centrali di Aniara, Mima – “in giapponese, ‘occhio’” –, è una macchina onnisciente che prevede – con oltre dieci anni di anticipo – Hal 9000, il supercomputer di 2001: Odissea nello spazio.
Martinson dirà di aver scritto le prime ventinove canzoni di Aniara in uno stato di trance sciamanica, dopo aver osservato a lungo, durante una notte d’estate, la galassia di Andromeda.
“L’uscita di Aniara segnò una svolta nel mondo letterario svedese: se ne registrarono vendite eccezionali e un numero altissimo di recensioni in Svezia nonché, fatto insolito e quanto mai significativo, all’estero. II titolo, dal greco antico ἀγωνία «angoscioso, disperato», aveva per Martinson associazioni semantiche assolutamente personali che mai volle rivelare, tranne la sua ammessa predilezione per il fonema a”.
Maria Cristina Lombardi
All’epoca, Harry Martinson era già riconosciuto come uno dei massimi poeti svedesi di sempre: in particolare, la raccolta Nomad, uscita nel 1931, lo aveva eletto come l’autore più audace della sua generazione. Il genio dell’improvvisazione, una spavalderia da domatore di velieri e quel vento che spirava tra i versi conferendo ad essi una freschezza ferina erano finora inauditi: rispecchiavano la vita del poeta.
Nato nel maggio del 1904, Harry Martinson era cresciuto tra famiglie adottive e orfanotrofi, a Göteborg. Dopo la morte del padre, per tubercolosi – Martinson aveva sei anni –, la madre aveva mollato i figli, involandosi per gli States. Affascinato dai libri di Kipling, Conrad e Tolstoj, Martinson, sedicenne, s’imbarca come mozzo, gira il mondo, fa tappa in Brasile e in India. Rientrato in Svezia, si dà al vagabondaggio; scrive, invocando la patente di “Nomade del Mondo”. Volto volitivo, bello come un attore, nei libri di “viaggi senza meta”, pubblicati negli anni Trenta – e vendutissimi – promuove l’etica di una vita schietta, all’avventura e un individualismo singolare, di brutale solarità. Il matrimonio con Moa Martinson, contratto nel ’29, tra turbinose fughe dalla famiglia di lei, dura l’arco di un decennio. Il rapporto si incrina a Mosca, dove Martinson era stato invitato dall’Unione degli Scrittori Sovietici. Mentre la moglie va in estro per il ‘realismo socialista’ promosso da Gorkij, il poeta ne è schifato, torna in patria, scrive un saggio incendiario, poi raccolto in Verklighet fino döds (1940): il suo antisovietismo si perfeziona, diciamo così, nel ’39, quando il poeta si arruola, volontario, tra le truppe finlandesi nella cosiddetta “Guerra d’inverno”. Alla Carelia – l’antica regione finlandese ceduta in parte ai russi – Martinson dedica uno dei canti più suggestivi di Aniara, il 72.
Eletto al seggio numero 15 dell’Accademia svedese – privilegio mai accordato prima a uno scrittore privo di pedigree – Martinson ottiene proprio per Aniara il Nobel per la letteratura, cinquant’anni fa, nel 1974, in condivisione con Eyvind Johnson. Ma ormai Martinson era diventato un lottatore solitario, strenuo utopista contro il ‘progresso’, la ‘tecnica’ e l’impero dei consumi: i suoi proclami – sempre tonanti, sempre fascinosi – facevano poca presa ed erano, per lo più, fraintesi; per questo, dagli anni Sessanta sceglie di limitare all’osso le pubblicazioni. Diceva di scrivere “nelle catacombe”.
Al contrario, Aniara, sintesi straordinaria tra lirica e fantascienza, tra levità e Apocalisse, veleggiava in ogni angolo del globo: nel mondo inglese – dove esce, nei decenni, in diverse versioni – trova un prodigioso interprete nel poeta scozzese Hugh MacDiarmid; in Francia esce vent’anni fa, con sottotitolo furbo – Une Odyssée de l’espace – e la zampa, in traduzione, dello scrittore Björn Larsson. In Italia l’“Odissea nello spazio” di Martinson è edita invece per Libri Scheiwiller nel 2007, a cura di Maria Cristina Lombardi. Il libro ‘di culto’ finisce rapidamente fuori catalogo – ora ritorna, in edizione ‘speciale’, nella versione di allora ma in nuova veste, nell’ambito di un progetto editoriale, “Le Vie del Futuro”, ideato da Autostrade per l’Italia. Un evento per cultori di lirici viaggi cosmici; e per collezionisti.
L’Accademia svedese – dopo un sondaggio che conta centinaia tra critici, bibliotecari e librai – ha installato Aniara tra i cinquanta libri di poesia più importanti di ogni tempo, tra le poesie di Emily Dickinson, la Commedia di Dante, l’epopea di Gilgamesh e i Cantos di Pound, tra le Illuminazioni di Rimbaud e l’Odissea di Omero. Il 4 giugno del 1964, al Dramaten di Stoccolma, Ingmar Bergman diresse la ‘prima’ di Tre knivar från Wei, la commedia di Martinson ambientata nella Cina del VII secolo: in scena, furoreggiavano trenta attrici.
Il Nobel, tuttavia, fu l’inizio della fine per Martinson – il massimo riconoscimento si risolse in baratro. La critica europea – in certi casi abietta – accusò l’Accademia di aver premiato se stessa: a Martinson andavano preferiti i ben più noti Nabokov, Borges o Bellow (che avrebbe incassato il Nobel pochi anni dopo), ignorando l’alto, autentico talento di quel poeta anomalo e straordinario. Già provato da una propria inquietudine interiore, Martinson si rivoltò sempre di più in se stesso, in cagnesco – la mente svanì. In uno dei ricoveri dov’era internato, il Karolinska Institutet, a Solna, Martinson si ammazza, con un paio di forbici – l’11 febbraio del 1978.
In un’intervista, il poeta aveva detto di sentirsi “moralmente e filosoficamente un buddista”; altre volte si dichiarava taoista – Aniara, per certi lati, ricorda la struttura del Tao Te Ching. Tuttavia, lo affascinava la liturgia cristiana – quella in cui “si sente l’odore della betulla e lo stridio degli alberi” – e il concetto stesso di ‘libro d’ore’: nel 1973 scrisse un salmo, De blomster som i markken bor, che va considerato uno dei suoi ultimi testi – la Chiesa di Svezia lo ha inserito nel suo innario. Recita così:
“Non potrà mai dimenticare l’anima i fiori della terra – per questo un salmo estivo voglio cantare per i giorni in cui il cuore è nel suo inverno e liberare i pensieri dall’acciaio e incitare i pascoli – che la mente aiuti l’anima rimpicciolita in un nido di ghiaccio: dal fondo della memoria giunge Dio, estate è la sua eterna gloria”.
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Da Aniara
25
Nel sarcofago immobili viaggiamo non siamo più come una volta nocivi al pianeta né diffondiamo più pace mortale. Qui ci è dato liberamente di domandare e sinceramente replicare, mentre la nave che si è perduta, Aniara, dal tempo infame si allontana per i deserti dello spazio siderale.
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49
Da La cieca
Ma è giusto desiderare un’altra vita. È giusto l’amore e il desiderio esprimere che tutta la bellezza torni a vivere, e non morir come libellule effimere.
Giusto è mostrare la gioia vitale. Giusto è anteporre la vita alla morte. Difficile è contorcersi nella fossa letale. Facile è credere in un’altra vita al di là.
Sprofondati nella terra a file, giacciono al vento primaverile e tutti in coro insieme intonano il canto dei ciechi sul paese di Rind.
Con le membra decomposte nella terra, lodano ogni giorno il cieco dio che tutto sa senza bisogno di vedere i fantasmi viventi cui offre i paramenti.
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Le parti molli si decomporranno, le parti dure resisteranno, ma il tempo segue il suo corso e presto anche le parti dure cenere saranno.
E il loro coro leggero si alzerà verso le chiome arboree e ogni foglia racconterà al vento di passaggio che la morte, oramai dimenticata, nell’estate sussurra ancor beata. Dimentica di se stessa, la bella estate va, ugualmente inafferrabile è lo spirito della vita, come le belle estati andate che ritornano ogni anno rinnovate.
***
Noi ascoltiamo, eccitati, la fanciulla cieca, dopodiché alcuni dicono estasiati: «Parole commoventi ella ci reca, parole così belle ella ha trovato nel paese di Rind». Ma son solo parole e solo vento.
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86
Canto di Gand
Ecco che arriva un dio delle rose, perché i giorni delle rose sono arrivati. E la dea del giglio è qui. Che felicità quando gli uomini si addormentano.
Guarda, strane fate avanzano, nelle bare i colori sono sfumati. Ora il dio della viola esprime un desiderio: come strisce di colore arrivano i giorni delle viole.
Affondiamo nel boschetto degli dèi, diventiamo humus, pistilli e raggi. E sul terreno della nostra decomposizione presto gli dèi dipingeranno i fiori. E più si scompare e si muore meno gli dèi soffriranno.
La nostra vita si scioglierà come neve, quando inizieranno le estati degli dèi.
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100
Non c’era più nessuna candela da accendere. Una lanterna solitaria ardeva presso la tomba di Mima dove gli ultimi passeggeri tenevano rivolte, per disperazione, le spalle al mare della morte.
Le ultime ore dell’era umana alla fiamma posero le domande scritte nei loro occhi. Così sulla terra più di un prigioniero, seduto alla luce dell’ultima lanterna, vegliando i suoi bagliori, sentiva il plotone di esecuzione sistemarsi là fuori, dove la dura pietra del muro presto avrebbe riflesso la fiamma della bocca dei fucili.
Poiché la crudeltà dello spazio non supera quella umana, la malvagità degli uomini è una rivale più che degna. La solitudine dei campi di prigionia sulla Terra intorno all’animo umano aveva murato il suo spazio, quando si sentirono rispondere in silenzio le pietre glaciali: «Qui regna l’uomo. Qui è Aniara».