Il ‘wagnerismo’ di D.H. Lawrence è di conio teutonico – non a caso la sua amata Frieda faceva von Richthofen di cognome, era ricca, era tedesca – appare negli scrittori totali come Goethe, i cui nipoti difformi sono Thomas Mann, Hermann Hesse, perfino Hermann Broch. Insomma, la scrittura come esercizio del pensare, l’idea che tra atto romanzesco e gesto saggistico non c’è distanza. Per questo, DH fu visto e inviso sempre come un tipo strano, un anglofono pavone, un santone, la cui fama si è stilizzata ne L’amante di Lady Chatterley, mentre la sua abilità difforme e da estremo dilettante nell’alternare romanzo, poesia, teatro, pittura, critica e filosofia fu intesa con sospetto.
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Ammetto. Quando il prof di letteratura inglese ci diede da leggere Figli e amanti sbottai in conati di vomito retorico; d’altronde, Il serpente piumato m’era sembrato troppo lungo, troppa frittura rètro, meglio il Messico ubriaco di Malcolm Lowry. Eppure, fui edotto alla saggistica di Lawrence da Lorenzo Scandroglio, poeta lawrenciano, che si è dato alla montagna d’alta quota, fiero nel concetto che prima si vive poi semmai si scrive. Devo dire, in effetti, che DH, nonostante i pruriti dei critici – non è bravo come Proust, gli manca l’essenzialità di Kafka, non possiede gli abissi tematici dei russi – raccoglie entusiasmi editoriali – dei piccoli e dei grandi – anche in Italia, di cui era fan (oltre ai reportage dalla Sardegna e nei Luoghi etruschi, ha tradotto Verga), in cui una mole di opere è costantemente tradotta.
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Resistono, tuttavia, come un macigno le considerazioni di Mario Praz, siamo nel 1933, DH è morto da tre anni: “Carattere comune ai libri del Lawrence è una fondamentale irrequietezza, conseguenza d’un profondo dissidio interiore, essendo la sua una natura di uomo attivo inchiodata, per un capriccio di natura, su un punto morto di contemplazione. Intellettuale, anela alla vita istintiva e denuncia il corrompimento portato dal progresso e dall’intellettualismo, e finisce per crearsi una religione nuova (un naturismo mistico affine a quello del Rousseau e a quello del Blake) che fa centro della vita il divino mistero dell’esperienza sessuale, che sola impartisce una conoscenza immediata, non-mentale. La veemenza dei suoi attacchi contro il mondo moderno fa pensare a un puritano invertito. Se questa parte apologetica e polemica, salutata da alcuni come un nuovo vangelo, rappresenta dal punto di vista artistico un peso morto, che va accentuandosi nelle ultime opere, resta pur sempre nei volumi del Lawrence tanta freschezza d’impressioni di natura e tal felice penetrazione di caratteri e di situazioni, da meritargli un posto tra i più grandi scrittori moderni. Lo stile è ineguale: efficacissimo, quando non l’intorbidano le argomentazioni e non lo diluiscono certe monotone ripetizioni”.
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A esaltare la “parte apologetica e polemica” di DH, corpo vivo più che “peso morto”, ci pensa il mitico editore inglese Penguin che mette DH nelle mani di Geoff Dyer, tra i grandi scrittori in UK, assai ben tradotto in Italy (leggete, almeno, Natura morta con custodia di sax, stampa Einaudi, e Sabbie bianche, stampa il Saggiatore). Lo scrittore in Life with a Capital L (uscita in UK a fine mese) fa una antologia di saggi di DH: 500 pagine dalla freschezza invidiabile, che rischiano di giustificare l’eccessiva sintesi del poeta Philip Larkin, “Lawrence è il più grande scrittore di questo secolo, e per molti versi il più grande di ogni tempo”. Si sa, gli inglesi amano esagerare, amano le classifiche. Sotto, riportiamo alcuni brani dal saggio introduttivo di Dyer, anticipato su New Statesman. (d.b.)
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Poco prima di scrivere questo saggio stavo con un amico a Joshua Tree, California. Nel tardo pomeriggio siamo saliti su una collina, sotto il sole cocente, verso un camper abbandonato. Escrementi di topi, dentro, ratti ovunque, nel letto, in cucina. Resti di una vita passata, domestica, insieme ai detriti di droghe usate per modificare quel rimorchio in un “orribile paesaggio sotterraneo dell’anima umana”. Immutato da milioni di anni, il paesaggio circostante, dorato, e il cielo di un blu profondo, erano tremendi. Su un tavolo all’esterno del camper, un’edizione senza copertina degli scritti di Edgar Allan Poe. Impossibile conoscere quale “storia orrenda dell’anima umana con le sue disgustose pene” si fosse svolta qui, ma il mistero era intrecciato ai pensieri di David Herbert Lawrence su Poe. Una quindicina di giorni prima, in Colorado, ho visto luoghi che paiono desunti dal saggio di Lawrence su Fenimore Cooper: “L’anima americana essenziale è dura, isolata, stoica, assassina”.
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Nel 1945 Philip Larkin dice a un amico che Lawrence è stato “il più grande scrittore del secolo, e in qualche modo il più grande scrittore di ogni tempo”. Nato cinque anni dopo Larkin, John Fowles, lo scrittore de Il mago, alza il livello ammettendo che Lawrence è “il più grande essere umano del secolo”. Visitando il santuario e il ranch di Lawrence a Taos, in New Mexico, nel 1939, W.H. Auden annota che “macchine di donne pellegrine salgono ogni giorno a riverirlo, mi chiedo come sarebbe stato dormire con lui”. La risposta l’ha data Kate Millett in Sexual Politics (1970), ed è stata certamente deludente. La sua analisi, arguta e crudele, ha messo a nudo le sciocchezze e la ‘pompa liturgica’ che aleggiava sulla cosa per cui Lawrence era diventato celebre, la sua scrittura sul sesso. Aggiungiamoci pure la sua infatuazione – seppure temporanea – per il culto proto-fascista del ‘leader con seguaci’ ed è semplice capire la ragione per cui la reputazione di Lawrence sia andata declinando dagli anni Settanta in qua. Per il breve periodo in cui è durata la sua vita (nato nel 1885, è morto di tubercolosi nel 1930, a 44 anni), Lawrence è riuscito a restare perversamente fuori luogo, fuori dalle mode della critica dominante. Questo non significa che non abbia avuto devoti. Ogni tentativo di difendere questo “uomo che bruciava come una torcia/ da una parte all’altra della sua vita” doveva cominciare denunciando la scarsa qualità di romanzi come Il serpente piumato, ma pure criticando alcune opere canoniche che, nelle sobrie parole di George Orwell, sono “difficili da superare”. Come romanziere, argomentavano, Lawrence ha raggiunto presto il picco con Figli e amanti.
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Balbettando istintivamente sull’Ulisse di Joyce (“Che razza di sforzo! Che fatica!”), Lawrence era migliore quando improvvisava, anche se ciò gli garantì la reciproca bassa opinione di Joyce: “Questo tipo scrive davvero male”. Lawrence ha riscritto più volte i suoi romanzi più importanti, l’uomo che ha disprezzato Joyce di essere “privo di spontaneità” è una specie di proto-Kerouac.
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Lawrence continua ad anticipare le nostre possibili obiezioni: “Che importa se è confuso? Cosa c’importa se è ripetitivo? Che importa se a volte non è interessante, quando ci sono parti così intense che all’improvviso aprono le porte facendo scaturire lo spirito in un mondo nuovo, anche se è un mondo antico!”. Una pagina dietro l’altra, i saggi rivelano che Lawrence è uno scrittore eternamente rinnovato: è il nostro perpetuo contemporaneo.
Geoff Dyer