28 Novembre 2019

“La civiltà non c’entra con il denaro, dipende dallo spirito degli esseri umani”. Su Patrick White, il genio ingiustamente sottovalutato

Avete letto qui del Nobel 1973 Patrick White. Ho trovato al Libraccio, a questo banco dei pegni contemporaneo, un suo lungo romanzo pubblicato da Einaudi, I passeggeri del carro. Di qui sono sbocciate altre curiosità riguardo le sue due raccolte poetiche – la prima, stampata in proprio e sotto pseudonimo a diciassette anni, è protetta in un caveau della biblioteca nazionale australiana perché White voleva che fosse fatta sparire da ogni biblioteca. La cosa buffa è che esistono solo altre tredici copie di questi suoi esperimenti poetici, o ‘juvenilia romantiche’ come le chiamano in Australia. Le sue altre poesie sono raccolte in Ploughman, edito nel 1935. Senza vanterie comuniste, alla ricerca di poeti contadini, White nel 1935 compone la sua elegia dedicata, secca, come nella tradizione scozzese, allo zappatore, al ploughman.

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Quando gli diedero il Nobel, dopo inchini sontuosi e mezz’ora di discorso giustificativo del premio, gli svedesi additarono il lupus in fabula: la malinconia dietro White. Ma leggiamo: “Il suo lavoro creativo, eseguito in solitudine e senza dubbio battendo i denti contro un’opposizione considerevole, tra vari generi di avversità, si è gradualmente composto raggiungendo risultati durevoli e sempre più apprezzati, nonostante i dubbi che lui stesso può aver nutrito riguardo il valore dei suoi sforzi. Il lato controverso di Patrick White si spiega con l’estrema tensione dell’autoespressione, col suo assalto ai problemi più complessi: qui ci sono le qualità che costituiscono la sua grandezza assoluta. Senza queste qualità non sarebbe stato capace di conferire quella vera consolazione che ritroviamo al centro delle sue malinconie: la convinzione che ci debba essere qualcosa più degno per noi di esser vissuto, qualcosa che offra di più che non sia la nostra veloce civiltà frettolosa”.

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Del resto White non era un diplomatico nato. Mandò un conoscente a raccogliere il Nobel e dopo un discorso terra terra, tutto autobiografico, senza dichiarazioni di amori o innamoramenti estetici, terminava di punto in bianco così: “Qui, in Australia, spero di continuare a vivere, e mentre ne ho ancora la forza spero allo stesso modo di popolare il vuoto australiano nell’unico modo che sono capace di fare”.

Lo stesso anno del Nobel, nel 1973, White straparla sui giornali australiani contro il progresso facile & a ogni costo: prende le difese dei bianchi che si vedono espropriati dalle loro dimore storiche per far posto a inutili grattacieli, nel segno del dollaro mercuriale e della speculazione edilizia degli yankee.

L’articolo, oggi sperso in Patrick White speaks (1989) attacca con piglio deciso: “Quel che mi sembra essere continuamente sopravvalutato da chi pianifica lo sviluppo edilizio è la reazione di chi si trova più fortemente colpito da questo sviluppo – sono esseri umani di cui si dispone al pari di pecore e mucche. Questo mi passava per la testa quando vidi anche la strada dove vivo sotto il giogo della demolizione”.

Dopo questo attacco da giornalista strapazzato, ecco come si rialza nel finale, aprendo il ventaglio delle ingiurie: “Questi speculatori, a voler essere perfettamente franchi, sono abili ad afferrare le loro oche diventando milionari nottetempo. Dopo, ottengono il titolo di cavalieri. E dobbiamo riconoscere che se riescono in queste loro prodezze, lo si deve alla loro controparte australiana che è lieta di sottoporsi ai magheggi del dollaro rapido – doloroso constatare che fino a un decennio fa erano gli immigrati stranieri a rendere la vita australiana più interessante, più fruttuosa ed efficiente, aiutandoci a raggiungere qualcosa che rimane ancora lontano, che forse otterremo col passare del tempo: la civiltà. Perciò puntiamo a questa piuttosto che al ‘progresso’, un termine che potrebbe rivelarsi, contrariamente alle intenzioni di chi lo adopera, come vuoto di senso. La civiltà non è faccenda di denaro e concretezza. (Guardate cosa è successo agli Stati Uniti!). La civiltà, per come io la vedo, dipende dallo spirito degli esseri umani, dai loro valori”. E con queste parole White si è consegnato, coerentemente, all’oblio dei posteri… nonostante la sua seconda comparsa nel catalogo Einaudi nel 1976, con I passeggeri del carro (1961) fosse celebrata così sul retro della copertina: “Dal 1948 White vive in una fattoria non lontana da Sidney. È scrittore epico e visionario, della razza dei Melville e dei Conrad. È autore di nove romanzi e due raccolte di racconti. Nel 1973 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura”.

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O forse no. Se qualche pio gentiluomo, se qualche degna madama entrasse al Feltrinelli lasciando al bancone dodici euro per comprare la ristampa Mondadori de L’esploratore Voss, avremmo fermato per un attimo il disordine dell’universo in espansione che frantuma anche White. Scherzo.

In realtà White non è mai uscito dalla discussione anglofona sul progresso e, per gli adolescenti australiani che si spostano a frotte sulla Pacific Coast, è ancora un totem. Prendete questo pezzo dello scorso settembre su Lithub, che è il santo Graal degli hipster. È firmato da una coetanea, Madeleine Watts, che fa rimpallare il pezzo, da brava, anche su Twitter. Devo dire che il suo articolo Su Patrick White, grande romanziere australiano dimenticato invoglia alla lettura, oltre che per il colore locale, soprattutto per la piccante madeleine delle prime righe: “Quando avevo 22 anni ero innamorata di un uomo che aveva una fotografia di White incorniciata sopra il suo letto. Sono cresciuta con le copie di libri di Patrick White ‘vissute’ da mio padre, ne ho studiato i libri all’università, ma solo anni dopo sono riuscita a guardare senza astio, con reale interesse, a questo autore – unico Nobel australiano – e alla sua opera”. Quando si dice che la psicanalisi ormai è inutile…

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Al di là delle comode amenità di moda, dall’anno scorso è su Youtube una buona intervista rilasciata da White a caldo, appena saputo del Nobel. Siccome non sono disponibili i sottotitoli, vi riassumo per punti quella chiacchierata di mezz’ora:

“Il paesaggio dell’infanzia, quello che per me è importante sul piano creativo, può apparirmi senza personaggi. Mentre il paesaggio inglese, col suo verdume, non mi ha mai detto molto. Quello dell’infanzia australiana è diventato più tenue nel tempo, ma ho capito che era fondamentale”.

“I giovani possono anche andar via per del tempo, ma devono tornare a casa per avere una sorta di vita intellettuale. Non mi considero però un intellettuale ma un artista e come artista affermo che anche le persone ordinarie riescono ad avvertire il decadimento attuale, il decadimento materiale, morale. Non si può credere a nessuno, meno che mai ai politici: rapinano, rapinano più che possono tra case e yatch”.

“Mi sento un repubblicano australiano antimonarchico. Vorrei tornare in Inghilterra solo per i suoi teatri e lascerei l’Australia anche solo per non lasciare i miei soldi ai suoi politici”.

“Per quel che posso dire osservandomi, avrei voluto fare l’attore. Scrissi per il teatro ma proprio volevo diventare attore. Quando mi siedo a scrivere, per quanto brancoli, rimango solo; mentre l’attore deve collaborare con le altre persone. Le voci di alcuni attori da giovane mi ossessionavano, volevo scrivere per loro. Sai, quando i critici hanno paragonato L’esploratore Voss a Tolstoj hanno detto un nonsense. In ogni caso, odio Voss – è andato nelle mani di gente sbagliata e tutto è andato a rotoli quando se ne progettò il film. Non vorrei parlarne”.

“Se mi dicono che afferro la grandezza al modo di Thomas Mann, che ho un grande schema con le sue contrapposizioni: è come per i premi della corona Britannica, non accetterei mai quei complimenti. Li rimanderei al mittente. È stato già abbastanza difficile essere autonomo. Sono dell’idea di creare un premio in denaro per gli scrittori australiani. Purtroppo l’establishment vorrebbe metterli tutti quanti al museo”.

“Sono un pessimista, nell’insieme, ma tento di fare del mio meglio per far qualcosa che rechi più vita al mondo”.

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Eccovi i passaggi mozzafiato del discorso per il ricevimento del Nobel: “Poco prima dei diciott’anni convinsi i miei genitori a farmi ritornare in Australia per vedere se, almeno, sarei riuscito ad adattarmi alla vita dei campi prima di tornare in Inghilterra per l’università a Cambridge. Lavorai per due anni come aspirante pecoraio [jackeroo], prima nelle montagne meridionali del Nuovo Galles, che divenne per me il posto più desolato del pianeta, e in seguito su una delle proprietà materne dei Whitycombe, da uno zio che abitava nel nord bollente e piagato alternativamente da siccità e alluvioni. Riesco ancora a ricordare come conducevo il mio cavallo attraverso sentieri allagati per andare a prendere la posta, mentre mi godevo un piatto di ortiche stufate a causa della penuria di verdure. Una vita simile mi era abbastanza congeniale, ma ogni discorso finiva sempre per ruotare intorno alla lana e al tempo che faceva. Sviluppai un’abitudine a scrivere romanzi nascosto da una porta chiusa, o al tavolo da pranzo da mio zio. Fatto ancora più grave, dopo esser passato per un colono alla scuola inglese, ora ero un ‘Pom’ per i miei conterranei australiani a causa della pronuncia inglese. Perciò non osavo più parlare e accolsi l’opportunità di scapparmene al King’s College di Cambridge. Anche se l’università si fosse trasformata in una nuova scuola dell’obbligo, avevo deciso di perdermi come un’anonima particella nella Londra che già amavo”.

Andrea Bianchi

Gruppo MAGOG