15 Luglio 2023

“Non ergete lapidi, che fiorisca la rosa”. Per Franco Rella, un maestro

Era un uomo brusco – la bontà, quando esige tutto, ferma, senza fronzoli, senza coriandoli, si esprime in modo brutale.

L’ultima volta ci siamo sentiti per messaggio, “ti scrivo da un maledetto letto di ospedale”. Era il 25 giugno. La prima e unica volta che ci siamo visti, invece, era il settembre del 2019. Ho invitato Franco Rella a Rimini, a parlare di Rilke. È stato sobrio, nitido, come uno che parla con la falce, dando al legno figura di drago – o di freccia. Che avesse un solo uditore o migliaia. Non aveva bisogno di essere simpatico, di accattivarsi il pubblico. Per questo, poteva risultare, agli astanti in fregola, antipatico. Non se ne curava. Era un sapiente.

In realtà, gli avevo teso un tranello. Franco Rella credo che mi sia stato donato da Lorenzo Scandroglio. Leggevamo, al Devero, a Nord, la sua traduzione dei Sonetti a Orfeo. Monito, monolite, sacra monotonia. Oggi dedicherei a Rella il primo distico del quinto sonetto, come lo ha riscritto lui:

“Non ergete lapidi. Ma ogni anno
fate che per lui fiorisca la rosa”.

La lapide che sfocia in rosa, il tempo che esiste finché qualcosa fiorisce in qualcos’altro, nell’altro da sé.

Avevo poco più di vent’anni – dunque, posso dire di conoscere Rella da più di vent’anni. Per alcuni di noi, alcuni libri di Franco Rella sono stati importanti; decisivi, a tratti. Ad esempio, Scritture estreme, il libro su Proust e Kafka (Feltrinelli, 2005); poi: Dall’esilio (Feltrinelli, 2004), Le soglie dell’ombra (Feltrinelli, 1994; poi Mimesis, 2018). Uno dei suoi libri più belli e remoti, Pensare e cantare la morte: Baudelaire, Valéry, Rilke, lo ha pubblicato Aragno nel 2004.

Franco Rella aveva occhi duplici – parevano retrattili, refrattari alla luce; poi si aprivano, d’improvviso, attoniti. Cuspidi di neve, attratti dalla tenebra – che non va rischiarata, tosata, semmai, attesa. Non aveva paura delle sacche di silenzio che si dilatano, durante il dialogo. Perché lì giace, a bivacco, l’uomo a cuore nudo.

Voleva lo scambio, privato e misterioso. Nell’ottobre del 2021 mi aveva inviato La solitudine del Minotauro; lo avrebbe ritoccato fino al maggio 2022, è il suo estremo libro, edito da Aragno per lo scorso Salone del Libro di Torino. È un libro mirabile, preadamitico, solitario: Rella porta a compimento la costruzione di un ‘genere’ filosofico nuovo, già sperimentato in Narrare. Tentativi di inventario (Jaca Book, 2020). Il saggio appuntito, puntuale, s’interseca nella narrazione pura, nello spaesamento romanzesco. Ne viene una scrittura sempre pericolante, che marcia su un lago ghiacciato: si tenta di descrivere l’altro mondo, oltre la cortina glaciale; con il rischio di spezzare l’acquario vitreo, di cadere. È un libro scritto a ritroso, decostruendo la scala del paradiso, e termina con un sogno, profetico:

“E io? Io ho sognato, e nel sogno ho visto vorticare intorno a me, gruppi di lettere indecifrabili, aggregati di consonanti senza vocali che permettessero di ipotizzare almeno delle sillabe. Si muovevano colorati intorno a me, probabilmente schegge di parole spezzate, frantumate”.

Sognare le lettere, il nome innominabile. Glossolalia in vece della glossa.

In cambio, mi chiedeva dei testi, spesso delle poesie – naturalmente inediti. Scrivere per uno soltanto. Inculcare il culto del tu-per-tu. Sapeva incutere al compito, sapeva incoraggiare e ricomporre ciò che è spezzato. Il verbo, perché dia senso, deve essere spartito.

Mi divertivo a scrivere: “Franco Rella è pensatore tra i più importanti e originali in Italia”. Di certo, non aveva bisogno di risarcimenti, Rella – mi domandavo perché fosse meno noto, meno notato, di un Cacciari, un Galimberti, un Agamben. In una bella intervista rilasciata ad Antonio Gnoli nel 2014, per “la Repubblica”, Rella dice di non disprezzare il prevedibile, di non avere avuto maestri – “Ho sempre letto e studiato per conto mio” – e che “Scrivere è di fatto esiliarsi da tutto”. Nella biografia che adorna il suo sito personale scrive di aver “lasciato con un senso di amarezza l’Università risparmiandosi il suo progressivo e inarrestabile degradare degli ultimi anni”; insegnava Estetica allo IUAV di Venezia.

Ripeto: fu un agguato. Volevo conoscere Rella per proporgli un libro. Ero ossessionato dall’ultimo verso dell’ultima poesia di Rilke, scritta due settimane prima della morte. Nella traduzione di Rella fa:

“E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto”.

Il foglio porta un’annotazione: Val Mont. Forse è troppo facile vedere in quel Nessuno il negativo di Dio. Forse Nessuno è il nome nascosto di Minotauro, il dio del labirinto. Rella aveva il passo del Minotauro, che incede un po’ incerto, non ne possedeva la primizia violenta – amava la solitudine, però, di cui conosceva i mille labirinti, la cecità.

Proposi a Rella di curare una selezione, annotata, delle lettere scritte da Rilke dal romitorio di Muzot. Il libro uscì nel febbraio del 2022, per l’editore De Piante, con un titolo rilkiano, Noi siamo le api dell’invisibile: esattamente un secolo prima Rilke terminava, in tre settimane di estasi, nel suo febbrile febbraio, le Elegie duinesi e I sonetti a Orfeo.

Rella fu visibilmente felice; io di più. Insieme, così, decidemmo di gettarci in un’altra avventura. Rella mi propose di lavorare su Paul Valéry, ritoccando la sua traduzione – fantasmagorica – del Cimitero marino, aggiungendo Monsieur Teste e il saggio declamatorio del poeta francese, A proposito del Cimitero marino. L’elaborazione fu affascinante, faticosa. “Tengo molto al Valéry forse perché è l’ultima cosa che ho scritto, in una situazione già allora problematica che si è fatta sempre più difficile. Spero di uscirne. Spero”, mi scriveva, il 16 aprile di quest’anno. Il libro era appena stato licenziato, sempre per De Piante, con un titolo paradossale, Paul Valéry. Il poeta maledetto. Il primo distico dall’ultima stanza del Cimitero marino, nella versione di Rella, ne riassume l’estro, da avventato più che da accademico:

“Si leva il vento!… Avventuriamoci alla vita!
Apre e chiude il mio libro l’aria infinita”

Lavorare con Franco Rella intorno a due poeti così prodigiosi, i poli del secolo, Rilke e Valéry, è stato un privilegio; auscultare i suggerimenti di un sapiente, uno che snidava le ombre e sa che è giusto avere paura della luce. Il continuo gocciolio delle sue rade parole. Il prato del pudore. In calce, ricalco un paio di recenti dialoghi intrattenuti con Rella, per carpirne il portamento.

La notizia della morte di Rella ha cominciato a circolare la sera del 14 luglio: un mese fa avevo scritto su “Pangea” de La solitudine del Minotauro. “Carissimo Davide, ancora in ospedale leggo il tuo Minotauro. Vorrei comunicarti la gioia con cui l’ho letto, ma mi mancano le forze. Spero in una svolta e magari di venirti a trovare”. Il 24 giugno, su “il Giornale”, uscì un articolo sul ‘suo’ Valéry. Mi arriva un messaggio di Rella: “Non vedo l’ora di essere un tuo vero interlocutore”. Da mesi, inutilmente, visto il male, gli chiedevo di discutere insieme, di ideare qualche altra cosa. Ci intrigava il ‘doppio’.

Non ci siamo mai più visti – l’impossibile rende la maestria infinita, moltiplica l’affetto. (d.b.)

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“Valéry, un paradosso”. Dialogo con Franco Rella

Ogni scrittore si rivela nel momento della crisi; ogni scrittura ha il proprio sigillo – il proprio blasone – nell’istante in cui si vanifica. Così, Friedrich Hölderlin diviene poeta nel 1805, l’anno in cui è dichiarato folle e Rimbaud si rivela a se stesso nel 1873, quando sceglie di dimenticare in una tipografia di Bruxelles 500 copie della Stagione all’inferno fresche di stampa. La grande letteratura si fa lì, sulla soglia della svolta, nell’attimo in cui la finzione narrativa è la sola verità, in cui l’uomo sovrasta l’artista e il silenzio, la minaccia dell’angelo, vince. Ogni grande scrittore ha la sua Arzamas, la stazione di posta in cui, nel 1869, Lev Tolstoj, in viaggio per trattare l’acquisto di un terreno, si sveglia, di soprassalto, alle 2 di notte, e scopre “una tale angoscia, paura, orrore, come non avevo mai provati…”. L’insensatezza del tutto, la certezza che ciò che si scrive è futile, che l’arte è refolo di nulla. Se uno scrittore non penetra in tale crisi, resterà per sempre uno scrivano, un servo.

Paul Valéry la propria crisi l’ha vissuta a Genova, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1892. Da allora, il poeta abdica alla poesia, dandosi alla scrittura nascosta, depositata nella mole affascinante e criptica dei Cahiers, “migliaia e migliaia di pagine che comincia ad accumulare giorno dopo giorno, instancabile, dalle cinque alle otto della mattina” (Franco Rella). Secondo alcuni, i quaderni di Valéry – pubblicati, in parte, da Adelphi – sono l’autentico capolavoro del poeta.

Dalla crisi, Valéry emerge con un anti-romanzo, il ciclo dedicato a Monsieur Teste – “una Chimera della mitologia intellettuale” – e un poemetto di claustrale perfezione, Il cimitero marino. In qualche modo, Valéry porta la letteratura verso un punto di non ritorno, oltre il quale c’è il silenzio, il ripudio. Non ho detto punto morto, però. Il primo verso dell’ultima stanza del Cimitero marino – “Le vent se léve!… Il faut tenter de vivre!” – va sussurrato con l’intensità dell’epigrafe rimbaudiana, “Elle est retrouvée./ Quoi? – L’Éternité”.

Partendo da una considerazione di Yves Bonnefoy, secondo cui Paul Valéry “nel nostro tempo è il vero poeta maledetto… condannato alle idee, alle parole”, Franco Rella, tra i pensatori più appartati e singolari di oggi, ha tradotto e commentato Monsieur Teste e Il cimitero marino in un libro dalla bellezza, viene da dire, fieramente pericolosa, Il poeta maledetto (De Piante, pagg. 170, euro 20,00). Il filosofo, che qui abbiamo interpellato, mostra infatti “il lato oscuro che la poesia non può né rimuovere né sublimare”, portandoci al cospetto delle domande impossibili, sulla vita e sulla morte.

Nei suoi ultimi appunti, Valéry scriveva di un cuore – “my heart” – che “trionfa più forte di tutto”; chissà se è il bene, questo – o l’abisso.

Paul Valéry, poeta icastico, cattedratico, “di Stato”, viene qui considerato come un “poeta maledetto”. Perché?

Valéry è un paradosso. È uno dei massimi poeti del Novecento che però si è mosso a partire da un ripudio della poesia. In una mitica (o mitizzata) notte del 1892 Valéry decide che tutto quello che poteva essere espresso in poesia era già stato espresso e di fatto fino al 1917, quando pubblica La giovane Parca, non scrive più poesia. Yves Bonnefoy in un breve polemico saggio parla di Valéry come di un “poeta maledetto”. Io ho cercato di dare peso e senso a questa affermazione mettendo in luce come Valéry abbia dapprima combattuto contro la poesia, vale a dire contro la sua stessa vocazione poetica, e poi abbia cercato di limitarla ad un gioco tecnico, ad un esercizio accademico. Poète maudit, non per i contenuti ma per la sua ostilità verso la poesia.

Che legame possiamo istituire tra Monsieur Teste e il poeta del Cimitero marino?

Monsieur Teste, un testo straordinario che si è sviluppato durante un arco di tempo e che ha lasciato delle tracce su tutta la produzione di Valéry, è la creazione di un personaggio che è una sorta di guardiano che vigila contro ciò che definisce la poesia come un’ulteriorità rispetto alla logica, richiamando ad un feroce razionalismo, così radicale da diventare un vero e proprio irrazionale. È Teste che dice: “transiit classificando”. Teste, il testimone, non cerca il senso del mondo, ma lo classifica. Il cimitero marino, uno degli esiti più alti della poesia del XX secolo ne è l’antitesi. Sono le due facce del “paradosso Valéry” che si attraggono con la stessa forza con cui si respingono. D’altronde Kierkegaard ha affermato che proprio il paradosso è pensiero.

Il cimitero marino è poemetto sigillato, cifrato, pare, pura effervescenza di luci. Che “senso” ha? E poi, quali strategie ha adoperato per tradurlo?

Valéry ha detto che non ha alcun senso. Dunque, è una sfida. Il poema ha avuto molte traduzioni e quindi ha tentato molti. Io sono stato tentato proprio dal suo presentarsi come testo sigillato ed ermetico, ma pieno di immagini di luci di suoni.  Dopo averlo letto e riletto ho deciso di accettarne la sfida. Parlando del Cimitero marino Valéry parla di sillabe, di rime, di versificazione. Il poema è composto da ventiquattro strofe, di sei versi ciascuna, vincolate dall’uso delle rime: AA-B-CC-B. Ho deciso di usare la stessa struttura, con le rime articolate nello stesso modo. Questo ha reso necessario un lavoro sulla lingua italiana, e forzare la forma di alcune parole. Questa lingua, che rispettava ogni aspetto del testo, ogni immagine e ogni sensazione, al tempo stesso era la mia lingua del Cimitero marino. È stata un’esperienza formidabile.

In un libro precedente lei ha legato l’opera di Valéry al concetto di “cantare la morte”. Che cosa intende?

Valéry è il poeta della morte, come lo è Rilke, che per questo gli è così vicino. Si può dire che entrambi non hanno parlato di altro. Il grande ciclo di Narciso, altra figura rilkiana, che lo accompagna fino alla fine della vita quasi come – così scrive – “una autobiografia”, è la poesia dell’io che si scopre nella morte.

La poesia è sempre in lotta con il suo specchio, il silenzio, il deserto, la diserzione dalla parola. La nudità in vece dell’ornamento. Questa dinamica è valida anche in Valéry?

Anche in questo Valéry è un paradosso. Il silenzio, il deserto, la diserzione sono la poesia stessa privata del suo senso che dobbiamo cercare malgrado Valéry, contro le sue raccomandazioni. È come se Valéry tenesse insieme la poesia e il suo contrario.

Che ruolo ha, nell’oggi, il dire poetico, un affronto lirico come quello di Valéry?

Non possiamo fare a meno di poesia, oggi, e Valery è un grade poeta.

*L’intervista è uscita in origine il 29 aprile 2023 su “il Giornale”

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“La poesia è violenza e rischio”. Dialogo con Franco Rella sulle questioni fondamentali

Nell’era in cui i filosofi si affannano a spiegare l’attualità, calice avvelenato del pensatore che si fa opinionista per delirio di fama, nel crogiuolo di dibattiti astrusi, astrologici, distanti dalla cruda, fetida carne del mondo, Franco Rella continua, con ostinazione monastica, a ribadire le questioni capitali: la vita, la morte, la tragedia, il senso dell’arte, il grido, l’abisso. Pare, Rella, uno di quei sapienti che stanno alle porte della città, a dispetto di mercanti e venditori di destini: segna cifre e ideogrammi sulla sabbia, divina le nuvole in relazione ai palazzi. Non c’è nulla di oracolare, lì, ma la cruenta potenza di un pensare non ordinario, che assume in sé il privilegio del mostruoso. Nessuna risposta, nessuna avvincente polemica: l’ustione, semmai, la scabrosa indagine della propria vertigine, la lotta primaria, insomma; perché si vive se poi si muore?, che cos’è la morte?, come si fa ad amare la cosa che muore?

L’ultimo libro di Rella, L’arte e il tempo (Jaca Book, 2021), ha una natura sapienziale, diretta, lascia spine sulla lingua, un sentore di inquietudine, la rovina nella gloria. In capitoli anche rapinosi si parla, tra l’altro, del rapporto tra l’arte, che supera il tempo, che eterna l’effimero, con la morte:

“La morte è la fine del tempo, ma se l’opera si pone nello spazio dell’assenza di tempo, l’opera pone paradossalmente se stessa e l’artista nella condizione di non poter morire. L’assenza di tempo è il tempo della morte, ma è anche inevitabilmente il tempo in cui nulla può avvenire, nemmeno la morte. Stare dunque in prossimità della morte, senza mai possederla, è l’esercizio dell’arte”.

Si parla della bellezza come rapporto con il terribile, se ne estrinseca la forza distruttrice, enigmatica, ineffabile; il fatto che l’arte, proprio perché s’intrattiene con il bello, affronti l’osceno, il laido: “La poesia e l’arte chiamano alla verità magmatica che sta sotto le parole, e che le parole nascondono. Orrore, fogna, lordura, istinto, sfrenatezza… L’arte solo bella è dunque l’assenza della vera bellezza”.

L’arte crea un mondo per distruzione, partorisce inchinandosi a ciò che si sfascia: è il sacrificio, patto implicito tra artista e opera, ripudia tutto e tutto ti sarà dato: “Il gesto dell’artista è un gesto cosmogonico. Crea un mondo ma questa creazione muove da una violenza implicita al suo gesto. L’artista lo sa. È il rischio che egli sa di dover ogni volta affrontare: decostruire per costruire. O, per usare una straordinaria espressione di Kafka, l’artista è impegnato in una distruttiva costruzione del mondo”.

Verità arcaica, bianca e dura: l’arte è violenza. Nulla di luttuoso però è in questo: “L’artista, ha detto Rilke, deve giungere al limite estremo, all’ultimo confine”. L’artista è piantato nella morte, piantona la morte: già, ma come salvare ciò che muore, la cosa che appena la nomini si disfa? “Se le cose vivono nel trapassare capiscono che dicendole semplicemente tu le lodi”, scrive Rella. Tutto muore per risorgere in noi, allora, il punto della massima disperazione è quello da cui scaturisce la creazione, scandita di fuochi: “Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro/ vengono meno… Innumerevole esistenza/ mi si sprigiona nel cuore”, scrive Rilke. La morte è la possibilità per cui una cosa, un viso, si immilla, esplode – la morte non è la fine ma il punto d’avvio.

Il libro si conclude con un repertorio di opere, che non spiegano, non illustrano, non sono didascaliche al pensare, stampelle al verbo. Semmai, turbano – costruiscono, cioè, un libro nel libro. Si va dalle sculture stupefatte dell’Antelami all’Origine del mondo di Courbet, da Diego Velázquez a Van Gogh, dall’Autoritratto nudo di Dürera un fotogramma tratto da Apocalypse Now, l’indicibile faccione di Marlon Brando. Il tormento delle cose ultime, perdute, senza ricatto, collocate tra oblio e memorabile – di cos’altro deve occuparsi il pensatore, che con un coltellino da ragazzo sega i garretti del gigante, mette sotto scacco le convenzioni, raduna macerie e cerbottane? Che gli altri facciano chiasso – noi, siamo andati ad ascoltare il filosofo.

Siamo disposti a credere che l’arte vinca il tempo, anzi, che l’arte sia la misura del tempo (da alcuni manufatti diamo cronologia all’evoluzione umana; le chiese romaniche ci aiutano a capire quel periodo storico; Raffaello e Michelangelo sono il Rinascimento come Bernini rappresenta l’era barocca). Eppure, anche l’arte svanirà – in qualche modo, già svanisce. Dunque, come si regola il rapporto tra arte e tempo?

C’è un contesto in cui l’opera si colloca per cui possiamo dire che Bernini sta al barocco. Ma il rapporto che io ho cercato tra l’arte e il tempo si pone là dove l’arte interroga e mette in questione il tempo. Le immagini che sono nel libro non vogliono assolutamente essere di supporto al testo, ma credo possano aiutare a capire cosa voglio mettere in luce. La sequenza delle immagini si apre con l’“Inverno” di Antelami, un vecchio che rappresenta la fine dell’anno, ma anche la sua stessa fine, e forse anche la fine del mondo. Questo mi pare di vedere nei suoi occhi spalancati, allucinati. In copertina ho scelto un quadro di Joseph Cornell che mette una serie di orologi, il tempo, e un pappagallo in una gabbia. Il mio libro non vuole parlare dell’arte nel tempo. Vuole scoprire come l’arte pensa il tempo.

Oggi l’arte celebra l’effimero: è decorativa o facilmente provocatoria. Nasce nel tempo per esserne inghiottita. L’arte non è più miliare, non misura il tempo. Siamo destinati dunque a ‘perdere tempo’, siamo forse in un tempo ormai a-storico, fuori dalla Storia, di cui siamo spettatori inermi?

L’ultimo scritto di Gilles Deleuze, L’immanenza, una vita, coglie ciò che l’arte è diventata, ciò a cui pare il pensiero voglia tendere. Non c’è passato e non c’è futuro, ma solo l’istante, l’“ecce”, l’“ecco qui”. L’“ecceita” di Deleuze è un presente assoluto e indifferenziato, intransitivo. È il tempo di alcune esperienze dell’arte che abita la modernità estrema, in cui c’è una sottrazione del tempo, una sottrazione della storia e delle storie.

Nel suo libro i riferimenti – culturali oltre che artistici – sono per lo più legati al Novecento. Pare che il secolo scorso sia stato un immane Moby Dick, una esplosione di pensieri, di intuizioni, a fagocitare tutto. È come se il Novecento abbia squalificato ogni altro pensare: oggi in effetti il pensiero è demandato alla scienza, alla strategia dei governi, all’economia. È così?

Mi rendo conto che il mio pensiero dialoga soprattutto con il Novecento, con l’immane Moby Dick del Novecento come lo definisci. Ho l’impressione di muovermi lungo i sentieri tracciati da Kafka, da Proust, da Beckett, da Fontana e da Bacon. Lungo questi percorsi incontro le domande con cui essi hanno interrogato il mondo, e imparo io stesso a interrogare anche l’opacità del mondo in cui viviamo, in cui pare ci siano solo risposte. E queste risposte rinviano all’efficacia delle strategie conoscitive, non al senso che esse esprimono. Al senso che esse dovrebbero cercare.

In un capitolo, lei ragiona sui rapporti tra “arte e violenza”. Ecco, oggi l’arte è didattica, semmai prona allo show, allo spettacolo, al limite educa. Deve indignare, forse, ma mai sconvolgere. E l’artista, servo del denaro, si mette al servizio del proprio tempo. È così? Cosa è accaduto?

La poesia è violenza e rischio. Mette in questione come ha detto Bataille “i linguaggi del giorno”. La poesia invita alla violenza. Quando leggo un poema sono indotto a destrutturare la sua costruzione. Procedo con quella che Kafka ha definito una zerstörende Aufbau, una costruzione che procede attraverso la distruzione. “Servo del denaro” chiedi? Velázquez risponde ai suoi committenti da cui era pagato e strapagato e tuttavia mette ugualmente in questione l’arte del suo tempo, mette in questione anche il potere a cui deve rispondere. Nelle Meninas al centro del quadro c’è lui, con il suo pennello, accanto stanno le Meninas che egli non guarda, e i regnanti che sono solo un opaco riflesso in uno specchio in fondo alla sala.

Mi dica qual è l’opera – artistica e letteraria – che più la ha folgorata in questi ultimi tempi. Un’opera che conforti nella dedizione, che ci stimoli a superare questo grado zero di rabbia, di negligenza, di grigiore. 

Una vera folgorazione La colazione nell’atelier di Édouard Manet a Monaco, quadro incontrato nell’Alte Pinakothek dove era stato spostato per lavori alla Neue Pinakothek. Mi pareva di non averlo mai visto. In primo piano un giovane. Negli occhi di quel giovane, come in quelli di Berte Morisot nel quadro Il balcone c’è mistero, c’è un segreto inquietante. Poi Friedrich Dürrenmatt, la rilettura del Minotauro e dei testi legati a quella che lui definisce la drammaturgia del labirinto.

Gruppo MAGOG