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Letterature
Luigi Mascheroni
La Storia è implacabile contro gli apostati
Lev Šestov
Laddove Šestov vedeva un abisso, la ragione vede un ponte per aggirarlo e passare oltre. È su questa soglia che lucidamente si arrestano i filosofi di professione, i grandi sublimatori del dramma della contraddizione, e dove Šestov volle portarli – nel cuore stesso di questa contraddizione. A ricordare una verità non tanto occulta ma forse più necessaria della ricerca del Bene morale, poco frequentata, scomoda… everybody dies, but not everyone lives. Un territorio poco domestico, troppo misterioso per ammettere un’analisi scientifica o la placida celebrazione della lumière de la sagesse, dove la ragione si rivela inadeguata, non solo a risolvere i problemi più profondi, ma anche a porli.
In quel qualcosa di potenzialmente letale cui l’omnitudine deve inevitabilmente, e nei modi più insospettabili, infliggere la necessità dello spirito del tempo di ogni epoca… proscrizione, biasimo, oblio, decantamento, scherno, congiura del silenzio, riduzione critica, filosofica, psicopatologica, letteraria o mitografica, nel migliore dei casi. L’apaisement insomma. Nel dovere di ridurre lo scisma che tocca le corde profonde del reale, la possibilità del crampo gnoseologico, l’ammutolire della speculazione che rischia di infrangere il vaso dell’erudizione. Di fronte all’assurdo e al tragico la speculazione tace e occulta, attraverso la persuasione, se possibile, con la forza, se necessario. Con l’eterno esorcismo dello hiatus irrationalis, dell’inquietudine metafisica, di un genere di sapienza che viene disprezzata quanto il caos.
Un territorio spirituale in cui le domande fondamentali di tutti i tempi vengono chiamate all’appello con una radicalità inaudita, irritante; temi mai risolti e, per certi aspetti, irrisolvibili, che si porranno in eterno: “Per timore che la poesia ci accusi di una certa durezza e stoltezza… dobbiamo aggiungere che esiste un antico dissidio tra la filosofia e la poesia”, dice Platone. Tra l’intelletto e la vita. Nella contraddizione della lotta per la conservazione della vita umana a detrimento della vita stessa e di quella dei singoli.
Ciò che per la ragione e i critici era ed è sempre stata un’anomalia, per Šestov, questo “magnifico iniziatore all’interrogazione e persino alla perplessità”, sarà al contrario il segno di un’autentica dignità metafisica e un titolo di gloria. Una verità sviluppata con rigore, poiché “la philosophie capitule au moment où elle s’ouvre à l’homme”, scrive Cioran; per sostenere, come farà Leopardi a più riprese, che i veri filosofi, i più profondi, sono massimamente anti-filosofici. È l’attualità dell’autentico temperamento metafisico; osmosi tra fisiologia, psicologia e metafisica, ormai luogo comune letterario; fertile alleanza tra biologia e gnosi. Dove invenzione fantastica, contemplazione lirica e meditazione filosofica saranno indissociabili, e non come semplice arte, ma come potenza conoscitiva superiore alla filosofia positiva, a quella mera paralisi dell’immaginazione creatrice che favorisce la tirannia dei valori speculativi o l’universo dell’assoluta finitudine che non risparmia il mistero di niente e di nessuno.
Siamo oltre le mode letterarie, sulla soglia di ogni speculazione, dove si mette in causa il fatto stesso di esistere; in una ricognizione intorno al paradosso della libertà beyond reason, portata avanti dai metafisicamente single. Quella libertà che gli uomini sembrano temere sopra ogni cosa, e che paradossalmente “rappresenta un assoluto che non è consigliabile accogliere, ma che è anche disdicevole respingere”. Una potenza irresistibile, eternamente inseguita da qualche fondamentale circoscrizione storica, contro una forza fredda e immutabile. Un assoluto respinto e giustificato, come può esserlo solo quel territorio che obbliga ad andare oltre ogni lettura estetica, esegesi letteraria o critica del pensiero e dell’arte; oltre quella dimensione dove viene imposta la saggezza alla potenza, l’ordine alla creazione, la necessità alla libertà.
“Avere paura di qualcosa non è un buon motivo per mancargli di rispetto”, scrive Šestov, vox clamantis in deserto che faceva appello al passo da compiere per ascoltare con più decisione le obiezioni dell’assurdo, della vita. Colui che, paradossalmente, è stato forse il più grande storico della filosofia, il più profondo e allo stesso tempo il suo più implacabile nemico. Tutta la sua opera ha infatti avuto come scopo quello di minare alla radice il prestigio della filosofia speculativa. La verità, per lui, si trovava nella letteratura e non nella filosofia. Posizione, questa, che gli valse l’eterna ostilità dei filosofi ufficiali; pressoché ignorato da questi ultimi (poiché anche una giustificazione è un modo di passare oltre), egli sopravviveva tra i letterati… D. H. Lawrence, eloquente, sosterrà che Šestov non era un nichilista, mentre al contrario lo erano i suoi detrattori.
Šestov, come ricorda Benjamin Fondane nel Rencontres avec Léon Chestov, amava riferire un episodio in cui Pierre Janet, parlando di misticismo in una conferenza, lo definiva un “grande mistico”. Per Šestov significava “grande idiota”, e solo perché l’autentico pensiero non è speculativo, e le sue domande non sono contenute in una filosofia. Come se Janet in realtà affermasse: “Le cose che dice Šestov sono senza senso, ma è un mistico, e in quanto tale è autorizzato. Ma noi, noi intelligenti, dobbiamo evitare tali sciocchezze.” Poiché la ricerca della profondità, e non l’abuso della speculazione, equivale a un verdetto di morte intellettuale o quasi; irricevibile o inutile per la critica della cultura e la celebre probità intellettuale di Kant, ossia per la realtà guardata con gli occhi di tutti e una falsa critica della ragione e la sua apologia, il profondo viene trattato come un puerile noir cosmogonico.
I filosofi esistenziali, “le buone ragioni dell’irrazionale” (G. Rensi), avevano infatti anche il grave difetto, agli occhi dell’opinione comune, di riportare l’ambito della radicalità del pensiero tragico non solo nel campo dell’arte o del religioso, ma anche in quello più generale della critica della cultura, nel tentativo, ancorché disperato, di riconquistare il reale, l’imperfezione, la contraddizione, l’impuro e la tragedia umana vissuta dal singolo esistente; proiettando oltre la morale, la politica, l’economia, l’origine e la tragedia dell’alienazione umana, additando la sua autentica origine metafisica… il peccato originale, l’albero della conoscenza, la caduta nel sapere, in quella realtà che “soffoca la vita come l’edera soffoca l’albero”, dove la libertà diventa una lotta contro la natura: è qui che l’uomo della tragedia rigetta un’inaccettabile resa incondizionata, l’apologia della rinuncia a sé, lo stoicismo, quella dimensione del pensiero che impone la rassegnazione al fatto che non esistono istanze al di fuori della ragione. Il recinto invalicabile dei pneumatikoi idealisti e dialettici. L’autunnarsi della complessità del mondo, per vegetare in una complicata sofisticazione umana.
Fatto stupefacente per noi mortali ragionevoli e justice seeking, la vera critica della cultura, la più profonda, si rivela allora essere quella che conferisce un pensiero, un valore e un potere anche a quel territorio di cui la filosofia moderna, al pari di quella antica, non ne vuole sapere; giacché, per prevenzione o occultamento, da sempre ci si attiene agli a priori di ciò che può essere scritto o pensato da chiunque e non da qualcuno, pagando così il tributo alla credenza generale di ogni tempo: è il mondo, l’omnitudine, più dei singoli individui, ad avere infatti il diritto di occupare la Provvidenza, benché, paradossalmente, “lì, in quel gouffre interdit à nos sondes, sia stivata l’essenza di noi stessi” (Samuel Beckett).
Come notava Šestov, riguardo all’assurdo come dimensione del pensiero, tutti i filosofi fanno più o meno la figura di Jaspers: ammirava Kierkegaard e Nietzsche (Jaspers fu il primo a chiamare la loro: “filosofia dell’eccezione”) ma se ne allontanava, sostenendo che ci lasciassero “a mani e cuore vuoti”, “sono vuoti” appunto per questa loro eccezionalità; al pari di Coleridge e Wordsworth, che ammiravano Blake con riserva. Una riserva, questa, che continua ad appartenere in maniera esclusiva al mondo comune degli uomini, all’aurea mediocritas, dove nulla sembra davvero distinguere l’esercizio artistico da quello filosofico, ossia dal tentativo di ridurre un pensiero che si confronta con le esperienze delle contraddizioni assolute alla necessità delle contraddizioni comuni; quando, al contrario, il compito di chi guarda il mondo con i propri occhi è quello di sottrarre a questa stretta la ricchezza paradossale del pensiero, così da salvarlo dal tentativo di ridurre la vita a mite statistica umanista, a una visione dialetticamente più incoraggiante dell’essere umano.
Immaginiamo allora quale effetto potevano avere i misologos, gli spregiatori della ragione, gli immoralisti, gli annientatori del senso comune razionale – questo è il problema – su ogni pedagogo, umanista, storicista, teologo, scienziato e insomma ogni economia o logos di questa terra, e sulla folla che, non dimentichiamolo, “ha troppi occhi per aver uno sguardo”. Sono i casi al singolare, le eccezioni, pensatori inattuali che, proiettati oltre il danno della Storia, ne escono per vederne i confini e i limiti, insinuando al suo interno ciò che si trova oltre, portando talvolta l’ambiguità del caos a riprodursi in prosodia letteraria e metafisica; la loro scrittura suona vera e, incantevole illusione di presa diretta sui nostri nervi, sembra avere il polso della sorgente delle nostre perplessità. Sono loro a essere da sempre i più veri, i solitari, le potenti e patetiche singolarità sovrane prese da qualcos’altro, benché, ahimè, l’eccezione non costituisca un alibi per la ragione. E nessuna ignavia ratio, pantheon della cultura, erudizione o scienza potrà mai confutare questa verità:
“Le anime duplici, contraddittorie, hanno sempre avuto l’effetto di risvegliare l’umanità dal suo torpore.”
Lev Šestov
È il paradosso di un’esperienza spietatamente risanatrice, l’insondabile territorio della libertà individuale e dell’astrazione delle legge morale, il conflitto tra la sovranità del singolo e quella della comunità; laddove la tragedia smette di essere una questione meramente speculativa o, peggio ancora, un vitalismo che esalta e converte la vita in un assoluto filosofico, astratto, in qualcosa di troppo positivo per riflettere l’equivoco essenziale della vita. Significa, infine, affrontare le onde furiose del reale e non attenersi più ai comodi problemi astratti; un mondo, quest’ultimo, che Šestov non concepiva e che doveva essere superato, mettendo in causa la religione della logica che celebra l’autorità esclusiva degli adoratori dell’Odissea, il poema dell’interiorità e dello Spirito, gli eroi della ragione e della mente. Poiché anche il panlogismo è una soteriologia a cui si decide di aderire, una fede, un sogno, il sogno dei filosofi e l’uomo come sola risposta all’uomo; il pensiero e l’arte nel più grandioso tentativo di fuga dal reale mai concepito, che partorirà il culto dell’intelletto, il feticismo dell’intelligenza; di quell’intelligenza critica (la moderna lingua razionale della prosa scientifica) che, ricordiamolo, Valéry considerava superiore alla virtù poetica, creativa (il mito e il religioso vestono infatti il linguaggio poetico): il celebre “istinto intellettuale”, in vitro.
Così, alcuni franchi tiratori affermeranno, a loro rischio e pericolo, che la verità non si trova nell’intelligere, bensì nello sprofondare di ogni certezza e stabilità, nella divorante vertigine del sottosuolo, in quel mondo descritto da Dostoevskij e Gogol’ che non è solo della Russia, ma del mondo intero; in quella dimensione in cui è impossibile ricorrere all’omnitudine, all’etica, alla teoria della conoscenza, che si rivelano non essere più una garanzia assoluta, immutabile. Sono quegli esseri umani che fuggono, spesso loro malgrado, dalla tentazione di far scadere in mediazione dialettica, giustificazione etica e riscatto dall’assurdo, un’esperienza che non può né vuole avere giustificazioni. È “proclamare la propria volontà”, affermerà Šestov, non concepire la salvezza come dipendente da qualche ecclesia triumphans (e anche la critica lo è), l’inclinazione a restare fuori dalle religioni istituzionali e dall’immacolata concezione del sociale, cercare la salvezza da soli, la redenzione attraverso l’ignoranza, l’insofferenza verso la teoresi… Un’iniziazione rivolta, non al sociale, bensì all’individuo, da regione profonda a regione profonda. Un invito a proiettarsi oltre la fictio rethorica, l’abolizione immaginaria di resistenze reali, a quel sublime che, in preda a un’istintiva repulsione fisica, primitiva e brutale del profondo, ripugna ogni dramma personale, ogni esperienza diretta. Ancora una volta, è dare udienza alle eccezioni, alle metafore proibite viventi nel pantheon della cultura, a quella nobile e potente schiera di pensatori privati, i Giobbe seduti sul loro letamaio, che vanno avanti senza la guida di un altro filosofo, seguendo la suprema massima šestoviana:
“Il miglior modo di filosofare è parlare di se stessi.”
L’Umanità non ha dimenticato, si è solo abituata al dolore della perdita di questa dimensione, benché essa sia da sempre temuta.
Non a caso Dostoevskij è il cuore battente de La filosofia della tragedia e lo scrittore assolutamente necessario per comprendere Šestov, colui che Cioran definirà “il Dostoevskij filosofico contemporaneo”, un particolarissimo raisonneur, che avrà un ruolo determinante nell’esaltare il lato filosofico dell’autore delle Memorie del sottosuolo, la sua profondità, fino ad allora misconosciuta: “nessuno prima di lui si rese conto di quanto Dostoevskij fosse profondo”. Šestov è infatti la filosofia letta con gli occhi di Dostoevskij, con quella realtà che, al contrario, sprezzante, Jean Wahl definiva “bambinate”, Aldous Huxley “idiotic tragedies”, e Nabokov, detrattore di Dostoevskij, “il grigio mondo della malattia mentale, dove nulla può cambiare”. La dimensione delle menti stolte, secondo la celebre definizione di Spinoza… il tragico, come per la maggior parte di noi, era infatti la sua bestia nera, e perdersi in cogitationes sulla morte, per lui, non era da uomini ragionevoli. Quel tragico che per le anime belle sarebbe solo un’arte e un pensiero che, incapace di controllare il proprio caos, di rappresentare alcuna grande Idea, si lascia andare in un vicolo cieco o alla follia, al fatale errore di avventurarsi all’ultimo confine, in territori remoti e proibiti, inutili, precisamente laddove la sterile profondità dei teorici e dei semplici letterati, in cui è sublime “spiegare il King Lear di Shakespeare attraverso Bruto o parlare di Giobbe stando dalla parte dei suoi amici”, non è più di alcun aiuto.
Un solo interrogativo assilla qui l’uomo della tragedia… l’uomo deve forse cedere, farsi inchiodare alla croce per amore degli ideali, come Cristo, e vegetare in quella dimensione in cui vivere secondo natura significa vivere secondo ragione, e diluire l’orgoglio, normalizzare la sofferenza? La filosofia della tragedia risponde in un solo modo: NO. Non si vieta agli uomini di concepire la sofferenza come il segno di un’elezione intima, personale, di rigettare quel territorio esclusivo, assoluto della ragione dove “per essere come tutti e pensare come tutti, si deve cedere tutto”. Saggio è colui che rinuncia a sé… Per Šestov è da sempre il capitale della saggezza e della filosofia di tutti i tempi, della volontà di potenza della ragione, laddove ha luogo la neutralizzazione e il riassorbimento del principium individuationis nell’amor fati, per rimanere dentro i confini della ragione, dove vi pare, ma dentro: il fine dell’Idea, infatti, è sempre stato quello di indebolire la volontà, di promuovere, nella migliore delle ipotesi, un esercizio del tragico fuori dall’assurdo e dal potenziale vicolo cieco dell’incurabile. L’assurdo non va toccato, vissuto, ma solo sfiorato, sognato – intangibile, sublime: sobrio, ci dicono le linfe sillogizzanti, ossia i pallidi intellettuali, gli estenuati, i filosofi da scrivania. È solo la tentazione della vita, il fetore del reale trasformato in profumo letterario, che si scioglie in una trama vaporosa, immateriale.
Una domanda allora sorge spontanea: filosofia della tragedia, filosofi esistenziali o esistenzialismo, esistenzialisti? È l’abisso che da sempre separa la profondità dalla specializzazione sull’esistenza, dagli ideologi dell’esistenza:
“Poco fa dicevo a un tedesco che è ridicolo parlare di filosofi esistenziali e farne un unico fascio. La differenza fra Pascal e Heidegger è quella tra uno Schicksal e un Beruf.”
Emil Cioran
Un’osservazione degna di nota, se ancora oggi Šestov viene definito un “esponente dell’esistenzialismo”, quando in realtà esistenzialismo e filosofia esistenziale erano diametralmente opposti, perfino antagonisti, poiché il primo fu una versione infinitamente meno profonda – la versione umanista, filosofica, astratta – della filosofia della tragedia; quando il Dna dell’esistenzialismo francese è stato inoltre spiacevolmente ed essenzialmente un’emanazione di una certa filosofia tedesca, in particolare di quella di Heidegger, e, come il surrealismo, un tentativo astuto di sfruttare i temi dell’irrazionale (le categorie esistenziali, soggettive) con mezzi razionali; ossia una tortura istruita, intelligente, un mero sfogo intellettuale per i nostri atti mancati; una razionalizzazione e pastorizzazione del tragico. E quando, a maggior ragione, Šestov non può nemmeno essere annoverato tra gli esponenti dell’esistenzialismo religioso, ossia di una filosofia religiosa che, in ultima istanza, sarà un ritorno ipocrita e velato a Platone, Kant, Hegel; a un ricamo filosofico sull’assurdo. A qualcosa di estraneo all’essenza dell’autentico religioso.
Quale eredità possiamo aspettarci, allora, da simili personalità? Cosa insegnano pensatori e scrittori come Šestov? Precisamente, non insegnano, giacché il pensatore privato è incompatibile con la pedagogia, inevitabilmente adatta al conformismo, al convenzionale:
“L’educazione può modificare il livello delle conoscenze e delle opinioni esplicite degli uomini, ma esiste un livello più profondo, e qui essa è impotente.”
Isaiah Berlin
Šestov mostra solo una via. Quella di un viaggio oltre le tassonomie e le astrazioni, la facoltà di vedere il mondo con i propri occhi, e una conseguenza formale fin troppo misconosciuta dai suoi commentatori, dai compositori d’idee altrui, ancora oggi, quella di distruggere i falsi miti, per tornare all’autentico pensiero, alla profonda semplicità della scrittura (“la semplicità è difficile”, scrive Rilke), abbandonando la filosofia e il suo jargon, il mondo della prosa analitica, la moderna lingua razionale della prosa scientifica, lo stile della letteratura da note a piè di pagina, la terminologia scolastica, il marchio accademico; chiamando in causa non solo la tendenza dello spirito che l’assenso a questo errore implica, ma anche l’adesione formale al pensiero astratto. Nella volontà che il pensiero non sia più solo una difesa contro la vita, un’evasione…
“I pensieri non sono assimilati dai libri, spuntano dalle ossa.”
Andrej Sinjavskij
In un’epoca di mezzi pensatori, mezzi poeti e fasulli in genere, è forse quanto di più affascinante rimane dopo duemila anni di speculazione, gli insoumis, una messe di uomini sfuggenti e il valore assoluto delle verità viventi, che vanno vissute e non solo conosciute; laddove la creazione respira ancora tra le pieghe dell’erudizione, della stretta intellettuale. Qualcosa che è impossibile liquidare come un semplice episodio d’ispirazione nietzschiano-nichilistica.
Coinvolgendo indifferentemente credenti e non credenti, solo la dimensione metafisica del tragico sembra gettare la giusta luce sulla fisiologia del mondo:
“Tutti noi ci siamo disabituati alla vita, tutti zoppichiamo, chi più chi meno. Ce ne siamo anzi talmente disabituati che sentiamo talvolta un certo disgusto per l’autentica ‘vita vivente’, e perciò non possiamo tollerare che ce la ricordino.”
Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo
Luca Orlandini
In copertina: Michail Aleksandrovič Vrubel’, Autoritratto, 1882-83